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La mafia uccide solo d’estate: il (quasi) capolavoro di Pif

8 Dicembre 2013 4 min lettura

La mafia uccide solo d’estate: il (quasi) capolavoro di Pif

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Si sarebbe potuto gridare non dico al capolavoro, ma al mezzo capolavoro sì, per La mafia uccide solo d'estate di Pierfrancesco Diliberto - in arte Pif. Perché l'autore ha lo sguardo del fanciullino, e sa mantenerlo anche quando lo posa su una realtà orribile come la mafia dei delitti eccellenti e delle stragi. Su cosa significhi davvero «convivere con la mafia»: essere bambini e non poter andare al bar dove compri le paste per la compagna di classe di cui sei innamorato, perché in quel bar la mafia ha ucciso il capo della Squadra mobile di Palermo. Questo sguardo fanciullesco Pif lo asseconda muovendosi tra il comico, il patetico e il drammatico, con la sensibilità e l'incoscienza del poeta; di chi sta di fronte a un limite e si butta in avanti perché gli sembra strano far diversamente. E il limite, in questo caso, è il ridere di mafia usando la risata come mezzo, e non come fine. Non è facile o scontato deridere Toto Riina, boss ancora in grado di minacciare magistrati, come ha fatto col giudice Di Matteo, per ben due volte nell'arco di poche settimane.

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Purtroppo Pif nell'esordio si è portato dietro la voce narrante fuori campo che usa nel Testimone, e così l'effetto spiegone è assicurato: il poetico viene continuamente azzoppato dal didascalico, non essendoci alcuna esigenza giornalistica a giustificarlo. Emblematica è la scena, presente anche nel trailer, in cui un picciotto spiega a Riina come funziona il climatizzatore. Il boss è talmente ignorante che il picciotto arriva a perdere la pazienza: si tratta dell'uomo soprannominato «La belva», e con la belva, dice il film, Riina condivide la comprensione tecnologica. Ma quando subito dopo Riina preme il pulsante del telecomando davanti alla tv dove si vedono Falcone e Borsellino,  si sente un'esplosione: siamo alla strage di Capaci. Lo scarto simbolico ci vorrebbe dire che per disporre simili atrocità non serve intelligenza, e quindi umanità, concetto di per sé banale, se mostrato così. Invece succede proprio questo, appena la voce ci spiega, allusiva, che «qualche giorno dopo Totò Riina capì come funziona un telecomando», dissipando la forza espressiva di quanto appena visto. Succede spesso, nel film, e ogni volta non si capisce perché la scena sia accompagnata o declinata col narratore. Come non si capiscono certi elementi che rimangono lì sullo sfondo - su tutti, il fratello del protagonista, che ha senso solo nella scena in cui è all'ospedale.

Forse Pif non ha ancora trovato un linguaggio in grado di tradurre appieno il proprio sguardo: questo lo dirà il tempo. Però la tecnica si può acquisire: l'estro per raccontare la mafia attraverso gli occhi di un bambino, moderno Pin del Sentiero dei nidi di ragno, la volontà per concretizzare uno spunto che hai in testa, o appena abbozzato sulla carta, o ce li hai oppure non te le insegna nessuno. E Pif ce li ha, indubbiamente. Che cosa è l'omertà, per un bambino? È la paura che se ti innamori di una donna muori, perché nella quotidiana rimozione dell'orrore gli adulti non fanno che dire «ma quale delitto di mafia, quello l'hanno ammazzato perché ci piacevano le femmine!». È il pensiero magico che trasforma il sibillino Andreotti in una rassicurante voce di verità, piegando ai propri desideri il frasario grigio e trasversale da democristiano. Ma crescere a Palermo, negli anni Ottanta, significa capire che di quella voce bisogna diffidare. Succede quando Arturo vince il concorso indetto da un giornale, e per un mese scrive articoli. Si fionda allora in prefettura a intervistare Dalla Chiesa, e gli chiede «l'onorevole Andreotti dice che l'emergenza criminale è in Campania e in Calabria. Generale, ha forse sbagliato Regione?»; uscendo nota come sia assurdo combattere una guerra quando fuori dall'ufficio del Generale ci sono appena due agenti. Non sa, Arturo, che Dalla Chiesa a Palermo ha rinunciato alla scorta. E invano aspetterà Andreotti al funerale di Dalla Chiesa, non sapendo che Andreotti ai funerali preferisce i battesimi, come dichiarerà a un giornalista che gli chiede conto di quell'assenza. Ma si può imparare cosa sia Andreotti attraverso gli autoinganni favolistici di un bambino: per molti anni, del resto, ci sono adulti che han creduto e fatto credere ad Andreotti assolto per mafia.

Se la mafia è l'elefante nella stanza di cui nessuno vuol parlare, nemmeno quando schiaccia qualcuno, il piccolo Arturo continuamente ci va a sbattere contro. Oppure, osceno ai nostri occhi adulti, gioca con quell'elefante e noi, ridendo, non abbiamo più paura di vederlo, come prima. E da adulto - ma non troppo - quando finalmente incontra Flora, l'amore di una vita, è costretto a lavorare per Salvo Lima, pur di poterla frequentare, perché lei ne è l'assistente. Ma è proprio nella stagione più orribile che di recente ha conosciuto Palermo, quella che dall'uccisione di Lima passa per Capaci e Via D'Amelio, che il loro amore può accadere. Siamo al consolatorio e fasullo lieto fine, del tipo «l'amore vince sempre sull'invidia e sull'odio, e pure sulla mafia»? Niente affatto. Pif ha colto una verità di per sé poco appariscente, e ce la mostra da dietro una maschera di apparente ingenuità e goffaggine, che fa ridere e commuovere, di quelle lacrime che arrivano da non si sa bene dove e rimangono anche dopo che le hai asciugate. Perché nel quotidiano la catastrofe non la puoi evitare, quando deflagra violenta e totale, decisa da altri e messa in moto da mani occulte: ma dalle macerie si può far uscire qualcosa, lavorando sull'onesta condivisione del dolore e la memoria.

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