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Come la NATO è diventata un problema nella visione di Putin

2 Aprile 2022 9 min lettura

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Come la NATO è diventata un problema nella visione di Putin

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Sin da prima dell’inizio dell’aggressione militare russa all’Ucraina, tra i corresponsabili della crisi in Europa orientale è stata più volte citata la NATO, che ha praticamente incluso nei confini dell’Alleanza Atlantica tutti i paesi dell’area più le tre repubbliche baltiche, già parte dell’Unione Sovietica dal 1940 al 1991. Indicare le responsabilità della NATO non vuol dire, come spesso avviene automaticamente nel dibattito pubblico italiano, essere un seguace fanatico della propaganda putiniana, ma quel che manca in questo tipo di discussione è capire che immagine vi sia stata del Patto Atlantico nei vent’anni e più al Cremlino del leader russo, come essa sia cambiata e che effetti ha avuto nel portare alle tragiche scelte di oggi.

Già nel discorso del 21 febbraio, quando riconosceva l’indipendenza e la sovranità delle repubbliche separatiste di Donetsk e Luhansk, Vladimir Putin ha fatto riferimento non solo alla retorica del nazionalismo russo sull’identità ucraina, ma si è soffermato in un passaggio sui tentativi da parte di Mosca di raggiungere una maggiore integrazione politica e militare con i paesi occidentali. Secondo il presidente, nel 2000, in un incontro con Bill Clinton, allora in procinto di lasciare la Casa Bianca, si sarebbe accennato a una possibile adesione della Russia alla NATO, eventualità lasciata cadere nel vuoto e con scetticismo dal leader statunitense. Solo nell’anno precedente, durante la guerra contro la Serbia, vi erano state forti rimostranze da parte russa, culminate con l’episodio dell’inversione sull’Oceano Atlantico del volo di Evgeny Primakov, allora primo ministro, in segno di protesta per i bombardamenti di Belgrado, e l’arrivo di un contingente russo a Pristina in contemporanea con i militari dell’Alleanza Atlantica. Nella ricostruzione di Putin, l’abboccamento del 2000 può essere interpretato come un tentativo di ricucire una prima lacerazione dei rapporti tra Mosca e l’Occidente. 

E in realtà nel 2001, dopo l’11 settembre, la Russia sostenne le operazioni statunitensi in Afghanistan, tracciando un parallelo tra queste e il sanguinoso conflitto in corso in Cecenia. Putin fu il primo leader internazionale a telefonare alla Casa Bianca, e in un messaggio alla nazione lo stesso giorno dell’attacco alle Torri Gemelle dichiarò che i russi potevano capire i sentimenti degli americani: “A nome della Russia voglio dire al popolo americano – siamo con voi”. La guerra contro i talebani e Al Qaeda era vista come parte di uno sforzo del mondo cosiddetto civile contro l’islamismo radicale, in cui anche i soldati russi nel Caucaso erano parte, e le vittime civili degli attacchi degli uomini di Bin Laden vedevano una tragica corrispondenza nei morti e nei feriti negli atti terroristici che colpivano Mosca e altri luoghi nel paese. Fino al 2010, infatti, le esplosioni hanno segnato la vita nella capitale russa, e tragedie come il sequestro di centinaia di persone al teatro della Dubrovka durante uno spettacolo e l’assalto alla scuola di Beslan in Ossezia del Nord hanno traumatizzato la società. La War on Terror lanciata da George W. Bush trovava quindi sostegno tra i vertici del Cremlino e anche tra la popolazione russa, spesso in senso trasversale: persino chi si definiva un oppositore di Putin sosteneva le misure antiterrorismo adottate per far fronte al conflitto ceceno, come riteneva giustificate le azioni statunitensi prima in Afghanistan e poi in Medio Oriente. Gleb Pavlovsky, figura fondamentale dell’Amministrazione presidenziale dell’epoca, riassunse in una frase molto efficace le posizioni del Cremlino in quel momento, sostenendo come per i russi avere le basi americane in Asia centrale fosse meglio che trovarsi i talebani a Kazan, capitale della repubblica del Tatarstan, distante poco più di 800 km da Mosca.

La NATO all’epoca aveva già spostato i suoi confini più a est, includendo Polonia, Ungheria e Repubblica Ceca nell’alleanza nel 1997. Silvio Berlusconi cinque anni dopo, nel 2002, si fece promotore del vertice tra il Patto Atlantico e la Russia a Pratica di Mare, dove, pomposamente come ci ha abituato nella sua lunga carriera politica, il Cavaliere annunciò la fine della Guerra Fredda e l’inizio di una nuova epoca di pace nel continente europeo. Il summit non segnò l’ingresso di Mosca nel sistema di difesa NATO, ma creò una serie di istituti volti a una maggiore cooperazione, necessaria anche per garantire il fianco nord dell’Afghanistan, che confina con l’Asia centrale, zona sensibile per la Russia, e per ottenere i permessi di sorvolo dell’immenso spazio aereo per riuscire a raggiungere Kabul senza troppi problemi, definiti durante il primo mandato di Barack Obama. Il Northern Distribution Network, struttura che ha permesso la consegna di migliaia di tonnellate di materiale bellico e alimentare in Afghanistan, utilizzava la rete ferroviaria costruita da Mosca negli anni Ottanta durante la campagna sovietica in quella regione, partendo da Riga e attraversando la Russia fino al Mar Caspio e ai confini con il Kazakistan. Il 40% dei rifornimenti ISAF dal 2008 fino al 2015 è passato da lì, per poi essere interrotto dopo il deterioramento delle relazioni a causa dell’annessione della Crimea otto anni fa.

Durante la collaborazione logistica russa alla missione ISAF però vi sono due eventi importanti per comprendere la narrazione del Cremlino. Il discorso di Vladimir Putin il 10 febbraio 2007 alla Conferenza per la sicurezza a Monaco di Baviera rappresentò, secondo la ricostruzione fornita dieci anni dopo da uno degli uomini un tempo a lui più vicini, Vladislav Surkov, “un atto di protesta” contro il mondo unipolare. Il presidente russo chiese, in modo retorico e provocatorio, contro chi fosse diretto l’allargamento dell’alleanza. Ad allarmare Mosca era stata l’entrata nel 2004 di Estonia, Lettonia, Lituania, paesi confinanti con la Russia, e Bulgaria, Romania, Slovacchia e Slovenia, già appartenenti (tranne la Slovenia) al Patto di Varsavia. Ha sottolineato Mario Del Pero in una recente analisi come poco ancora si sappia del ruolo dei paesi dell’Europa orientale nel sollecitare gli Stati Uniti a includerli nel Patto Atlantico, individuando anche le contraddizioni alla base di una possibile totale integrazione della Russia nell’alleanza, dove vi è una potenza chiaramente egemone; l’elemento che però dovrebbe far riflettere è quale politica abbia perseguito Mosca dopo il discorso di Monaco. L’altro evento cruciale è rappresentato dalla breve guerra russo-georgiana dell’agosto del 2008, dove la reazione della comunità internazionale risultò essere alquanto moderata, probabilmente per non estendere il conflitto ulteriormente. Alla luce degli eventi di quell’estate, in un articolo pubblicato su OpenDemocracy il 23 settembre 2008 lo storico statunitense Aviel Roshwald mise in guardia Washington e gli alleati su come ulteriori mosse avrebbero potuto suscitare sospetti e incomprensioni da parte russa, fornendo una ricostruzione sintetica della sensazione di Mosca di trovarsi di fronte ad una alleanza essenzialmente diretta contro di essa. In questo senso a giocare un ruolo vi sono i paesi dell’Europa orientale, che sin dalla fine del Patto di Varsavia hanno cercato una sponda ad Ovest.

Infatti, l’allargamento dell’Alleanza Atlantica ad Est non è stato però un processo voluto e promosso solo da Washington, e temuto in parte da Mosca. Anche i paesi dell’Europa orientale ne son stati protagonisti, per ragioni differenti: da un lato, l’idea che l’adesione alla NATO sarebbe stata complementare all’ingresso nell’Unione Europea, dall’altro, la ricerca di uno scudo in caso di una possibile volontà di rivincita da parte russa. Soprattutto in Polonia, per ragioni storiche, quest’ultimo sentimento è sempre stato presente, alimentato anche dal confinare con la regione di Kaliningrad, parte della Federazione Russa, e con la Bielorussia. Nel 1993 Boris Eltsin, in una nota indirizzata a Bill Clinton dopo un incontro con Lech Walesa e ora liberamente consultabile sul sito degli archivi della NSA, esprimeva le proprie preoccupazioni sull’allargamento dell’alleanza ai paesi dell’Europa centro-orientale, al tempo stesso comprendendone i motivi e non vedendo nella NATO un dispositivo diretto contro la Russia. Ma, notava il presidente russo, una simile scelta avrebbe potuto portare a incomprensioni nell’opinione pubblica e all’ostilità persino di circoli moderati, che avrebbero visto in queste mosse un tentativo per condannare la Russia a un nuovo isolamento. Forse questa nota portò alla durissima reazione del leader polacco Walesa, che riteneva l’adesione al blocco occidentale fondamentale per lo sviluppo della democrazia nel proprio paese, e in occasione del vertice tra Clinton e i capi di Stato di Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia affermò come fosse impossibile trattare con la Russia, perché i suoi rappresentanti “in una mano hanno una penna, nell’altra una granata”. L’idea difensiva, soprattutto da parte polacca e baltica, quindi è da sempre stata presente, e spesso utilizzata anche in modalità poco prudenti, tanto da spingere il presidente ceco Vaclav Havel ad auspicare maggiore prudenza. Si tratta di elementi presenti sin dagli anni Novanta, e che con l’assertività della presidenza Putin si son rafforzati ulteriormente, e in questo momento appaiono prevalenti nella politica estera dei paesi dell’est europeo e nelle loro posizioni all’interno della NATO e dell’Unione Europea.

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La NATO diventa sempre più presente nella retorica e nelle preoccupazioni dell’establishment russo a partire dalla fine del 2013, con le proteste in Ucraina sfociate nell’affermazione dell’EuroMaidan. L’annessione della Crimea nel marzo del 2014, giustificata da Mosca sia da ragioni strategiche di controllo del Mar Nero sia dal timore di veder basi statunitensi o del Patto Atlantico nella penisola, interrompe la collaborazione militare tra il blocco occidentale e la Russia. Se solo tre anni prima vi erano state esercitazioni congiunte dei sottomarini russi e dell’alleanza nel Mar Mediterraneo, ogni tipo di consultazione militare, anche a livello di attaché, si interrompe nel 2014. È in questo momento che inizia la fase della denuncia permanente delle mire della NATO da parte del Cremlino, in un clima di tensione generale che si estende anche alla popolazione: secondo uno studio congiunto del 2016 del Centro Levada e del Chicago Council on Global Affairs, il 68% dei partecipanti alla ricerca si dichiarava preoccupato per la presenza di truppe del Patto Atlantico in Polonia e nelle repubbliche baltiche, e il 64% temeva la possibile entrata dell’Ucraina nell’alleanza. All’interruzione dei contatti militari non è corrisposta però la sospensione dei rapporti diplomatici, anzi: il 12 gennaio di quest’anno si è riunito il Consiglio NATO-Russia a Bruxelles per discutere della sicurezza in Europa e dell’Ucraina. Un summit importante, che ha fatto seguito alle richieste di garanzie presentate da Mosca lo scorso autunno agli Stati Uniti e all’Alleanza Atlantica, e all’ancor precedente giro di espulsioni di personale diplomatico da ambo i lati, culminato con la chiusura della rappresentanza russa presso il quartier generale di Bruxelles e l’ordine di lasciare l’ufficio NATO di Mosca.

Se la discussione su quale tipo di politica estera e militare in Europa orientale appare legittima e utile per capire quali siano le tendenze di fondo e le motivazioni degli allargamenti dell’alleanza, è necessario tener presente come l’utilizzo dell’ampliamento della NATO sia una delle parti costitutive della narrazione attualmente proposta dal Cremlino all’interno della Russia. A far pensare è anche la tempistica nel rilevare la pericolosità dell’adesione dei paesi dell’Est al Patto Atlantico, avvenuta diciassette anni dopo il 2004, e la denuncia dei rapporti tra NATO e Ucraina, la cui commissione congiunta è attiva fin dal 1997 e il cui lavoro si è intensificato nel 2014, appare quantomeno tardiva, come anche l’intervento contro di essa. Ma il tema dell’aggressione è un elemento fondamentale per costruire la necessaria retorica, da sempre presente in ogni lettura nazionalistica, della minaccia esterna, in grado di rinserrare i ranghi, mobilitare i sostenitori e zittire i dubbiosi. Il contesto ucraino è quello migliore, perché se vi son state richieste continue da parte di Kyiv di entrare nella NATO, questo ha consentito di trovare elementi in grado di costruire il tema della minaccia atlantica alle porte della Russia: ancora il 30 marzo il capodelegazione russo Vladimir Medinsky ha denunciato il tentativo di fare dell’Ucraina una “piazza d’armi antirussa”, tema sollevato a più riprese nei colloqui di questi giorni. In realtà, lo status ucraino, come quello georgiano, non consentiva a questi paesi di entrare nella NATO, poiché hanno contese territoriali, ma in questo momento vi è uno spostamento della narrazione del Cremlino sull’utilizzo dell’Ucraina come base dell’Occidente per future aggressioni. Quanto poi fosse davvero nei piani del Patto Atlantico bombardare Voronezh (per citare un fortunato e tetro meme presente nei social russi dalle prime avvisaglie di crisi nel 2014) non è poi così importante: già in questo modo si è ottenuto un immaginario carico di significati e effetti per la politica interna e estera della Russia.

Immagine in anteprima: TASS News Agency, CC BY 4.0, via The Bulletin

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