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L’incidente di Casal Palocco, gli youtuber, la cultura del trash e un dibattito del tutto fuori fuoco

19 Giugno 2023 9 min lettura

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L’incidente di Casal Palocco, gli youtuber, la cultura del trash e un dibattito del tutto fuori fuoco

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La verità giuridica sull’incidente di Casal Palocco che ha visto coinvolti un gruppo di ragazzi - i TheBorderline - al volante di una Lamborghini presa a noleggio che stavano girando un video per YouTube e una madre con due figli a bordo su una smart e che è costato la vita a un bambino è ancora lontana. 

Possiamo supporre che l’incidente sia stato causato dall’alta velocità e dalla distrazione, possiamo aggiungere anche la positività a un test antidroga di chi era alla guida e tutti i dettagli più assurdi possibili, come uno degli youtuber che riprende l’incidente mentre la gente gli urla contro, possiamo soprattutto pensare che sia solo un incidente stradale e arrivare a derubricarlo come ragazzata, parola che in Italia copre tutto, dai sassi lanciati dai cavalcavia di molti anni fa ai furtarelli, passando per le molestie, il revenge porn e il furto di caramelle.

Ma così come ogni omicidio ha i suoi moventi e le sue cause lo stesso vale per gli omicidi stradali. Qua non siamo di fronte al classico “le bravate le abbiamo fatte tutti”, perché questa bravata nasce in un contesto culturale ed economico che non è quello di ragazzi annoiati o con desideri distruttivi.

E per quanto sia diventata l’occasione più ghiotta di tutte per puntare il dito contro i content creator, tutti, e con chi li segue non è neanche il momento, come vorrebbe Carlo Calenda, per invocare patentini di Internet, controlli sull’età o, come mi è capitato di leggere da persone palesemente toccate dall’evento, “impedire alle persone di guadagnare con YouTube”. O per proporre una “stretta” che introduca reati nuovi, in questo caso “l’istigazione a delinquere sul web”.

Di sicuro è un’occasione per fare il punto e provare a modificare una rotta, un sentire, un'industria culturale che continuerà a fare soldi dopo aver fatto un po’ la faccia contrita.

Proviamo a procedere con ordine: i TheBorderline (che nel frattempo hanno annunciato l'interruzione delle attività, mentre resta aperto il canale YouTube) sono un gruppo di giovani youtuber che puntano a fare soldi intrattenendo il loro pubblico con sfide sempre più assurde basate, spesso, su un bel po’ di soldi dati al vincitore o magari in beneficenza. Questo format non se lo sono inventati ovviamente loro, le sfide, anzi, challenge, su internet ci sono da tantissimo tempo e forse ricorderete la “Ice Bucket Challenge” che stimolò moltissime donazioni per beneficenza.

Le challenge sono l’evoluzione moderna delle prove di coraggio o le sfide più sceme che si facevano da ragazzi, tipo tuffarsi dallo scoglio più alto, chiedere a dieci ragazze di uscire o bere più shot, però sono fatte su scala mondiale e, in alcuni casi sono fatte per fare soldi.

Ecco, questo è importante: le nobili motivazioni che tirano in ballo gli incidenti stradali, la guida in stato di ebbrezza, le corse clandestine mancano un punto fondamentale. L’incidente non è stato causato per il gusto di andare forte in auto, ma per creare contenuti di intrattenimento e fare soldi. Non è uno scherzo, non è testosterone, non è (solo) cultura delle automobili di grossa cilindrata usate male, ma fare soldi.

Questo è il bomberismo coltivato per anni dai media e reso format per incassare sulla piattaforma più efficiente per farlo.

Questo perché le challenge sono un modo abbastanza veloce per entrare nel flusso di quel proteiforme palinsesto che sono gli algoritmi che regolano le piattaforme. Ovvero quei meccanismi per cui non è tanto il creator che è già famoso a rendere importante il contenuto, ma il contenuto che fa il creator, perché se fai una cosa di moda finisci magari nel giro dei TikTok o dei video consigliati su YouTube, ancora più persone ti conoscono e così via.

In particolare, i TheBorderline hanno un'ispirazione precisa: MrBeast, creatore di contenuti (youtuber è una definizione stretta per persone che spesso si muovono su almeno tre piattaforme) straricco che con i suoi video macina milioni di views, investe milioni di dollari e ne guadagna altrettanti. Tra i suoi video più famosi troviamo ad esempio una riproposizione molto fedele di Squid Game. Senza morti, tranquilli. Molto spesso viene visto regalare soldi a destra e a sinistra ai suoi fan e a chi partecipa, come se fosse una sorta di folletto magico del capitalismo col sorriso sempre stampato in faccia nelle copertine dei suoi video. Una sorta di estatico stupore che in qualche modo promette di renderci altrettanto felici se vediamo i suoi video.

Ovviamente, questo non vuol dire che YouTube, TikTok o Instagram siano pieni solo di challenge, ci sono tantissime persone che fanno contenuti di ogni tipo e che in alcuni casi arrivano a una buona dose di successo senza farne nessuna, ma le regole del gioco sono palesi: se vuoi piacere a un certo tipo di pubblico, non il più numeroso, ma quello che consuma video più avidamente, devi fare certi contenuti, con un determinato linguaggio, cercando di intrattenere a tutti i costi, in una continua gara con te stesso e con gli altri creator.

Ma come mai il mercato dei content creator funziona così bene? Il principio di fondo non è troppo lontano da quello che ha sempre funzionato, ovvero l’adorazione del pubblico per le personalità che nascono col cinema, lo sport, la televisione, la musica, i reality. Da questo punto di vista fa sorridere che persone che per anni hanno fruito ogni forma di contenuto trash vadano a fare la morale ai ragazzi di oggi.

Il trash ha sempre funzionato, è sempre stato utilizzato come contenuto facile per arrivare a tutti, per parlare alla pancia, alla nostra voglia di gossip, di vedere gente che si umilia per noi o che vorremmo essere.

Queste pulsioni con internet, i contenuti “spontanei” e la possibilità di trasformare qualsiasi cosa in un contenuto monetizzabile e, soprattutto, gli algoritmi sono state portate all’estremo. E non solo nei ragazzini, non solo su YouTube, ma ovunque. E visto che i ragazzi spesso la televisione non la guardano uno dei pochi modi per arrivare a un pubblico giovane, sfuggente e con la soglia di attenzione bassissima sono proprio gli influencer.

Le sponsorizzazioni, più o meno evidenti, più o meno furbe sono la norma, con agenzie che si contendono i personaggi più interessanti con contratti, offerte e colpi bassi. Esattamente come una volta le agenzie di management si contendevano attori o attrici o come si fa nel fantacalcio.

Una volta i palinsesti creavano ciò che era interessante in base alle indagini di mercato e alle fasce di pubblico. Con internet il nostro gusto per l’evasione, il trash e i contenuti bassi è stato ingegnerizzato, un po’ come la nostra voglia di fare polemica e la rabbia.

E a questo processo hanno partecipato e partecipano i social, la stampa, vecchia e nuova, la televisione, tutti i media. E nel frattempo i social hanno piano piano sostituito un sacco di altre cose nelle nostre vite, facendoci sviluppare forme di dipendenza dalla gratificazione, dall’esposizione, dalla mercificazione.

Adesso immaginate un sistema in cui si ha l’illusione che tutti possano diventare famosi, un giro d’affari da parecchi zeri, la possibilità di ricevere oggetti di lusso, fare viaggi, un pubblico potenzialmente molto ampio e un sistema in grado di spingerti in alto se dimostri di saper giocare secondo le regole e intercettare il momento giusto. Uno spazio in cui, come dicono i pubblicitari “content is king” e anche quei filtri, seppur minimi, che sussistevano finora nel mondo dell’intrattenimento, crollano. Uno spazio in cui la nostra legittima voglia di contenuti trash, leggeri, divertenti, sia libera di galoppare in qualunque momento.

Immaginate un Non è la Rai in cui tutti possiamo partecipare e invece dell’auricolare di Boncompagni c’è solo un algoritmo che ti dice quali sono i temi in voga, quali canzoni dovresti usare, quali contenuti dovresti copiare. Un gigantesco liceo dove se sei famoso non esci solo col gruppo di quelli più giusti della scuola, ma ci fai un sacco di soldi.

Quello che non sai è che spesso la roulette è truccata e quei ragazzi della strada che ti sembrano partiti da nulla magari dietro hanno una agenzia che ha finanziato tutto quello che vedi e che si tiene almeno il 30% e che ha permesso che arrivassero così velocemente al successo sponsorizzando i video o magari facendo in modo che qualche creator già grande li sponsorizzasse.

Date queste premesse era inevitabile la creazione di un sistema in cui l’intelligenza emotiva e l’empatia venivano messe da parte per arrivare all’unica cosa che conta: i like, le views, i soldi. Anche perché, inutile girarci attorno sperando di puntare il dito solo sui più giovani, questo sistema si basa su quello che abbiamo vissuto negli ultimi 40 anni.

Non abbiamo imparato oggi la cattiveria, non abbiamo imparato oggi a sbattere il mostro in prima pagina a pensare che i giovani fanno tutti schifo, a riempirci la testa di contenuti spazzatura. Non possiamo neppure pretendere che i ragazzi oggi siano meno assetati di contenuti bassi di quanto non lo siamo stati noi, che forse lo siamo ancora. Soprattutto quando c’è una piattaforma pensata per mostrargliene sempre di più.

Come se ne esce? Non è facile e chiunque invochi leggi draconiane, controlli preventivi, patentini per internet e cose così lo fa solo per ottenere un minimo di notorietà e magari raccogliere qualche voto dai genitori spaventati. Allo stesso modo, non ha molto senso fare spallucce, ricordare che i social, YouTube, TikTok e così via sono anche altro, perché le principali tendenze di monetizzazione dei contenuti sono note a tutti.

Situazioni come quella di Casal Palocco agitano da sempre lo spettro del panico morale ma chiedere un internet inaccessibile ai più giovani è pura illusione. Soprattutto in Italia, dove molti genitori non hanno neppure alcuna idea di cosa sia un blocco parentale e di cosa e come i loro figli consumino sui telefoni.

I legislatori possono, forse, fare qualcosa ma è un dialogo che deve partire dalle piattaforme e da chi su quelle piattaforme fa sponsorizzare di tutto pur di farsi vedere dai ragazzi. Togliere la monetizzazione a determinati contenuti, evitare di sponsorizzare un certo tipo di creator. Certo, sarebbe come chiedere al capitalismo di smettere di sfruttare le persone, cosa che non accade neppure quando ci sono leggi precise in merito.

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Una strada percorribile, intanto, potrebbe essere quella seguita dalla Francia, che sta cercando di tutelare i minori sovraesposti dai genitori nei social. Per quanto infatti ci piaccia l’idea di prendercela coi ragazzini che fanno challenge una buona fetta di contenuti arriva da genitori influencer ben consapevoli che i figli, la maternità e tutti i temi collegati sono un magnete per le visualizzazioni, con frequente sovraesposizione di bimbi messi in piazza, umiliati e costretti a partecipare contro la loro volontà. Figli che un giorno  magari non avranno piacere di vedere la loro infanzia documentata per milioni di persone o svilupperanno un senso deformato del concetto di privacy. Questo senza contare le reti di pedofili su Instagram.

Il problema è, anche, come sempre culturale. Non possiamo impedire alle persone di guardare contenuti brutti, diseducativi e anche, in alcuni casi pericolosi. Non è successo quando abbiamo visto anni di Grande Fratello, non è successo mentre guardavamo talk show politici pieni di disinformazione, o programmi TV in cui qualcuno è rimasto paralizzato, . Bisognerebbe crescere generazioni che giudicano queste cose ridicole, stupide e non degne della loro attenzione, servirebbe un dialogo tra tutti gli attori coinvolti che fosse in grado di creare un ecosistema in cui fare una challenge dove vivi per 50 ore in un scatole di cartone non fosse un buon modo per fare soldi, ma al massimo per generare imbarazzo in chi ti sta vicino.

È un processo lungo, che non si attua in un secondo e sull’onda dell’indignazione e che si risolve con appelli alla cultura o coltivando la pia illusione che le persone vogliono solo vedere Super Quark e approfondimenti culturali. Nasce tutto da genitori consapevoli e non spaventati che educano generazioni altrettanto consapevoli del fatto che ciò che fruiamo in qualche modo plasma la realtà attorno a noi e l’unico modo per riappropriarsi di questa realtà è saperlo, così che non sia un algoritmo a deciderlo.

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