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La crisi dei sindacati e il futuro della mobilitazione sociale

10 Maggio 2023 9 min lettura

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La crisi dei sindacati e il futuro della mobilitazione sociale

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Il reddito di cittadinanza, i salari, la riforma fiscale, i diritti delle persone LGBTQIA+ e i sostegni all’affitto: mentre il governo di Giorgia Meloni sta mettendo mano a molti temi caldi, per lo più inasprendo le disuguaglianze, che fine hanno fatto le mobilitazioni sociali in Italia? In Francia le scelte del governo e i problemi strutturali come l’inflazione e il carovita, uniti alla riforma delle pensioni, hanno dato vita a serrate proteste. Nel Regno Unito a febbraio c’è stato il più grande sciopero degli ultimi dieci anni, a cui hanno partecipato circa 500mila persone e che ha coinvolto insegnanti, dipendenti pubblici, ferrovieri e addetti ai controlli di frontiera. Nel nostro paese, le principali sigle sindacali hanno annunciato una campagna di assemblee nei luoghi di lavoro e una mobilitazione in tre tappe: la prima si è tenuta il 6 maggio a Bologna, le prossime si svolgeranno il 13 maggio a Milano e il 20 maggio a Napoli. Ma la partecipazione non è stata paragonabile a quella delle manifestazioni di Parigi e Londra.

“In Italia si fatica di più a interpretare un malessere sociale diffuso, e c’è minore disponibilità a mobilitarsi collettivamente”, spiega a Valigia Blu Fabio Mangiafico, sindacalista della FIOM Cgil di Bergamo. “Ci sono delle ragioni: la maggior parte delle imprese sono medio-piccole, il che rende più complesso organizzare uno sciopero generale, anche su temi politici, perché il condizionamento del datore di lavoro è maggiore. Il nostro è un paese dove le scelte elettorali dominanti delle classi più povere si sono spostate a destra, ma soprattutto il dibattito politico non si polarizza sui classici assi in cui la sinistra sposa la redistribuzione e la destra il laissez-faire. E questo complica le cose. Poi, non possiamo non notare che spesso le manifestazioni di massa in Europa avvengono nelle grandi metropoli, mentre in Italia le città hanno una dimensione più piccola. Infine, ci sono i problemi del sindacato, che fa sempre più fatica a costruire un immaginario collettivo, un insieme di parole d’ordine e un’identità simbolica attorno a cui unirsi”.

Per misurare quanto sia capillare la presenza dei sindacati nei diversi paesi, l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE) calcola la “trade union density”, cioè il rapporto tra gli iscritti ai sindacati (escludendo i pensionati) e la popolazione occupata in un paese. Gli ultimi dati sull’Italia risalgono al 2019, quando la trade union density era al 32,5%: il livello di coinvolgimento era comunque maggiore rispetto alla Spagna (12,5%), alla Germania (16,3%) e al Regno Unito (23,5%), mentre sulla Francia il dato manca - ma guardando i dati Ocse riferiti al 2018 si parla dell’8,8%. I risultati peggiori li registrano l’Estonia (6%), la Lituania (7,4%), la Turchia e gli Stati Uniti (9,9%). Le percentuali più alte invece si trovano nel nord Europa: Islanda (90,7%); Danimarca (67%); Svezia (62,5%); Finlandia (58,8%) e Norvegia (50,4%).

“La riduzione della sindacalizzazione non è prerogativa solo dell’Italia: in molti paesi occidentali i sindacati stanno perdendo iscritti, mentre il numero dei tesserati cresce in diversi paesi in via di sviluppo”, afferma a Valigia Blu Mimmo Carrieri, che insegna Sociologia economica e Sociologia delle relazioni di lavoro alla Sapienza di Roma, autore dei saggi I sindacati (il Mulino, 2012) e La partecipazione incisiva (il Mulino, 2015). “Questo trend è dovuto a una crescita di lavoratori qualificati, spesso non collegati a specifiche categorie sindacali, e a un aumento del lavoro informale. In paesi come la Francia i sindacati sono deboli, ma periodicamente hanno una forte capacità di mobilitazione. In Italia, invece, le organizzazioni sindacali si sono orientate verso la negoziazione, con una certa attitudine a mediare e risolvere conflitti, anche se negli ultimi dieci anni hanno perso il potere contrattuale che avevano nei confronti della politica: questo ha ridotto la propensione al conflitto, che viene disinnescato. Oggi, paradossalmente, i luoghi di lavoro dove vengono catalizzate le tensioni maggiori sono quelli in cui le organizzazioni sindacali sono meno presenti: pensiamo ai lavoratori poveri, ai precari, ai part time involontari, a chi ha orari disagiati o contratti brevi. Un mondo eterogeneo e non facile da organizzare”.

Gli iscritti ai sindacati calano e si sciopera sempre meno

In Italia si parla molto di crisi dei sindacati, ma in realtà mancano dati pubblici sui tesserati. La CGIL rimane il sindacato più grande, con oltre 5 milioni di iscritti. La UIL fornisce la cifra esatta di 2.317.723 iscritti. La CISL è l’unica sigla maggiore che mette a disposizione dati più accurati, che possono essere interessanti per analizzare i trend in atto: nel 2022 i tesserati alla erano 4.082.056 (di cui 2.427.731 lavoratori attivi), con un aumento dello 0,15% rispetto all’anno precedente. Per il 49% sono donne e il 51% uomini. Per quanto riguarda la componente straniera, i nati all’estero sono 386.461 e rappresentano il 17% dei lavoratori attivi iscritti. I paesi più rappresentativi sono la Romania, l’Albania e il Marocco. Ma il dato più significativo è senza dubbio quello che interpreta la disaffezione dei giovani: solo il 30% degli iscritti ha meno di 40 anni, il 28% ha tra 41 e 50 anni mentre il 42% ne ha più di 50. I pensionati sono 1.654.325. “Non è detto che siamo di fronte a un passaggio epocale”, afferma Mimmo Carrieri. “Sicuramente il sindacato è ancora legato a modelli del passato, ma ci sono altre cause materiali a influenzare questa tendenza: ad esempio, è più probabile che i giovani abbiano impieghi discontinui e precari, il che fa sì che abbiano una minor propensione alla sindacalizzazione”. 

Oltre ai tre sindacati principali, che si propongono come rappresentativi di tutte le componenti lavorative, in Italia ce ne sono molti altri. L’articolo 39 della Costituzione sancisce la libertà dell’organizzazione sindacale: in seguito alle prime scissioni della CGIL unitaria nel 1948, da cui nacquero la CISL e la UIL, le sigle sindacali si sono moltiplicate, al punto che oggi se ne possono contare centinaia. Queste possono variare moltissimo e seguire criteri di dimensione, tipologia, settore o territorio geografico. Alcuni esempi sono l’UGL (Unione generale del lavoro), erede della CISNAL, che associa pensionati e lavoratori senza distinzioni settoriali, oppure sigle che accorpano diversi sindacati indipendenti come l’FSI (Federazione dei sindacati indipendenti), oppure in autonomia, come la CISAL (Confederazione italiana sindacati autonomi lavoratori), i COBAS (Confederazione dei comitati di base) e l’USB (Unione sindacale di base).

Anche lo sciopero è un diritto garantito dalla Costituzione, all’articolo 40. Ma quanti scioperi ci sono ogni anno in Italia? In quali settori? La Commissione di garanzia dell'attuazione della legge sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali mostra che nel 2022 in Italia sono stati proclamati 1.518 scioperi, di cui 515 revocati. Di questi, 626 erano nel settore dei trasporti, 183 nel settore reti e comunicazioni, e 156 negli enti centrali e locali. Il presidente della Commissione ha detto, nella sua relazione al Parlamento del 2022: “Con riferimento al settore industriale, si avverte una certa diminuzione non del conflitto collettivo, ma del ricorso allo sciopero”, mentre il settore dei servizi pubblici essenziali rimane “ancora interessato da un numero rilevante di scioperi, seppur inferiore a quello degli anni precedenti alla pandemia (nel 2019 ne furono effettuati 1.462)”. Ha poi evidenziato che “le grandi organizzazioni sindacali scioperano raramente e a conclusione di grandi vertenze, dimostrando così la loro capacità di mantenere il conflitto, principalmente, sul piano del confronto negoziale. Sono, invece, i sindacati meno strutturati e con un insediamento ridotto nelle varie categorie produttive che ricorrono, in modo reiterato, allo sciopero, anche in funzione di autolegittimazione”.

Le ragioni di una crisi e alcune soluzioni

La crisi del sindacato ha radici profonde. Tra le possibili cause si parla del tramonto dell’impresa tradizionale di tipo fordista, della personalizzazione dell’incontro fra domanda e offerta di manodopera, della globalizzazione dei mercati e della concorrenza tra lavoratori di continenti diversi, e dell’avvento di internet che ha contribuito a rendere ancor più fluido il contesto. “Oggi si discute molto dei lavoratori della gig economy, dei contratti in somministrazione o a chiamata, delle finte partite IVA e della polverizzazione del mercato del lavoro”, spiega a Valigia Blu Marco Brogi, segretario di Fisascat Cisl a Siena. “Il rider è il simbolo di tutto questo, ma dietro a questa figura ci sono moltissimi altri lavoratori fragili. Il presupposto è che la società è cambiata, ma nel sindacato c’è ancora molta paura di abbandonare le vecchie tradizioni”.

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In questo processo, la pandemia ha funzionato come un acceleratore. “Nell’emergenza COVID è emersa con chiarezza la necessità di un rinnovamento”, continua Brogi. “Non riuscivamo più ad andare sui luoghi di lavoro a fare assemblea: ci riunivamo online, ma non c’era la stessa partecipazione. Soprattutto, ci siamo accorti che i giovani, per risolvere i propri problemi e capire come funzionavano i diversi sostegni ai lavoratori in difficoltà, si fidavano di più dei social network che del sindacato. Abbiamo capito allora che continuare a lavorare come prima non è più sufficiente: dobbiamo trovare nuove modalità. Servono più delegati sindacali giovani, che parlino un linguaggio diverso. Serve tornare sui luoghi di lavoro, per capire quali sono le nuove esigenze. Piano piano, iniziano a esserci i primi cenni di cambiamento: oggi c’è un gruppo di dirigenti sindacali giovani che sta portando avanti nuove modalità”.

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Il problema è anche di linguaggio: i sindacati sembrano non riuscire più a parlare alle persone, anche a causa dell’uso di termini ormai obsoleti. Troppo spesso i sindacalisti sembrano parlare “sindacalese” e non essere in grado di dare voce alle difficoltà reali dei lavoratori. “Sicuramente c’è un problema di mancato adeguamento e rinnovamento del linguaggio, questo soprattutto in molti contesti locali, aziendali e in specifici territori, pur con le dovute differenze”, ha spiegato Francesco Nespoli, ricercatore dell’Università di Modena e Reggio Emilia e autore di Fondata sul lavoro. La comunicazione politica e sindacale del lavoro che cambia, in un’intervista al magazine SenzaFiltro. “Il tema è molto difficile perché passa dalla questione preliminare della qualità dei delegati e degli operatori, a maggior ragione perché il mestiere del sindacalista è molto difficile e non di moda. L’aspetto preminente è quello della formazione degli operatori. Nei confronti dei lavoratori queste figure diventano centrali, nell’era della comunicazione digitale, il ruolo del delegato sul territorio rimane fondamentale”.

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Quale sarà allora il futuro del conflitto sociale in Italia? “Il conflitto si è sempre adeguato alle condizioni storiche e organizzative che lo consentivano”, afferma Carrieri. “Oggi si può usare un nuovo amplificatore, i social media, che però ha delle contraddizioni: da un lato contiene un potenziale democratico, dall’altro spinge verso una maggiore individualizzazione e passività. In futuro dovremo trovare un mix intelligente tra online e offline: da un lato dovremo individuare nuovi canali per coinvolgere sempre più persone, dall’altro dovremo fare in modo di non perdere la partecipazione diretta”.

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È quello che hanno fatto gli operai dell’ex GKN di Campi Bisenzio, che da venti mesi sono in presidio permanente per evitare il licenziamento. Il 25 marzo a Firenze si è tenuta una manifestazione nazionale in supporto alle loro rivendicazioni, che ha saputo attrarre più di 200 adesioni tra realtà ambientaliste, studentesche, sindacali e politiche: al corteo hanno partecipato circa 15mila persone da tutta Italia, di cui moltissimi giovani. Una storia simile è quella delle lavoratrici della Saga Coffee di Gaggio Montano, che a febbraio 2022, dopo un presidio di più di 100 giorni, sono riuscite ad arrivare a un’intesa con la proprietà per il rilancio dello stabilimento. Nel frattempo avevano raccolto sostegno da tante parti, a partire dai commercianti dell’Appennino fino alle associazioni per i diritti delle donne. La GKN e la Saga Coffee sono due esempi di lotte che arrivano dalle periferie, che coinvolgono i grandi sindacati e che, per le loro caratteristiche, presentano tratti particolarmente innovativi, in particolare nella capacità di coinvolgere e mobilitare l’opinione pubblica. 

“A livello territoriale stanno partendo diverse iniziative interessanti”, conclude Brogi. “Ad esempio, stiamo organizzando corsi di formazione continua con i delegati sindacali, che lavorano nei contesti e che hanno il termometro della situazione. E poi stiamo utilizzando i social network mettendoci la faccia: i sindacalisti registrano reels su temi che riguardano il lavoratore, come lo stipendio, le ferie, la tredicesima, le malattie, la sicurezza sul lavoro, i diritti. Perché anche queste questioni possono diventare attrattive, se raccontate nel modo giusto”.

Immagine in anteprima: frame video Corriere della Sera

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