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Colpo di Stato in Myanmar: nelle foreste ci si addestra per resistere contro la violenza dell’esercito che ad oggi ha fatto oltre 500 vittime

3 Aprile 2021 14 min lettura

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Colpo di Stato in Myanmar: nelle foreste ci si addestra per resistere contro la violenza dell’esercito che ad oggi ha fatto oltre 500 vittime

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Insegnanti, medici, operaie tessili, studenti, operatrici sanitarie, monaci buddisti. Donne, uomini, ragazze e ragazzi. Partecipano tutti alle diverse manifestazioni di protesta e di disobbedienza civile organizzate negli ultimi due mesi contro il colpo di Stato della giunta militare birmana che dall'1 febbraio controlla Myanmar dopo aver destituito il governo di Aung San Suu Kyi (che due giorni fa è stata accusata anche di aver violato una legge sui segreti di Stato risalente all'epoca coloniale) a causa di presunte frodi nel corso delle elezioni dello scorso novembre vinte dal partito dell'ex leader di fatto.

Tutti hanno motivi per esserci.

Leggi anche >> “Myanmar, almeno 18 morti nel giorno più sanguinoso delle proteste contro il colpo di Stato”

Le donne che rifiutano il sistema patriarcale che le ha represse per mezzo secolo e il cui spettro si riaffaccia con i militari al potere. Gli uomini che respingono un regime sanguinoso e violento che esclude qualsiasi forma di democrazia. Le ragazze e i ragazzi che vogliono essere padroni e artefici del proprio futuro, protagonisti in uno Stato libero.

Tutti hanno un motivo per esprimere il proprio dissenso. Tutti vogliono vivere in un paese diverso. Tutti trovano il coraggio di non arrendersi. Nonostante il prezzo da pagare sia altissimo perché in gioco c'è la loro stessa vita.

L'escalation di violenza dell'esercito birmano che ha provocato ad oggi 543 vittime e l'arresto di 2.741 persone, secondo i dati forniti da Assistance Association for Political Prisoners (Burma) (AAPP) – un'associazione no profit con sede a Mae Sot, Thailandia, che si batte per la tutela dei diritti umani – non solo non accenna a diminuire ma si è intensificata in maniera grave e preoccupante.

Il 27 marzo l'ultimo massacro. “Il giorno della vergogna”, come è stato definito da Dr. Sasa, inviato speciale alle Nazioni Unite del Comitato che rappresenta il Pyidaungsu Hluttaw (CRPH), il parlamento del Myanmar. 141 cittadini uccisi per mano dei militari, nella giornata in cui vengono celebrate le forze armate e che ricorda l'inizio della resistenza dell'esercito birmano all'occupazione giapponese nel 1945. Tra le vittime anche 11 minori.

Gli uomini dell'esercito uccidono nelle case, negli ospedali, durante i funerali. Arrestano manifestanti e giornalisti, operatori della Croce rossa e dipendenti statali.

Nonostante la violenza e la ferocia le proteste vanno avanti, con modalità differenti, mentre incombe il pericolo di una guerra civile.

Mercoledì 31 marzo l'inviata speciale delle Nazioni Unite in Myanmar ha implorato il Consiglio di sicurezza di intervenire con urgenza per scongiurare altre morti ed evitare un conflitto imminente e una crisi economica.

Nel corso della sessione che si è svolta a porte chiuse, Christine Schraner Burgener ha spiegato ai quindici membri del Consiglio che i generali che hanno preso il potere non sono in grado di gestire il paese e ha avvertito che la situazione può soltanto peggiorare.

"Le conquiste faticosamente raggiunte dalla transizione democratica e dal processo di pace stanno scivolando via", ha detto.

“Prendere in considerazione tutti gli strumenti disponibili per intraprendere un'azione collettiva e fare ciò che è giusto e quello che merita il popolo del Myanmar per prevenire una catastrofe nel cuore dell'Asia”, è l'appello che ha rivolto.

Finora il Consiglio ha rilasciato due dichiarazioni in cui ha espresso preoccupazione e condanna per la violenza usata contro i manifestanti, evitando però sia di stigmatizzare il colpo di Stato dell'esercito che di minacciare un intervento che Cina, Russia, India e Vietnam non approverebbero.

Nello stesso giorno in cui si è riunito l'organo delle Nazioni Unite l'esercito birmano, che ha precluso ogni contatto alla maggior parte del mondo, ha annunciato di aver attuato un cessate il fuoco unilaterale di un mese, fatta eccezione per quelle azioni che mettono a repentaglio le operazioni di sicurezza e la gestione amministrativa del governo. Escludendo, in pratica, i movimenti di protesta.

Le forme di dissenso

Inizialmente pacifico il dissenso si è manifestato in varie forme. Subito dopo il colpo di Stato lunghi cortei si sono snodati nelle città birmane. Prima a Yangon, la città più grande del Myanmar, poi a Mandalay, la seconda. Cori, striscioni, clacson di auto, suoni di pentole e padelle hanno animato le strade di tutto il paese.

Attraverso le app di messaggistica sono state organizzate e diffuse le proteste, nonostante Internet e i social funzionassero a singhiozzo a causa del blocco imposto dai generali birmani per motivi di "stabilità".

Il personale di 70 ospedali e reparti medici del paese si è astenuto dal lavoro. I nastri rossi sono diventati il simbolo di una campagna di disobbedienza civile a cui hanno aderito anche insegnanti, studenti e dipendenti statali che si sono rifiutati di lavorare per le autorità a meno che il governo eletto non fosse ripristinato.

Quando è iniziata la repressione i dimostranti hanno costruito barriere per difendersi e per ostacolare i movimenti dei militari. A Yangon i manifestanti hanno parcheggiato le proprie auto al centro delle strade e sui ponti per impedire che i camion dell'esercito si spostassero bloccando le proteste.

A ventidue giorni dal colpo di Stato è stato indetto uno sciopero generale. Le aziende di tutto il paese hanno incrociato le braccia bloccando l'economia, mentre centinaia di migliaia di manifestanti scendevano in piazza partecipando a quelle che i media locali hanno definito le più grandi proteste da quando i militari hanno preso il potere.

Con l'intensificarsi dell'azione repressiva e l'imposizione della legge marziale in alcune aree di Yangon e Mandalay, le manifestazioni in strada sono diminuite e sono state preferite altre forme di resistenza.

Quando il 24 marzo i soldati hanno fatto irruzione in una casa uccidendo una bambina di 7 anni mentre era seduta in braccio al padre (la vittima più giovane accertata ad oggi), i dimostranti hanno proclamato uno "sciopero silenzioso" che prevedeva la chiusura di attività commerciali e negozi e l'astensione dal lavoro.

A quasi una settimana di distanza, il 30 marzo, Yangon si è risvegliata inondata dalla spazzatura. Le immagini circolate su Twitter hanno mostrato cumuli di immondizia agli incroci delle vie principali dopo che i manifestanti avevano chiesto ai residenti di lasciare i rifiuti per strada come forma di disobbedienza civile.

La mossa è arrivata a dispetto dell'avviso diramato attraverso gli altoparlanti in alcuni quartieri della città con cui i cittadini erano stati invitati a smaltire adeguatamente la spazzatura.

Fiaccolate e veglie si sono tenute nei giorni scorsi in tutto il paese in memoria delle vittime della repressione militare.

Dopo settimane di proteste pacifiche, la linea del fronte della resistenza si sta mobilitando in una sorta di guerriglia. Nelle città i manifestanti hanno costruito barricate per proteggere i quartieri dalle incursioni militari e hanno imparato su Internet a fabbricare fumogeni.

Nelle foreste, che coprono circa i due terzi dell'intero territorio birmano, ci si addestra nelle tecniche di guerra e si studia come sabotare le strutture gestite dai militari.

Come già accaduto in passato chi dissente sta immaginando un altro tipo di intervento all'altezza del terrore diffuso dal regime militare. Sta aumentando, insomma, la consapevolezza che gli sforzi compiuti attraverso manifestazioni pacifiche potrebbero non essere sufficienti e che il Tatmadaw (come viene chiamato l'esercito birmano) debba essere contrastato con le sue stesse armi, racconta il New York Times.

A metà marzo alcuni membri del parlamento deposto hanno dichiarato che è necessaria una "rivoluzione" per salvare il paese e che per poterla mettere in atto sarebbe stata indispensabile la formazione di un esercito federale che includa i vari gruppi etnici.

Per la nuova generazione, la decisione di combattere nasce dal desiderio di proteggere ciò che il paese ha conquistato negli ultimi dieci anni attraverso tentativi di riforme politiche, l'accesso a Internet grazie al quale Myanmar non è più isolato e l'opportunità di ambire a un posto di lavoro nel settore privato.

La possibilità che Myanmar possa ripiombare nello stesso buio di una decina di anni fa ha galvanizzato alcuni manifestanti. Una giovane donna che ha da poco iniziato l'addestramento militare nella foresta ha detto di ricordare quando, da bambina, si rannicchiava con la famiglia per ascoltare segretamente le trasmissioni radiofoniche della BBC. Un atto che all'epoca sarebbe potuto costare la prigione.

«Ho deciso di rischiare la vita e di reagire in tutti i modi possibili», ha dichiarato.

«Se ci opponiamo a livello nazionale tutti insieme, faremo in modo che i militari vivano notti insonni e vite insicure, proprio come hanno fatto con noi. Abbiamo la nostra fede politica, abbiamo i nostri sogni», ha proseguito. «Questa è una lotta in cui dobbiamo usare sia il cervello che il corpo».

Le donne nelle proteste

Nonostante i rischi, le donne sono in prima linea nel movimento di protesta del Myanmar. Con la loro presenza intendono inviare un messaggio forte ai generali che hanno estromesso una leader civile donna e imposto nuovamente il patriarcato.

In centinaia di migliaia si sono radunate per partecipare ai cortei quotidiani e agli scioperi come rappresentanti dei sindacati di varie categorie in cui le donne possono contare su un'ampia presenza, come i settori dell'istruzione, tessile e sanitario. Le più giovani sono le più esposte e prese di mira dall'esercito. Aveva vent'anni la prima vittima della repressione militare, morta con un colpo di arma da fuoco alla testa.

Dall'inizio delle proteste, gruppi di operatrici sanitarie hanno presidiato le strade, prendendosi cura dei feriti.

Le donne costituiscono la spina dorsale di un movimento di disobbedienza civile che punta a paralizzare il funzionamento dello Stato. Non temono di infrangere gli stereotipi di genere in un paese in cui la tradizione sostiene che gli indumenti che coprono la parte inferiore dei corpi di entrambi i sessi non dovrebbero essere lavati insieme, per timore che lo spirito femminile possa produrre un'azione inquinante.

Con una creatività provocatoria donne di tutte le età hanno protetto le zone delle proteste creando vere e proprie barricate appendendo a corde, bastoni, cavi, parei femminili – chiamati htamein – sapendo che alcuni uomini non li avrebbero mai oltrepassati per timore che avrebbero attentato alla loro mascolinità.

Non ci sono donne negli alti ranghi del Tatmadaw, profondamente conservatore, i cui soldati hanno sistematicamente commesso stupri di gruppo contro membri appartenenti a minoranze etniche, secondo ricerche condotte dalle Nazioni Unite. Nella visione del mondo dei generali le donne sono spesso considerate deboli e impure. Anche per le gerarchie religiose tradizionali, in una nazione prevalentemente buddista, devono essere sottoposte agli uomini.

Eppure nella società civile le donne sono istruite e parte integrante dell'economia del paese. Sempre più spesso riescono a far sentire la propria voce anche politicamente. Nelle elezioni dello scorso novembre, circa il 20 per cento dei candidati alla Lega Nazionale per la Democrazia, il partito di Aung San Suu Kyi, era composto da donne.

In un discorso apparso in una pubblicazione statale il generale Min Aung Hlaing, comandante in capo dell'esercito, non ha mancato di evidenziare l'inappropriatezza dei manifestanti e dei loro "vestiti indecenti contrari alla cultura birmana", riferendosi alle donne che indossano pantaloni.

Un paio di jeans strappati portava Ma Kyal Sin, una manifestante, che di fronte ai gas lacrimogeni lanciati dalle forze di sicurezza non ha lesinato di distribuire acqua ai dimostranti per pulirsi gli occhi.

In un video registrato poco prima di essere uccisa grida: «Non scapperemo. Il sangue del nostro popolo non dovrebbe toccare il suolo».

Aveva 18 anni.

Le vittime più piccole

44 minori di età compresa tra i 7 e i 17 anni sono stati uccisi dall'1 febbraio.

Il numero potrebbe essere anche più alto poiché l'età di diverse vittime non è stata ancora accertata.

La maggior parte è stata uccisa a colpi di arma da fuoco mentre giocava nei propri quartieri o cercava di ripararsi nelle rispettive case quando i soldati e la polizia hanno aperto il fuoco.

Alcuni, tra i più grandi, sono morti mentre partecipavano alle proteste.

Secondo quanto riferito da un'associazione che fornisce aiuti umanitari, c'erano dei minorenni tra le persone uccise e ferite lo scorso fine settimana negli attacchi aerei dell'esercito birmano su aree controllate dall'Esercito di liberazione nazionale Karen (KNLA), la milizia di un gruppo etnico armato.

I gruppi etnici

Se una qualsiasi ribellione armata vuole sperare di avere successo ha bisogno del sostegno dei gruppi etnici che sono stati a lungo in guerra con il Tatmadaw per conquistare l'autonomia, prima di firmare un cessate il fuoco. Il Myanmar ha una popolazione di 54 milioni di persone di cui circa un terzo composto da minoranze etniche.

In seguito allo spaventoso numero di vittime dello scorso 27 marzo uno dei principali gruppi organizzatori delle proteste, il Comitato delle nazionalità per lo sciopero generale (General Strike Committee of Nationalities), ha chiesto, in una lettera aperta alle forze delle numerose minoranze etniche presenti nel paese, di aiutare chi sta resistendo all'"ingiusta oppressione" dei militari.

La risposta non si è fatta attendere. Il giorno successivo, con una dichiarazione congiunta, tre gruppi ribelli armati – l'Esercito di liberazione nazionale Ta'ang (TNLA), l'Esercito dell'alleanza nazionale democratica del Myanmar e l'Esercito di Arakan (AA) – hanno minacciato di "reagire" se i militari non smetteranno di uccidere i manifestanti.

I gruppi hanno esortato l'esercito birmano ad aprire un dialogo con gli oppositori del colpo di Stato per risolvere politicamente la crisi.

Come riporta Al Jazeera, per Debbie Stothard della Federazione internazionale per i diritti umani (FIDH) se questi gruppi inizieranno un'offensiva contro i militari la situazione potrebbe portare alla guerra civile.

Nonostante gli accordi tra esercito birmano e gruppi ribelli, lo scorso fine settimana i militari hanno lanciato incursioni aeree nello stato orientale di Karen, al confine con la Thailandia, prendendo di mira la quinta brigata dell'Esercito di liberazione nazionale Karen (KNLA) dopo che il gruppo aveva sequestrato una base militare uccidendo dieci soldati e catturandone otto.

Gli attacchi rappresentano l'escalation più significativa nel conflitto tra le forze birmane e il KNLA in più di un decennio. L'esercito non sferrava offensive aeree contro il KNLA dal 1995, quando la precedente giunta aveva invaso la sede dell'Unione nazionale Karen (KNU), il braccio politico del gruppo armato.

A causa delle incursioni più di 3.000 persone hanno cercato di fuggire in Thailandia per trovare riparo ma, secondo alcuni attivisti, sarebbero state respinte.

La Thailandia ha negato che i rifugiati non siano stati accolti. Il ministero degli Esteri ha affermato che non esiste una politica volta a respingere chi fugge da un conflitto e che sarebbero quindi stati accettati per motivi umanitari.

Il KNU aveva esortato la comunità internazionale, in particolare la Thailandia, ad aiutare le persone Karen in fuga dall'"assalto", chiedendo inoltre ai paesi di chiudere le relazioni con il governo militare birmano per fermare la violenza contro i civili.

La stampa, gli arresti e la chiusura dei media

Raccontare quanto sta accadendo nel paese per la stampa locale è diventato impossibile.

Il 17 marzo 2021, l'ultimo giornale indipendente che ancora andava in stampa, The Standard Time (San Taw Chain), ha chiuso l'attività aggiungendosi a The Myanmar Times, The Voice, 7Day News e Eleven.

Attualmente i media online restano l'unica fonte di informazione affidabile per milioni di cittadini.

«La situazione della libertà di stampa non farà che peggiorare quando bloccheranno Internet», ha dichiarato l'analista politico Sithu Aung Myint a Myanmar Now, prima di aggiungere che “il paese non ha più democrazia né un grammo di libertà”.

A dieci giorni dal colpo di Stato il ministero dell'Informazione del regime ha avanzato le proprie richieste "esortando" i mezzi di informazione a "praticare l'etica" smettendola di fare riferimento al "Consiglio di amministrazione statale" come a una giunta militare.

Undici giorni dopo, il 22 febbraio, il generale Min Aung Hlaing, ha avvertito i media che le licenze di pubblicazione sarebbero state revocate se avessero continuato a usare parole che non incontravano la sua approvazione.

Ciononostante circa cinquanta organi di informazione hanno dichiarato pubblicamente di voler continuare a seguire la situazione in cui versava il paese.

Il 27 febbraio, cinque giornalisti che raccontavano la repressione sono stati arrestati e successivamente accusati di istigazione ai sensi della sezione 505a del codice penale. Rischiano fino a tre anni di carcere.

Secondo New York Times, dei 56 giornalisti arrestati dall'1 febbraio, la metà è stata rilasciata.

L'8 marzo, il ministero dell'Informazione ha annunciato di aver revocato le licenze di pubblicazione di Myanmar Now e di altre quattro pubblicazioni: 7Day News, Mizzima, DVB e Khit Thit Media.

Si tratta dell'ennesimo capitolo della lunga e spesso travagliata storia dei media del Myanmar, il cui monopolio da parte dello Stato si era interrotto meno di dieci anni fa, alla fine del 2012, sotto il governo di Thein Sein.

Una giornalista, che ha chiesto di mantenere l'anonimato, ha così commentato: «La situazione che stiamo vivendo è la peggiore degli ultimi dodici anni, da quando ho iniziato a esercitare la professione. Non si tratta solo di avere paura di andare a lavorare, adesso puoi essere arrestato semplicemente perché lavori nei media».

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Con i giornalisti professionisti sotto pressione, sono i giovani a documentare con i cellulari quello che accade condividendolo sui social. Si fanno chiamare "CJ", l'abbreviazione di Citizen Journalist.

«Stanno prendendo di mira i giornalisti professionisti, quindi il nostro paese ha bisogno di più CJ», ha detto Ma Thuzar Myat, 21 anni, che ritiene sia un suo dovere contribuire a raccogliere prove delle violenze, nonostante un soldato abbia già minacciato di ucciderla se non si fosse fermata. «So che potrei essere uccisa per girare video di quanto sta succedendo. Ma non per questo farò un passo indietro».

Immagine anteprima via Myanmar Now

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