Fuori da qui Post

Invasione russa dell’Ucraina: breve storia del conflitto in Donbas

3 Aprile 2022 7 min lettura

author:

Invasione russa dell’Ucraina: breve storia del conflitto in Donbas

Iscriviti alla nostra Newsletter

7 min lettura

di Oleksiy Bondarenko*

Anche se l’invasione militare dell’Ucraina da parte della Russia ha radici complesse, una delle cause addotte dal Cremlino è stata quella della difesa della popolazione russofona della regione del Donbas. Una narrazione che dura ormai da otto anni e che ha portato il presidente russo a definire gli eventi come un “genocidio” perpetuato da Kyiv. Il conflitto tra Ucraina e Russia è iniziato infatti nel 2014 quando Mosca ha prima annesso la Crimea e poi fomentato e sostenuto il movimento separatista nell’Ucraina dell'est. Proprio le due autoproclamate repubbliche di Donetsk e Lugansk hanno rappresentato la testa di ponte e la giustificazione per l’attuale guerra. Vale quindi la pena ripercorrere la complessa storia di questa regione.

Leggi anche >> Putin non è “folle”. Cosa ci dicono i discorsi del presidente russo

Un conflitto etnico?

La guerra scoppiata nel 2014 dopo la fuga del presidente Yanukovich in seguito alle proteste di piazza (comunemente note come Euromaidan) è stata spesso definita come un conflitto che affonda le proprie radici nella diversità etnica. Secondo il censimento del 2001 (l’ultimo condotto ufficialmente dalle autorità ucraine), infatti, la popolazione russa nelle regioni di Donetsk e Lugansk costituiva il 39%, mentre nel 2014 circa il 30% degli abitanti si autodefiniva come russo. Nasce anche da qui la tanto abusata descrizione dell’Ucraina come paese diviso tra est e ovest, tra russofoni e ucrainofoni. Questa semplificazione però non ci dice perché proprio Donetsk e Lugansk siano divenuti gli epicentri della rivolta nel 2014 o perché, a differenza di altre regioni con forte presenza russa e russofona (come Kharkiv, Zaporizhia e Odessa), proprio nel Donbas il movimento separatista abbia ricevuto inizialmente un certo sostegno. 

La relazione tra appartenenza etnica, lingua, identità e attitudini politiche, infatti, è molto più complessa. Come dimostrano numerosi studi, in Ucraina lingua e autoidentificazione etnica non vanno spesso a braccetto. Parlare russo non sempre significa autoidentificarsi come etnicamente russi. Al contrario, già prima del 2014 molti russofoni si definivano ucraini e, sorprendentemente, alcuni ucrainofoni nelle regioni orientali condividevano un’identità russa. 

Allo stesso modo, la relazione tra identità e attitudini politiche non è lineare. Anche se è vero che lingua e autoidentificazione etnica hanno avuto un impatto sulle preferenze politiche della popolazione, sappiamo anche che la complessa identità è a sua volta plasmata dalla narrazione politica. Una relazione dialettica quindi, non unilaterale.    

Identità regionale

Nel suo studio della macro-regione del Donbas, lo storico Hiroaki Kuromiya concludeva che il tratto principale della sua vita politica è caratterizzato dallo “spirito di libertà e indipendenza”. La costante migrazione – volontaria e forzata – dalle parti più disparate dell’impero russo e sovietico, la particolare durezza del terrore staliniano e il carattere industriale della regione, hanno definito la sua naturale diffidenza nei confronti di Mosca prima e di Kyiv poi. Il punto centrale nell’identità regionale è diventato così non un’autoidentificazione su base etnica o culturale, ma su quella economico-territoriale. L’idea di essere il cuore industriale del paese, sfruttato e mai ricompensato a sufficienza ha favorito, infatti, il costante risentimento verso il centro di potere creando barriere identitarie con il resto del paese. Un senso di tradimento e abbandono che fu ulteriormente acutizzato dal cambio di potere a Kyiv nel febbraio 2014.  

Clientelismo politico

Questa specifica identità regionale è stata per anni coltivata dalla classe politica ed economica. Dal Donbas provengono gli uomini più influenti del paese, come gli ex presidenti Kuchma e Yanukovich e l’oligarca Akhmetov. Yanukovich, infatti, aveva fatto del Donbas la sua roccaforte politico-clientelare. Con l’attivo sostegno dell’élite e degli oligarchi locali aveva di fatto costituito uno Stato nello Stato, con il dominio del suo Partito delle Regioni (PdR) che si estendeva praticamente su tutte le sfere della vita politica, economica e sociale. Questo non ha solo permesso di costituire una solida base elettorale, ma anche di trasformare definitivamente il partito nell’unico ‘ascensore sociale’ nella regione. L'appartenenza al partito e il voto di sostegno erano l’unica assicurazione per il grande così come per il piccolo business, per gli insegnanti così come per i dottori.

Un fattore centrale nella monopolizzazione del potere del Partito delle Regioni è stata infatti la sua abilità di appropriarsi e di incanalare il risentimento verso Kyiv. Il vago malcontento sociale di quello che un tempo fu il cuore industriale del paese è stato così riempito da richiami alla specifica identità locale basata su aspetti storici, linguistici e culturali. Così, in contrapposizione alle politiche di ucrainizzazione dopo la rivoluzione arancione del 2004, a Donetsk e Lugansk il Partito delle Regioni enfatizzava il carattere distintivo del Donbas. Il passato glorioso come centro industriale dell’impero, la centralità della lingua russa e il richiamo alla federalizzazione del paese divennero tutti elementi del ‘patriottismo regionale’ funzionale al mantenimento del feudo di Yanukovich. Molti dei primi leader dei separatisti nel 2014, come Andrei Purgin e Pavel Gubarev, venivano proprio da questi ambienti. E proprio per questo a cavallo tra il 2013 e 2014 durante i mesi di proteste a Kyiv, nel Donbas erano emersi movimenti di opposizione all’Euromaidan (il cosiddetto anti-Maidan).

Rivoluzione e proteste

La combinazione tra identità regionale e le decisioni prese dagli uomini di potere locali ha poi giocato un ruolo centrale negli eventi del 2014. Da una parte, il cambio di potere a Kyiv aveva creato un temporaneo vuoto istituzionale riempito dagli interessi dei potenti attori locali. Proprio l’oligarca Akhmetov è stato uno dei cardini nel sostegno iniziale ai movimenti separatisti a Donetsk e Lugansk, mentre in altre regioni come Kharkiv e Dnipropetrovsk l’élite locale si era opposta a tali scenari. Dall’altra, con la fuga di Yanukovich il potere clientelare del PdR si è rapidamente disgregato. Nel caos generale sono così emersi quei personaggi e quelle organizzazioni che erano già presenti nel sottobosco del Donbas e che facevano leva su quei sentimenti di identità regionale precedentemente coltivati dalla politica locale. Non a caso, tra marzo e aprile 2014 circa il 61% degli abitanti di Lugansk e il 70% di quelli di Donetsk vedevano l’Euromaidan come un colpo di Stato, mentre la media nelle altre regioni del sud-est si attestava intorno al 38%. Allo stesso tempo, però, il sostegno per l’integrazione con la Russia rimaneva piuttosto limitato, intorno al 30%. Infatti, tra quelli che sostenevano il separatismo non c’erano solo quelli che si autoidentificavano come russi, ma anche ucraini e persone con identità ibride.  

L’intervento russo 

Tutti questi elementi hanno quindi fornito terreno fertile per la creazione delle due repubbliche separatiste. Non sapremo mai se il caos iniziale, l’occupazione delle sedi amministrative a Donetsk e Lugansk e l’ammutinamento delle forze dell’ordine locali avrebbero comunque portato a un conflitto armato. Oppure se tutto si sarebbe risolto come in altre città nell’Ucraina orientale. A Kharkiv, ad esempio, l’occupazione della sede dell’amministrazione locale da parte dei manifestanti filo-russi era durata solo poche ore grazie all’intervento tempestivo delle forze speciali che non dovettero sparare un solo colpo. A giocare un ruolo chiave in quel caso fu Arsen Avakov, appena nominato ministro degli Interni e con forti legami con il potere locale. Proprio Avakov, anticipando il possibile ammutinamento delle forze di polizia, aveva deciso di dislocare preventivamente un’unità di forze speciali proveniente dall’Ucraina occidentale.

Quello che sappiamo è che l’intervento mascherato da parte di Mosca è stato decisivo. L’arrivo di uomini armati russi sotto la guida dell’ex ufficiale del FSB Igor Girkin (noto come Strelkov) ha definitivamente trasformato un conflitto locale in una guerra. Mentre l’esercito ucraino era disorganizzato e demotivato, il flusso di mezzi e uomini dalla Russia ha permesso alle autoproclamate repubbliche di resistere e consolidare il controllo su Donetsk e Lugansk in un conflitto che da maggio 2014 ha fatto complessivamente più di 14 mila vittime. 

Le firme sugli accordi di Minsk (2015) hanno quindi permesso un parziale congelamento del conflitto, senza però mai portare la pace. Scontri e bombardamenti hanno continuato a caratterizzare la vita della popolazione locale da entrambi i lati della linea di demarcazione, anche se in misura non paragonabile al biennio 2014-2015. Secondo i dati riportati dall’ufficio per i diritti umani delle Nazioni Unite, dall’inizio del conflitto si contano più di 3mila vittime civili, la maggior parte delle quali nei primi due anni di guerra.  

Leggi anche >> La “denazificazione” di Putin in Ucraina rischia di rafforzare i neonazisti in tutta Europa

Un vicolo cieco

A partire dal 2015 le due repubbliche separatiste di Donetsk e Lugansk hanno occupato una zona grigia sulla cartina dell’Ucraina. Sostenute economicamente e politicamente da Mosca hanno di fatto rappresentato il principale elemento di pressione su Kyiv. Nei lenti e faticosi negoziati degli ultimi sette anni, Mosca ha continuato a insistere su un rigoroso rispetto degli accordi di Minsk, firmati da Kyiv in un momento di estrema debolezza politica e militare. Il protocollo prevedeva sì il reintegro del Donbas nell’Ucraina, però dopo la concessione di uno status speciale, elezioni locali e - solo alla fine - il ritorno del controllo di Kyiv sulla fetta di confine con la Russia. Il rispetto degli accordi di Minsk, in altre parole, avrebbe garantito al Cremlino strumenti per influenzare la politica ucraina anche dopo il ritorno del Donbas sotto il controllo di Kyiv. Una posizione evidentemente inaccettabile per qualsiasi governo ucraino. Infatti, se con l’elezione di Zelensky nel 2019 l’Ucraina aveva sperato di riuscire a spuntare una serie di concessioni, dopo i primi (pochi) segnali incoraggianti come il completo cessate il fuoco, lo spazio di manovra si era di nuovo ridotto. 

Leggi anche >> Come la NATO è diventata un problema nella visione di Putin

Iscriviti alla nostra Newsletter


Come revocare il consenso: Puoi revocare il consenso all’invio della newsletter in ogni momento, utilizzando l’apposito link di cancellazione nella email o scrivendo a info@valigiablu.it. Per maggiori informazioni leggi l’informativa privacy su www.valigiablu.it.

Il resto è storia recente. Le ambizioni geopolitiche di Mosca e il dialogo portato avanti con Washington sul ruolo della NATO in Europa sono andati di pari passo con l’intensificarsi degli scontri in Donbas e con il dispiegamento di truppe russe lungo i confini a partire da aprile 2021. Quando nelle stanze del Cremlino si è deciso di invadere l’Ucraina, il pretesto era già pronto da anni. Il riconoscimento delle due ‘repubbliche’ quindi è stato il primo passo, le bombe su Kyiv, Kharkiv e Mariupol una naturale conseguenza.

*Ricercatore presso l'Università di Kent. Collabora con East Journal

Immagine in anteprima: Andrew Butko, CC BY-SA 3.0, via Wikimedia Commons

Segnala un errore