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Crisi climatica: la corsa al cobalto in Congo tra sfruttamento, avidità e giochi sporchi

6 Dicembre 2021 14 min lettura

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Crisi climatica: la corsa al cobalto in Congo tra sfruttamento, avidità e giochi sporchi

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Il round-up settimanale sul cambiamento climatico e i dati sui livelli di anidride carbonica nell'atmosfera.

La corsa per il cobalto nella Repubblica Democratica del Congo

La crescente domanda di macchine elettriche, considerate una delle soluzioni immediate verso la transizione energetica per limitare il riscaldamento globale e il cambiamento climatico, ha dato il via a una corsa globale per il cobalto, materia prima fondamentale per le batterie delle automobili. L’attenzione globale è orientata verso la Repubblica Democratica del Congo, dove vengono prodotti circa i due terzi del cobalto mondiale.

Il New York Times ha dedicato una serie di articoli per indagare sul giro di affari generato dall’estrazione del cobalto, sulle mire di Cina e Stati Uniti in questo particolare mercato, su come leader locali stanno usando gli interessi di Stati e case automobilistiche per business personali a discapito delle condizioni dei lavoratori impiegati nelle miniere, spesso minori, scarsamente attrezzati e poco qualificati.

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Il cobalto è tra i cosiddetti “minerali critici”, la cui domanda potrebbe aumentare di circa 6 volte se tutti gli impegni verso la neutralità climatica verranno rispettati. Secondo il rapporto The role of critical minerals in energy transition pubblicato dall’Agenzia Internazionale dell’Energia (IEA) a maggio, la domanda di litio potrebbe aumentare di 40 volte rispetto a quella attuale, quella di grafite di 25 volte, quella di cobalto e nickel di 20 volte, quella delle cosiddette terre rare di 7 volte.

Quella dei minerali critici, evidenzia la IEA, è una partita geopolitica ed economica oltre che energetica. Dipendere eccessivamente dalla capacità estrattiva e produttiva di pochi paesi (la Cina su tutti) potrebbe generare tensioni che rischierebbero di rendere temporaneamente insufficienti le forniture, ritardando la realizzazione della transizione stessa. 

È questo il caso del Congo, dove la Cina da anni sta investendo scambiando la costruzione di infrastrutture in cambio di risorse naturali. Secondo quanto riportato in alcuni cablo diffusi da Wikileaks, nel 2005 la Cina avrebbe abbozzato con l’allora presidente del Congo, Joseph Kabila, un accordo da 6 miliardi di dollari: Pechino avrebbe pagato strade, ospedali, linee ferroviarie, scuole e progetti per espandere l'elettricità, in cambio dell'accesso a 10 milioni di tonnellate di rame e più di 600.000 tonnellate di cobalto. Una strategia, quella cinese, che ha portato la Cina ad acquistare negli ultimi cinque anni due dei più grandi giacimenti di cobalto in Congo, sostituendosi di fatto agli Stati Uniti quale potenza coloniale nel paese. Accordi che, ricostruiva in questo articolo Antonella Sinopoli, sono molto vantaggiosi per i cinesi.

L'obiettivo della Cina, spiega il New York Times, è controllare la catena di approvvigionamento globale di cobalto dai minerali sotto terra fino alle batterie, indipendentemente da dove vengono fabbricati le auto elettriche. L'approccio, in parte, ricorda gli investimenti di Henry Ford nelle piantagioni di gomma dell'Amazzonia quando l'industria automobilistica è passata alla produzione di massa all'inizio del XX secolo.

Negli ultimi tempi, però, il governo del Congo sembra aver cambiato posizione nei confronti delle aziende cinesi. Con l'aiuto finanziario del governo americano nell'ambito di un più ampio piano anti-corruzione, i funzionari congolesi stanno rivedendo i contratti minerari stipulati in passato ed esaminando se le aziende cinesi stanno adempiendo ai loro obblighi contrattuali, incluso l'impegno a costruire nuove strade, ponti, centrali elettriche e altre infrastrutture per un valore di miliardi di dollari.

Il presidente del Congo, Felix Tshisekedi, ad agosto ha nominato una commissione per indagare se China Molybdenum, la società che ha acquistato i due giacimenti di proprietà di società statunitensi, abbia truffato il governo congolese per miliardi di dollari in pagamenti di royalty. Inoltre, decine di dipendenti e appaltatori della miniera hanno dichiarato al New York Times che, da quando si è insediata la società cinese, sono calati gli standard di sicurezze e sono aumentati gli incidenti sul lavoro, molti dei quali non segnalati alla direzione. Due agenti di sicurezza congolesi hanno affermato che i minatori sono stati aggrediti dopo aver espresso preoccupazione per gli incidenti e hanno ricevuto tangenti per mettere tutto a tacere. L'azienda cinese ha respinto le accuse di truffa e di allentamento dei livelli di sicurezza, sostenendo che si tratta di un tentativo organizzato contro la società. Nel frattempo il presidente Tshisekedi ha rimosso Albert Yuma Mulimbi, presidente dal 2010 di Gécamines, l'agenzia governativa che controlla la produzione di cobalto e rame nel paese. Yuma – il cui compito era quello di dare trasparenza all'intero settore – è accusato da tempo di aver usato le entrate della vendita dei minerali per favorire familiari e persone a lui vicine.

Lo scorso luglio ci sono stati gravi disordini vicino a un porto in Sudafrica, dove gran parte del cobalto del Congo viene esportato in Cina e altrove, che hanno portato a un’impennata dei prezzi del metallo. Il mese scorso, il principale esperto di previsioni del settore minerario ha affermato che l'aumento del costo delle materie prime potrebbe far incrementare i costi delle batterie per la prima volta da anni, minacciando di fermare i piani delle case automobilistiche di rendere sempre più economicamente competitive le auto elettriche.

Secondo le stime della IEA sulla base delle miniere esistenti e di quelle in costruzione, entro il 2030 potrebbe verificarsi una forte carenza di cobalto. 

Il nucleare è un’energia verde e pulita e può aiutarci contro il cambiamento climatico? Il fact-checking di Deutsche Welle

Mentre si attende la decisione dell’Unione Europea sull’inserimento o meno del nucleare nella tassonomia verde, un articolo di fact-checking di Deutsche Welle ha voluto verificare se davvero l’energia nucleare è verde e pulita e può aiutare a liberare le nostre economie dai combustibili fossili come affermato dai sostenitori del nucleare. 

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Innanzitutto, spiega DW (che ha passato in rassegna diversi studi), non è possibile sostenere che l’energia nucleare non è a emissioni zero. Come tutte le fonti energetiche, genera emissioni, in tutte le fasi, dall’estrazione dell’uranio al trasporto, dalla lavorazione alla costruzione e demolizione delle centrali, dal trasporto allo stoccaggio delle scorie radioattive.

I dati su quanta anidride carbonica viene prodotta con l’energia nucleare variano a seconda se si valuta il processo di generazione elettrica o l’intero ciclo di vita di un impianto nucleare. Non sono tanti gli studi che analizzano l’intero ciclo di vita perché, stando a quanto segnalato da alcuni ricercatori, i dati a disposizione sono ancora lacunosi. Un rapporto del 2014 dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC) delle Nazioni Unite ha stimato un range tra i 3,7 e i 110 grammi di CO2 per kilowatt-ora (kWh). Tra i pochi studi sull’intero ciclo di vita c’è quello realizzato dal direttore del programma Energia per l’Università di Stanford, in California, che ha calcolato un valore compreso tra i 68 e i 180 grammi di Co2 per kWh.

Ma cosa significano questi valori rispetto alle altre fonti energetiche? Secondo i dati non ancora resi pubblici dell’Agenzia statale tedesca per l’ambiente (UBA), consultati da DW, facendo riferimento all’intero ciclo di vita di una centrale nucleare, l’energia nucleare produce meno emissioni dei combustibili fossili ma rilascia anidride carbonica 3,5 volte maggiore per chilowattora dei sistemi di pannelli solari fotovoltaici, 13 volte di più dell’energia eolica onshore e 29 volte di più degli impianti idroelettrici.

Per quanto chi è a favore del nucleare evidenzi la sua affidabilità rispetto alle rinnovabili nella transizione energetica per fermare il riscaldamento globale, il contributo dell’energia nucleare alla transizione ecologica è visto in modo troppo ottimistico, conclude il fact-checking di DW. “I tempi di costruzione [delle centrali] sono troppo lunghi e i costi troppo alti per avere un effetto significativo sui cambiamenti climatici. Ci vuole troppo tempo perché l'energia nucleare diventi disponibile”, spiega Ben Wealer dell'Università tecnica di Berlino, tra gli autori di uno studio sull’energia nucleare e il clima presentato alla COP26 dal gruppo Scientists for Future (S4F), il cui lavoro si basa su dati scientificamente provati.

Lo scorso 30 novembre, intervenuta alla cerimonia inaugurale della World Nuclear Exhibition di Parigi, la commissaria UE all’Energia Kadri Simson ha detto che i termini delle valutazioni intorno all'energia nucleare in Europa stanno cambiando: “C’è un crescente senso di realismo sulla necessità di integrare le energie rinnovabili con la produzione di elettricità del carico di base”. Secondo gli scenari prefigurati dalla Commissione Europea, ha aggiunto Simson, il nucleare dovrebbe raggiungere più o meno il 15% del mix energetico UE entro il 2050.

Eurostat ha pubblicato per la prima volta le stime trimestrali delle emissioni di gas serra dell'Unione Europea

Per la prima volta Eurostat ha pubblicato le stime delle emissioni trimestrali di gas serra dell'Unione Europea, ripartite per attività economica. Le stime coprono tutti i trimestri dal 2010 fino al secondo trimestre del 2021. D’ora in avanti questi dati saranno pubblicati regolarmente ogni trimestre e consentiranno di monitorare con maggiore puntualità se l’UE sarà in linea o meno con i suoi obiettivi di emissioni zero nette entro il 2050.

Nel secondo trimestre del 2021, le emissioni di gas serra dell'UE hanno totalizzato 867 milioni di tonnellate di CO2-equivalenti (CO2-eq), il valore più basso per qualsiasi trimestre mai registrato prima della pandemia. Tuttavia, rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso, le emissioni sono cresciute del 18%, in gran parte a causa della riprese delle attività economiche dopo i lockdown del 2020 per frenare i contagi del nuovo coronavirus.

I settori economici che hanno generato più emissioni sono stati la manifattura e le costruzioni (34% del totale), la fornitura di energia elettrica (19%), l’agricoltura (14%), i servizi di trasporto (8%) e diversi dai trasporti (8%). Rispetto al 2020, c’è stato un incremento delle emissioni generate dal riscaldamento (42%) e dai trasporti (25%). Le emissioni per produzione e costruzione sono aumentate del 22%, i servizi di trasporto del 18%, la fornitura di energia elettrica del 17% e i servizi diversi dai trasporti del 13%, mentre sono rimaste pressoché invariate (+0,2%) le emissioni del settore agricolo.

Nonostante gli effetti della ripresa economica tra il secondo trimestre del 2020 e il 2021, la tendenza a lungo termine mostra una riduzione costante delle emissioni di gas serra nell'UE.

La Camera dei Rappresentanti degli USA ha approvato il disegno di legge sul clima e la sicurezza sociale. Ora tocca al Senato

La Camera dei Rappresentanti statunitense ha approvato un disegno di legge che prevede una spesa pari a 2.200 miliardi di dollari per finanziare asili nido universali, sussidi per l’assistenza all’infanzia ben oltre la classe media e per l’iscrizione ai college, sostegni abitativi, assistenza domiciliare per gli anziani, calmieramento del prezzo dei farmaci da prescrizione. Il disegno di legge prevede, inoltre, 555 miliardi di dollari per programmi che potrebbero ridurre significativamente le emissioni di combustibili fossili, spostando infatti l’economia degli Stati Uniti verso le energie rinnovabili e le auto elettriche. Il pacchetto verrebbe in gran parte pagato con aumenti delle tasse sui redditi elevati e sulle società, stimati in circa 1.500 mila miliardi di dollari in 10 anni.

Da solo, il disegno di legge non è sufficiente per mantenere la promessa del presidente Biden di ridurre le emissioni USA della metà rispetto ai livelli del 2005 entro il 2030. Ma, secondo un'analisi di Rhodium Group, un'organizzazione di ricerca indipendente, una volta emanata, la nuova normativa potrebbe prevenire le emissioni di circa un miliardo di tonnellate di anidride carbonica entro la fine di questo decennio. Sarebbe come vietare l’uso delle automobili in tutti gli Stati Uniti per un anno intero.

Il disegno di legge ora dovrà essere votato dal Senato (dove i rapporti di forza tra Democratici e Repubblicani sono praticamente alla pari) e potrebbe essere ampiamente modificato. Il presidente Biden ha esortato il Senato ad approvare il pacchetto in tempi brevi: “Ci mette sulla strada per ricostruire la nostra economia meglio di prima, ricostruendo la spina dorsale dell'America: i lavoratori e la classe media”, ma il percorso del disegno di legge è quanto mai incerto.

Il Brasile ha firmato l’accordo per ridurre la deforestazione entro il 2030 ma l’ultimo anno è stato il peggiore mai registrato per la foresta amazzonica

Durante la Conferenza internazionale sul clima di Glasgow (COP26) di inizio novembre, il Brasile era stato elogiato per essersi unito a oltre 100 paesi e aver firmato l’accordo per ridurre la deforestazione e dare sempre meno spazio a colture intensive e pascoli entro il 2030.

Ma un rapporto del National Institute for Space Research (INPE) del Brasile, pubblicato due settimane fa, pone seri dubbi sulle intenzioni del governo brasiliano che ha promesso di ridurre la deforestazione del 15% entro il prossimo anno. Secondo l’INPE, tra agosto 2020 e luglio 2021 la foresta amazzonica ha perso oltre 13mila chilometri quadrati di copertura arborea.

I dati satellitari hanno indicato che la deforestazione è aumentata di circa il 22% rispetto all'anno precedente, la percentuale peggiore degli ultimi 15 anni. Il Brasile ha fatto registrare inoltre per il quarto anno consecutivo un aumento dei tassi di deforestazione. Da quando Bolsonaro è diventato presidente nel 2019, il paese ha perso un'area forestale più grande del Belgio.

“Non c’è nulla di cui sorprendersi”, ha detto Daniel Azeredo, un procuratore federale specializzato in crimini ambientali. “Il risultato della disgregazione della politica ambientale del Brasile è la deforestazione”. Sin dall’inizio del suo mandato, Bolsonaro ha eliminato i fondi del Ministero dell'Ambiente destinati alle attività di contrasto degli incendi in Amazzonia, ha licenziato 21 dei 27 direttori regionali di IBAMA, l’agenzia incaricata di monitorare e sorvegliare l'Amazzonia per fermare la deforestazione, e ha smantellato il dipartimento che ha coordinato le principali operazioni anti-disboscamento.

Il ministro dell’Ambiente, Joaquim Lete, ha affermato di non essere ancora a conoscenza dei dati del rapporto dell’INPE quando è stato sottoscritto l’accordo contro la deforestazione durante la COP26, ma le sue affermazioni sono state smentite da Acioli de Olive, vicepresidente del gruppo di ricercatori che ha redatto il documento, datato 27 ottobre (e quindi precedente alla Conferenza sul Clima). 

Aggiungendo alle domande sul fatto che il Brasile raggiungerà tali obiettivi, il rapporto è stato datato 27 ottobre, quattro giorni prima dell'inizio del vertice sul clima, noto come COP26, suggerendo che il governo di destra aveva le informazioni in anticipo. Ma in una conferenza stampa giovedì scorso, Joaquim Leite, il ministro dell'ambiente, ha negato di essere a conoscenza dei numeri durante il vertice sul clima, dove ha guidato la delegazione brasiliana.

"Forse è stato per cautela che INPE ha ritardato la pubblicazione di questi dati", ha detto ai giornalisti. "Le informazioni che ho sono che è stato pubblicato oggi e che questo numero è inaccettabile".

Acioli de Olivo, il vicepresidente del sindacato che rappresenta i ricercatori spaziali che lavorano per il governo federale, ha affermato che il suo team ha indagato sui tempi della pubblicazione del rapporto. “Il rapporto era pronto già a metà ottobre ed è stato caricato su una piattaforma governativa accessibile ai funzionari prima dell'inizio della Conferenza sul clima”, ha dichiarato Acioli de Olivo. “Dire che non sapevano nulla del documento è quasi uno scherzo”.

Le proteste di massa contro la crisi idrica in Iran

Migliaia di persone stanno manifestando da settimane a Isfahan, la terza città più grande dell’Iran con circa due milioni di abitanti, per protestare per la crisi idrica in corso. Agricoltori provenienti da diverse aree del paese si sono riuniti per esprimere la loro rabbia per il prosciugamento a causa della siccità del fiume Zayandeh Rood. I media statali hanno parlato di un numero imprecisato di feriti nel corso di scontri tra manifestanti e polizia in tenuta anti-sommossa. Il generale di polizia Hassan Karami ha detto ai giornalisti di aver arrestato 67 persone, ritenute tra le responsabili dei disordini. Le manifestazioni sono iniziate il 9 novembre.

Filmati della Tv di Stato hanno mostrato i manifestanti con striscioni con su scritto: “East Isfahan è diventata un deserto” e “La nostra acqua è tenuta in ostaggio”. Per gli agricoltori, oltre alla siccità, dietro al prosciugamento del fiume ci sarebbe anche una deviazione del corso d’acqua da parte delle autorità nella vicina provincia di Yazd. 

Il portavoce del Dipartimento di Stato degli Stati Uniti, Ned Price, ha scritto su Twitter di essere “profondamente preoccupato per la violenta repressione contro i manifestanti pacifici”. Diversi cittadini hanno segnalato l'interruzione dei servizi Internet nelle aree in cui si stavano svolgendo le proteste, confermata dal watchdog Netblocks.

Il ministro dell'Energia Ali-Akbar Mehrabian si è scusato con gli agricoltori per non essere in grado di fornire acqua per i loro raccolti. Il presidente iraniano Ebrahim Raisi aveva già incontrato i rappresentanti delle province di Isfahan, Yazd e Semnan l'11 novembre promettendo di risolvere la crisi idrica.

L'Iran soffre da anni di periodi di siccità cronica, ma la frequenza è aumentata di recente: nell’ultimo anno i livelli dell'acqua nei laghi e nei bacini idrici del paese si sono dimezzati, e già a luglio, nella provincia sudoccidentale del Khuzestan, sono scoppiate proteste a causa della siccità in cui sono morte nove persone. Secondo l'Organizzazione meteorologica iraniana circa il 97% del paese deve ora affrontare un certo livello di siccità.

I lavoratori migranti che si spostano per ricostruire i centri distrutti dai disastri climatici negli USA

Sarah Stillman, giornalista e direttrice del Global Migration Program alla Columbia University, ha raccolto per il New Yorker la storia di Bellaliz Gonzalez e di chi come lei, da alcuni anni, lavora per aziende che si occupano di ricostruzione dopo disastri naturali, mettendo a rischio la propria vita.

Da quando gli eventi meteorologici intensi, come uragani, incendi, alluvioni, tempeste, si sono intensificati a causa del cambiamento climatico, parecchie società di private equity hanno acquisito aziende che si occupano di ricostruzione d’emergenza in luoghi devastanti dai disastri naturali, assumendo forza lavoro disponibile a lavori rischiosi e a spostarsi all’improvviso. Si tratta in gran parte di immigrati, molti dei quali privi di documenti, che seguono i disastri climatici in tutto il paese come i lavoratori agricoli seguono i raccolti, aiutando le diverse comunità nelle opere di ricostruzione. Bellaliz Gonzalez è una di queste persone: lavoratori molto spesso senza tutele, che rischiano di morire mentre lavorano e che subiscono abusi sul luogo di lavoro.

Richiedente asilo venezuelana di 54 anni, Gonzalez aveva lavorato come ingegnere ambientale e gestito diversi parchi nazionali prima di iniziare a lavorare per una di queste società che si occupano di ricostruzioni di emergenza dopo disastri naturali, la Servpro.

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Le leggi esistenti per proteggere questi lavoratori sono ampiamente sotto applicate, spiega al New Yorker Sergio Chávez, sociologo della Rice University che da nove anni fa ricerca su queste forme di lavoro. “La maggior parte di questi lavoratori non ha accesso all'assicurazione sanitaria o alle ferie retribuite. Quando sono feriti o malati “ricorrono a modi informali per curarsi. Uniscono le loro risorse e danno più soldi possibile al collega infortunato”.

Ma negli ultimi anni il gruppo Resilience Force segue questi lavoratori impegnandosi a garantire la sicurezza e a prevenire gli abusi sul luogo di lavoro.

Immagine in anteprima: Fairphone, CC BY-NC 2.0, via Flickr.com

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