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Decreto sicurezza bis: cosa prevede e le critiche degli esperti

22 Luglio 2019 20 min lettura

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Decreto sicurezza bis: cosa prevede e le critiche degli esperti

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Aggiornamento 6 agosto 2019: Dopo il via libera della Camera dei Deputati arrivato il 25 luglio scorso, il cosiddetto "decreto sicurezza bis" è stato convertito in legge il 5 agosto, con l'ok del Senato alla fiducia.

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Il "decreto sicurezza bis" arriva oggi in aula alla Camera dei Deputati, dopo essere stato modificato dalle commissioni Affari Costituzionali e Giustizia. 

Leggi anche >> Cosa prevede il decreto sicurezza e immigrazione, criticità e rischi di incostituzionalità

Il testo – che ora dovrà essere convertito in legge dal Parlamento entro il 13 agosto, dopo la sua approvazione nel consiglio dei ministri lo scorso 11 giugno – interviene su tematiche differenti, come il “contrasto alla violenza in occasione di manifestazioni sportive”, la protezione dei dati personali e un cosiddetto “pacchetto polizia”, che prevede una serie di norme per gli agenti di polizia di Stato e dei vigili del fuoco, come l'aumento degli straordinari, dei buoni pasto e delle risorse per il ricambio dell’equipaggiamento. 

Ma il “cuore” del provvedimento del governo Conte, e anche gli aspetti più criticati, sono le misure introdotte in materia di contrasto dell'immigrazione irregolare, di sicurezza e ordine pubblico. Vediamo nel dettaglio cosa prevedono e quali sono state le osservazioni critiche di esperti, UNHCR, magistrati e forze dell’ordine che si concentrano sul rischio di non rispettare il diritto internazionale da parte dell'Italia per quanto riguarda le operazione di ricerca e soccorso di naufraghi e di criminalizzare il dissenso durante manifestazioni.

Cosa prevede il provvedimento

Le critiche evidenziate dagli esperti

Cosa prevede il provvedimento

Disposizioni in materia di immigrazione irregolare

L’articolo 1 – che interviene sul testo unico sull’immigrazione del 1998 –  stabilisce che il ministro degli Interni, con un “provvedimento” di concerto con i ministri dei Trasporti e della Difesa, “nel rispetto degli obblighi internazionali dell’Italia”, possa limitare o vietare l’ingresso, il transito o la sosta nel mare territoriale di navi “per motivi di ordine e sicurezza”, oppure quando si concretizzino violazioni delle leggi contro l’immigrazione irregolare, in base alle condizioni stabilite all'articolo 19, comma 2, lettera g) della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del Mare di Montego Bay del 1982 (ratificata dall’Italia nel 1994).

Alla lettera g) del comma 2 dell’articolo 19 della Convenzione si legge infatti che “il passaggio di una nave straniera è considerato pregiudizievole per la pace, il buon ordine e la sicurezza dello Stato costiero se, nel mare territoriale, la nave è impegnata” nell’attività di “carico o lo scarico di materiali, valuta o persone in violazione delle leggi e dei regolamenti doganali, fiscali, sanitari o di immigrazione vigenti nello Stato costiero”. 

Secondo quanto si legge nella relazione illustrativa del disegno di legge questo intervento normativo si è reso “necessario, indifferibile e urgente in considerazione dell’evidenza che gli scenari geopolitici internazionali possono rischiare di riaccendere l’ipotesi di nuove ondate di migrazione”. La norma, illustra sempre la relazione, è stata pensata in “una specifica ottica di prevenzione” per impedire “il cosiddetto «passaggio pregiudizievole» o «non inoffensivo» di una specifica nave” che potrebbe violare le leggi italiane sull’immigrazione. Questo divieto, però, non si potrà applicare alle navi militari e a quelle in servizio governativo non commerciale

Su questo specifico articolo, il Servizio Studi Osservatorio della legislazione della Camera fa notare però che la norma solleva un problema di rispetto di obblighi internazionali, citati nel testo, in quanto “andrebbe chiarito come trovi applicazione la disposizione in caso di mancata individuazione in termini univoci del "porto sicuro" di sbarco, anche a causa dell'esigenza di rispettare il principio di non respingimento (non refoulement)”. Una questione che, come vedremo, verrà sottolineata anche dagli esperti di diritto internazionale auditi alla Camera dei deputati.

L’articolo 2 – che integra l’articolo 12 del testo unico sull'immigrazione – introduce invece le sanzioni amministrative pecuniarie nei confronti di chi non rispetta questo divieto: si va da un minimo di 150mila euro a un massimo di 1 milione di euro (queste somme sono state aumentate con emendamenti approvati in Commissione. Il testo originale del decreto prevedeva sanzioni a partire da un minimo di 10mila euro a un massimo di 50mila).

In precedenza, questa sanzione era disposta oltre che nei confronti del comandante della nave, anche verso l’armatore e il proprietario dell’imbarcazione. Come spiega in un dossier il Centro Studi del Parlamento questa previsione è stata modificata: ora la sanzione amministrativa è una sola: “Responsabile dell’illecito è il comandante della nave mentre armatore – e proprietario del mezzo (...) – dovranno procedere al pagamento solo se non vi provvede il comandante (potendosi poi rivalere nei confronti dell’autore della violazione)”.

Inoltre, nell’articolo viene specificato che l’illecito amministrativo non esclude l’applicabilità di sanzioni penali qualora il fatto costituisca reato, come ad esempio quello di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Ancora, oltre alla sanzione amministrativa pecuniaria ne viene applicata anche un'altra che prevede la confisca dell’imbarcazione che non rispetti il divieto di entrata in acque territoriali. Inizialmente, il decreto – poi modificato in Commissione – prevedeva invece che la confisca ci fosse solo nel caso di una reiterazione della violazione con la stessa nave. Queste sanzioni, “accertate dagli organi addetti al controllo”, vengono erogate dal Prefetto. Sempre in Commissione è stato inserita inoltre una norma che prevede l’arresto in flagranza di reato per il comandante di un'imbarcazione che commette il “delitto di resistenza o violenza contro nave da guerra, in base all’art. 1100 del codice della navigazione”.

Durante l'iter parlamentare, poi, si è stabilito che le navi sequestrate, dopo una specifica richiesta, potranno essere affidate in custodia dal prefetto, alle forze di polizia, alle Capitanerie di porto o alla Marina militare per attività istituzionali. Nel caso poi che, dopo il sequestro, ci sia la confisca definitiva della nave, quest’ultima diventa di proprietà della Stato che la potrà riutilizzare o venderla “per parti separate”. Se poi dopo due anni, la nave non sarà riutilizzata o venduta, potrà essere distrutta. 

Il decreto si concentra anche sul reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. L’articolo 3 modifica infatti l’articolo 51 del codice di procedura penale che riguarda le indagini di competenza della Procura distrettuale, estendendole anche alle fattispecie associative realizzate per commettere il reato di favoreggiamento, non aggravato, dell’immigrazione clandestina. Così, se prima la Procura distrettuale era competente solo per le indagini sul favoreggiamento aggravato dell’immigrazione clandestina, adesso le spetteranno anche quelle per il favoreggiamento semplice (prima del decreto erano di competenza della Procura circondariale). La conseguenza di questa norma è che sarà ora possibile svolgere intercettazioni preventive per l'acquisizione di notizie utili alla prevenzione di questo delitto anche nei casi di minore gravità.

Vengono poi stanziati fondi pubblici – 500mila euro per il 2019, 1 milione di euro per il 2020 e 1 milione e mezzo di euro per il 2021 – per il potenziamento delle operazioni di polizia sotto copertura, “anche con riferimento alle attività di contrasto del delitto di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina”.

Il testo interviene anche sui rimpatri di stranieri con posizione irregolare sul territorio italiano, istituendo un fondo che punta a sostenere iniziative di cooperazione o intese bilaterali per la riammissione di queste persone nei loro paesi di origine. Questo fondo ha una dotazione iniziale di 2 milioni di euro per l’anno 2019 – risorse che in futuro potranno aumentare, fino a una quota massima di 50 milioni di euro, e che saranno ricavate dai “processi di revisione e razionalizzazione della spesa per la gestione dei centri per l’immigrazione” grazie alle diminuzione dei flussi migratori in Italia negli ultimi due anni e per “gli interventi per la riduzione del costo giornaliero per l’accoglienza dei migranti”. 

Come ha spiegato il ministro degli Esteri, Enzo Moavero Milanesi, in Parlamento il 6 marzo scorso, la questione dei rimpatri è comunque un processo complesso: “Detto per sommi capi, richiede degli accordi di rimpatrio, ma soprattutto richiede l’identificazione delle persone, perché se una persona arriva da un Paese dell’Africa subsahariana, non è così evidente che si sia in grado di identificare con precisione il Paese di provenienza, di conseguenza quella accettazione al rimpatrio da parte dello Stato di provenienza può non venire”. Attualmente, l’Italia ha accordi di riammissione ed intese tecniche con questi paesi: Algeria, Costa d’Avorio, Egitto, Filippine, Ghana, Gibuti, Kosovo, Marocco, Niger, Nigeria, Senegal, Sudan e Tunisia. In base agli ultimi dati pubblicati dal Sole 24 Ore, ottenuti dal Viminale, dal 1 giugno 2018 – giorno di insediamento del governo Conte – a giugno 2019 i rimpatri sono stati 7.286, "comunque meno di quando governavano Gentiloni e Renzi". 

Disposizioni in materia di sicurezza e ordine pubblico

Il decreto si concentra anche su aspetti di sicurezza e ordine pubblico. L’articolo 6 interviene sullo svolgimento delle manifestazioni in luogo pubblico e aperto al pubblico. In queste occasioni è vietato l’uso di caschi protettivi (o di un altro mezzo che rende difficoltoso il riconoscimento di una persona), senza un giustificato motivo. È poi aumentata la pena per chi non rispetta queste disposizioni durante una manifestazione,  con una pena minima di 2 anni e un massimo di tre anni e un’ammenda da 2mila a 6mila euro (in precedenza erano previsti da uno a due anni di carcere e un’ammenda da mille a 2mila euro).

Viene anche creato un nuovo articolo di legge che prevede il carcere da uno a quattro anni per chi nel corso delle manifestazioni, “lancia o utilizza illegittimamente, in modo da creare un concreto pericolo per l’incolumità delle persone, razzi, bengala, fuochi artificiali, petardi, strumenti per l’emissione di fumo o di gas visibile o in grado di nebulizzare gas contenenti principi attivi urticanti, o bastoni, mazze, oggetti contundenti o, comunque, atti a offendere”. Se il pericolo si riferisce all’integrità delle cose e non alle persone, la pena è più lieve: da 6 mesi a 2 anni di carcere. 

Con l’articolo 7 vengono inoltre inasprite le pene per un serie di reati realizzati durante manifestazioni in luogo pubblico e aperto al pubblico: “Violenza o minaccia a un pubblico ufficiale”, “Resistenza a un pubblico ufficiale”, “Violenza o minaccia ad un corpo politico, amministrativo o giudiziario o ai suoi singoli componenti”, “devastazione e saccheggio”, “Interruzione di ufficio o servizio pubblico o di pubblica necessità”. Inoltre, si stabilisce che, sempre durante queste manifestazioni, chiunque distrugga, disperda, deteriori o renda, in tutto o in parte, inservibili cose mobili o immobili viene punito con la reclusione da uno a cinque anni, con la possibilità di arresto in flagranza di reato. In Commissione, poi, rispetto al testo originale del decreto, sono state inasprite le pene per il delitto di oltraggio a pubblico ufficiale e per quello a magistrato in pubblica udienza. 

Con l’articolo 15 viene poi “stabilizzato” nell’ordinamento penale italiano l’arresto in flagranza differita “per i reati violenti commessi in occasione o a causa di manifestazioni sportive, per i quali è obbligatorio o facoltativo l'arresto” e per quelli “commessi con violenza alle persone o alle cose, compiuti alla presenza di più persone anche in occasioni pubbliche, per i quali è obbligatorio l’arresto”. L’arresto in flagranza differita – su cui sono stati sollevati nel tempo dubbi di legittimità costituzionale – viene effettuato non oltre le 48 ore dal fatto, nel caso in cui non sia possibile procedere immediatamente all'arresto per ragioni di sicurezza o incolumità pubblica.

Infine, l'articolo 16, modificato dalla Camera dei deputati, prevede infine l’esclusione della particolare tenuità del fatto per i delitti di violenza o minaccia a un pubblico ufficiale, di resistenza a pubblico ufficiale e di oltraggio a pubblico ufficiale commessi nei confronti di un pubblico ufficiale nell’esercizio delle proprie funzioni.

Le criticità evidenziate dagli esperti

In fase di conversione in legge del decreto, si sono svolte davanti le commissioni riunite “Affari Costituzionali” e “Giustizia” diverse audizioni di esperti, magistrati, forze di polizia e UNHCR per fare il punto sul testo. 

Inizialmente era prevista anche l’audizione della Organizzazione non governativa tedesca Sea Watch. Ma la Lega ha protestato chiedendone l’esclusione, dopo il caso della nave Sea Watch 3.

Leggi anche >> Sea Watch: i 16 giorni in mare, il porto vicino più sicuro, l’impatto con la Gdf, la decisione del Gip di liberare la comandante

Un vicenda che, secondo la presidente della commissione Giustizia della Camera Francesca Businarolo (M5s) avrebbe “assunto una sensibilità mediatica tale da sovrapporre le finalità del confronto” e che per tale motivo ha deciso per l’esclusione della ONG. In solidarietà con Sea Watch alcune associazioni – come Antigone e Medici senza frontiere – e altre ONG hanno disertato le rispettive audizioni previste alla Camera. Queste associazioni hanno poi organizzato una conferenza stampa in cui hanno criticato contenuti e finalità del decreto del governo.

Riguardo alle audizioni svoltesi in Parlamento, professori e magistrati si sono inizialmente concentrati sulla mancanza dei presupposti di necessità e di urgenza, indicati dalla Costituzione, del decreto in questione, in particolar modo sulle norme di contrasto all’immigrazione irregolare. 

Paolo Iafrate, avvocato e docente a contratto di “Economia delle Migrazioni e delle Regolamentazioni” dell'Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”, afferma infatti che in Italia nei primi 6 mesi del 2019 rispetto allo stesso periodo del 2018 c’è stata una riduzione degli sbarchi di oltre l’80% e che inoltre si è registrata una riduzione dei reati che normalmente destano allarme sociale (delitti contro il patrimonio e contro la persona), con il risultato «di uniformare il nostro paese alle statistiche dei Paesi europei comunemente ritenuti sicuri»

Via audizione Paolo Iafrate

Inoltre, Cesare Pitea, professore di diritto internazionale presso l'Università di Milano “La Statale”, nella sua audizione, cita quanto scritto nel preambolo del decreto dove si legge che è stata “ritenuta la straordinaria necessità e urgenza di prevedere misure volte a contrastare prassi elusive della normativa internazionale e delle disposizioni in materia di ordine e sicurezza pubblica” e spiega che anche se non se ne fa esplicito riferimento nel provvedimento, con “prassi elusive” si intendono le pratiche delle navi delle organizzazioni non governative (ONG) che svolgono attività di ricerca e soccorso nel Mediterraneo centrale. Una lettura che risulta evidente dalle direttive del ministero dell'Interno nei confronti di alcune ONG (qui, qui, qui), precedenti l’emanazione del decreto. Anche in questo caso, osserva il procuratore di Agrigento, Luigi Patronaggio, in un’altra audizione, gli sbarchi effettuati dalle ONG, dopo aver salvato naufraghi in mare, sono “una porzione assolutamente minore e per quanto riguarda l’anno 2019 statisticamente insignificanti”. 

Il magistrato ricorda invece che “mentre si agitava il caso Sea Watch 3” arrivavano via mare in Sicilia, in maniera autonoma, oltre 200 immigrati con vari mezzi. Si tratta dei cosiddetti “sbarchi fantasma”, provenienti principalmente dalla Tunisia e dalla Turchia, e che Patronaggio definisce il “pericolo maggiore” per la sicurezza pubblica perché, tre altre cose, se per gli arrivi dalla Libia c’è l’identificazione di tutte le persone salvate in mare una volta arrivate in Italia, in questo caso è più problematica l’identificazione “e quindi rappresentano un potenziale pericolo anche per fronteggiare eventuali atti terroristici”. Tra venerdì 19 luglio e sabato 20 luglio sono sbarcati a Lampedusa e Siculiana, con queste modalità, circa 130 migranti. 

Gli auditi passano poi ad analizzare diverse criticità che emergono dalla lettura del testo di legge. Iafrate, dell’Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”, si concentra sull’articolo 1. Su questa norma, il docente rileva l’incompatibilità con i principi contenuti nelle Convenzioni, UNCLOS, SOLAS E SAR, in relazione al diritto internazionale del mare e nella Convenzione di Ginevra, in particolare all’articolo 33 che regola il principio di non respingimento per il rifugiato verso i confini di territori in cui la sua vita o la sua libertà sono minacciate. Una aspetto che era stato denunciato lo scorso maggio anche dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite in una lettera al governo italiano in vista dell’approvazione del decreto. 

Iafrate spiega che lo Stato italiano ha l’obbligo di attenersi ai trattati internazionali ratificati. Su questo aspetto, inoltre, Giuseppe Cataldi, professore di diritto internazionale all’Università L’Orientale di Napoli e avvocato, ricorda ai deputati delle Commissioni riunite che l’esistenza di una cornice giuridica di rango primario (come appunto un decreto legge) non modifica il sistema delle fonti sovranazionali (ratificate dall’Italia) che deve essere rispettato, come previsto dagli art. 10, 11 e 117 della Costituzione italiana.

Il professore di diritto internazionale all’Università di Milano “La Statale”, Pitea, si concentra poi sul riferimento all’articolo 19 comma 2, lettera g) della Convenzione di Montego Bay per emettere un divieto di passaggio di una nave straniera nelle acque territoriali. Il docente spiega che è necessario guardare l’insieme degli obblighi stabiliti dal diritto internazionale – quindi non solo una parte – e in particolare quelli derivanti dall’articolo 98 della stessa Convenzione, sull’obbligo di prestare soccorso e sulla tutela della vita in mare. Per questi motivi, afferma Pitea, «non potrebbe mai essere considerato offensivo il passaggio in acque territoriali di una nave che operi, in conformità con il diritto internazionale, in un’operazione di soccorso». Così se la norma prevista dall’articolo 1 del decreto verrà applicata, l’Italia, secondo il docente, rischia di creare ripetute violazioni di obblighi internazionali. 

Inoltre, se anche il divieto non si applicasse a navi – comprese quelle delle ONG – che operano secondo il diritto internazionale ma solo a quelle di trafficanti di esseri umani, si creerebbe comunque un grosso problema, argomenta Francesca De Vittor, ricercatrice in diritto internazionale presso l'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Secondo De Vittor, infatti, questa interpretazione porrebbe un problema di incompatibilità con un altro obbligo internazionale e cioè quello previsto da due protocolli di Palermo sul traffico e sulla tratta di persone: «Perché significa dire che quando una nave di trafficanti sta arrivando nel mare territoriale invece di procedere all’arresto di trafficanti e alle indagini, dico ‘Restate a piede libero, ve ne tornate indietro e continuate nella vostra attività di traffico’».

Per il professore Pitea inoltre alla base dell’intervento legislativo della maggioranza di governo, c’è una visione di un quadro giuridico applicabile alle attività di ricerca e soccorso che si fonda su una serie di equivoci sulla natura e funzione del sistema SAR (Search and Rescue) e sul diritto internazionale. Secondo questo presupposto, quando un evento SAR avviene nella zona di mare sotto la responsabilità della Libia, le autorità libiche eserciterebbero sulla nave che procede al salvataggio «un potere esclusivo e cogente, manifestazione della sovranità della Libia, rispetto alla condotta che la nave dovrebbe tenere, inclusa l’indicazione di un luogo sicuro in Libia». Ebbene – afferma Pitea – questa idea non corrisponde alla realtà. 

Innanzitutto, «la zona Sar non è una zona di esercizio della giurisdizione, della competenza e dell’esercizio della sovranità dello Stato costiero. È invece una zona di mare nella quale uno Stato esercita una responsabilità primaria per conto della Comunità internazionale orientata alla tutela della vita in mare. Dunque è una zona funzionale finalizzata ad adempiere agli obblighi di salvataggio e soccorso previsti dall’articolo 98 della Convenzione Montego Bay». Per questo motivo, «la proclamazione di una zona Sar ha come presupposto indefettibile la costituzione e il funzionamento permanente di un servizio adeguato ed efficace di ricerca e soccorso». Senza l’istituzione di questo servizio risulterà inefficace anche la proclamazione di una zona SAR. Proprio in riferimento alla Libia, il procuratore di Agrigento specifica che i porti libici non sono ritenuti sicuri e che inoltre, in base a indagini in corso, la zona Sar libica non appare efficacemente presidiata dalla Guardia costiera locale e che il suo “funzionamento” sembrerebbe dipendere esclusivamente dagli accordi bilaterali Italia-Libia e grazie all’apporto che l’Italia dà a questa zona SAR. 

Pitea continua poi a spiegare che «poiché la Convenzione di Amburgo, a seguito degli emendamenti del 2004, definisce l’operazione di salvataggio quale “operazione destinata a ripescare le persone in pericolo e a prodigare loro le prime cure mediche e (...) a trasportarli in un luogo sicuro” risulta evidente che lo sbarco in un luogo sicuro è un elemento costitutivo dell’operazione SAR» e che quindi «non è conclusa l’operazione finché esso non avviene». Come specificato dai diversi esperti di diritto internazionale, per “luogo sicuro” si intende non solo un luogo dove i naufraghi non siano direttamente esposti a rischi di persecuzione e tortura, ma anche dove non esista pericolo di respingimento verso lo Stato di origine in violazione dell’articolo 33 della Convenzione di Ginevra. 

Proseguendo nella sua analisi, il docente afferma che nella propria zona SAR, lo Stato «esercita una responsabilità primaria ma non esclusiva»: «Questo vuol dire che laddove non sia in grado di esercitarla perché non ha un sistema di ricerca e soccorso adeguato, perché non è in grado di indicare un luogo sicuro, gli altri Stati – quello di bandiera della nave, quelli i cui centri di soccorso siano stati contattati e gli Stati geograficamente prossimi al luogo di salvataggio – mantengono un obbligo di cooperazione, anche al fine di fornire un porto sicuro, ed eventualmente anche un obbligo di coordinamento se questo non può o non vuole essere svolto dallo Stato teoricamente responsabile». Se poi tutti gli Stati non volessero prendersi la responsabilità di coordinare l’evento di salvataggio, «la responsabilità del coordinamento, secondo il diritto internazionale, ricade sul comandante il quale ha il potere e il dovere di determinare il corso di navigazione più adeguato per assicurare lo sbarco in un luogo sicuro che non è necessariamente il più vicino se il porto più vicino non soddisfi le condizioni richieste», conclude Pitea.

Gli esperti di diritto internazionale e i magistrati analizzano anche l’articolo 2 del decreto, in base al quale sono stabilite sanzioni nei confronti di chi non rispetta il divieto di ingresso nelle acque territoriali italiane e in cui si richiama il comandante della nave ad osservare “la normativa internazionale e i divieti e le limitazioni eventualmente disposti”. 

Il procuratore di Agrigento, Patronaggio, specifica che questo illecito amministrativo «appare chiaro» che è stato creato «per fronteggiare le operazione di ricerca e soccorso delle ONG». «Prima dell’introduzione di tale norma – continua il magistrato –, le attività di salvataggio delle ONG erano del tutto lecite e in perfetta linea con il diritto del mare e con le convenzioni internazionali sottoscritte dall’Italia». Inoltre, aggiunge sempre Patronaggio, «secondo la giurisprudenza di merito formatasi davanti ai tribunali di Trapani, Catania, Agrigento e Siracusa, l’attività delle ONG può consolidarsi illecita nel caso si provi che vi sia un preventivo accordo tra i trafficanti di esseri umani e le organizzazioni non governative». Questo accordo preventivo però non deve limitarsi a un semplice contatto – «cioè se c’è una telefonata del tipo ‘Vi è un’imbarcazione in pericolo intervenite’» –, ma deve essere un contatto rafforzato e particolare «del tipo “Li stiamo facendo partire avvicinate e prelevateli”». Patronaggio afferma che dalla Procura di Agrigento, come anche dalle altre procure siciliane, finora non è stato mai provato alcun contatto di questo tipo tra ONG e trafficanti di esseri umani.  

Quanto al divieto di entrare in acque territoriali, il professore Iafrate ricorda ai deputati in audizione che esistono “cause di giustificazione”, stabilite dalla legge 689 del 1988, che possono escludere responsabilità per chi la viola, ossia: adempimento di un dovere o nell’esercizio di una facoltà legittima oppure in stato di necessità o di legittima difesa. 

Iafrate avverte così che nel caso si configuri una “causa di giustificazione”, il provvedimento amministrativo del Ministero potrà essere disapplicato. Una lettura, questa, che ha trovato applicazione nell’ordinanza della Gip di Agrigento – contro cui la procura ha presentato ricorso in Cassazione – che non ha convalidato l'arresto della comandante della Sea Watch 3 Carola Rackete. In quel caso, infatti, il giudice per le indagini preliminari ha ritenuto che il non aver rispettato il divieto emanato dal governo Conte da parte della ONG tedesca, sia stato giustificato da una 'scriminante' legata all'avere agito in base 'all'adempimento di un dovere' stabilito dal diritto internazionale (e dalle leggi italiane) sul salvataggio in mare di persone in pericolo. Un dovere, che non si esaurisce nella presa a bordo di naufraghi, ma nella loro conduzione finale in un luogo sicuro. 

Il professore di diritto internazionale all’Università L’Orientale di Napoli, Cataldi, si concentra infine sulle sanzioni previste nell’articolo 2, affermando che appaiono innanzitutto “sproporzionate (e pertanto illecite)”. Per l’esperto, inoltre, sarebbe preoccupante se si creasse l’effetto di scoraggiare l’adempimento del dovere di soccorso da parte delle navi private, per il timore di conseguenze sanzionatorie o anche semplicemente di rimanere bloccati all’ingresso delle acque territoriali, con ripercussioni economiche negative. Una preoccupazione sollevata anche dall’UNHCR: “Riteniamo che il timore di subire sanzioni possa spingere proprietari e capitani di imbarcazioni private a non intervenire o a esitare nel rispondere a chiamate di soccorso o comunque che essi si possano vedere costretti a sbarcare le persone salvate in luoghi dove queste non sarebbero in sicurezza. Ciò per il timore di incorrere in multe o addirittura nel sequestro del natante”. Sempre l’UNHCR ricorda che anche se la stima del numero dei morti nel Mediterraneo è diminuito in valore assoluto, è cresciuto in maniera significativa se calcolato rispetto alle persone arrivate in Europa. Si è passati da un morto o persona scomparsa ogni 269 arrivi nel 2015, a uno ogni 51 arrivi nel 2018: “Questi dati se focalizzati solo sul Mediterraneo Centrale sono ancora più drammatici. Si stima che al 30 giugno 2019 circa 341 rifugiati e migranti abbiano perso la vita nel Mar Mediterraneo Centrale. Questa cifra messa in rapporto con il numero degli arrivi in Italia, che nello stesso periodo sono stati 2768, determina una percentuale di un deceduto o scomparso ogni 8 persone salvate”. 

Per quanto riguarda poi le risorse stanziate dal testo per i rimpatri di persone con posizione irregolare in Italia, il Garante nazionale dei diritti delle persone detenute, Mauro Palma, ha mostrato preoccupazione sulle provenienza di questi fondi perché deriverebbero dalle misure di razionalizzazione della spesa per la gestione dei Centri dell’immigrazione e dalla riduzione del costo giornaliero dell’accoglienza. La previsione di un’ulteriore contrazione delle risorse destinate alla Gestione dei centri, inclusi i Centri di permanenza i per il rimpatrio (CPR), avverte Palma, “rischia di mettere a repentaglio il livello, già di per sé piuttosto critico, delle condizioni di vivibilità delle strutture come evidenziato più volte da attività di monitoraggio”.

In audizione sono state anche ascoltati diversi sindacati delle forze dell’ordine. I pareri espressi si sono concentrati, tra l’altro, sulle nuove norme in materia di ordine pubblico. Se la maggior parte dei sindacati ha espresso un parere di base favorevole a quanto previsto dal provvedimento del governo (qui, qui, qui e qui), il sindacato SILP-CGIL ha invece evidenziato criticità sia per quanto riguarda la ratio sia per i possibili effetti. 

Queste norme, afferma il sindacato, infatti, “hanno come presupposto l’insicurezza, percepita e veicolata, in gran parte, da campagne propagandistiche che instillano le paure, mentre tutte le rilevazioni e i dati oggettivi indicano i vari fenomeni criminali in diminuzione o comunque, non rispondenti all’allarme sociale suscitato”. Inoltre, continua il relatore, “il proliferare di nuovi istituti sanzionatori e la dilatazione smisurata di quelli esistenti, comporta un indubbio aggravio di adempimenti per le Forze di Polizia, notoriamente gravate da carenze di organici che si sommano alla problematica dell’età anagrafica avanzata, oltre alle esigenze di formazione e aggiornamento sulle modifiche normative”.

Il risultato è quello di assistere “a una escalation della criminalizzazione delle condotte che è iniziata dall’immigrazione, dalle frontiere, ed è giunta alle riunioni in luogo pubblico o aperto al pubblico, ovvero nelle piazze cuore del paese e luoghi dove i cittadini esprimono opinioni”. Il rischio, così, avverte il sindacato di polizia, “nella sola repressione di condotte ritenute devianti o comunque difformi ed in contrasto con il pensiero e i desiderata di chi governa” è quello di “portare alla strumentalizzazione delle Forze di polizia, viste come braccio armato e violento dell’esecutivo del momento (....)”.

Foto in anteprima via Ansa

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