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Amazzonia: le mafie della deforestazione, le colpe dei governi, la tecnologia per salvare la biodiversità

19 Settembre 2019 13 min lettura

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Amazzonia: le mafie della deforestazione, le colpe dei governi, la tecnologia per salvare la biodiversità

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Il clamore suscitato dagli incendi che hanno bruciato quest’estate l’Amazzonia ha portato al centro dell’opinione pubblica internazionale la questione della deforestazione e dei suoi effetti devastanti sul clima, sulla preservazione delle biodiversità e degli ecosistemi ambientali.

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Solo pochi giorni fa, il think tank Climate Focus ha pubblicato un rapporto secondo il quale la deforestazione sta andando avanti a un ritmo tale da impedire al pianeta di prevenire i cambiamenti climatici. 

Nel 2014, durante il vertice delle Nazioni Unite sul clima, era stata lanciata la Dichiarazione di New York sulle foreste (NYDF) che mirava a dimezzare l’aumento della deforestazione entro il 2020 e a fermare il fenomeno entro il 2030. Ma, «da quando è stato redatto il NYDF, la deforestazione non è solo continuata, ma ha addirittura accelerato», ha osservato Charlotte Streck, co-fondatrice e direttrice di Climate Focus.

Secondo il rapporto, tra il 2014 e il 2018 è stata persa ogni anno un'area di alberi quanto il Regno Unito. La perdita di foreste tropicali rappresenta oltre il 90% della deforestazione globale, in particolare nel bacino amazzonico di Bolivia, Brasile, Colombia e Perù.

Il più grande tasso di disboscamento si è registrato nell'Africa occidentale. La percentuale di alberi abbattuti nella Repubblica Democratica del Congo è raddoppiata negli ultimi 5 anni. Nel solo mese di giugno, la foresta amazzonica ha fatto registrare un incremento dell’88% del tasso di deforestazione rispetto allo stesso mese nel 2018.

E per quanto ci sia consapevolezza che le attività di disboscamento sono gestite da reti criminali e che la deforestazione può avere effetti devastanti sul pianeta, governi nazionali e settori privati non fanno nulla per invertire la china, come mostra il caso del Brasile, evidenziato recentemente da un’analisi di Human Rights Watch

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Il settore privato non investe per salvaguardare le foreste nonostante possano esserci benefici economici dal loro mantenimento e molti governi offrono sussidi all’agricoltura incentivando paradossalmente la deforestazione, evidenzia il rapporto di Climate Focus.

Per invertire davvero la rotta, spiegano alcuni economisti e scienziati, non ci sarà bisogno solo di politiche di contrasto di tutte le attività illegali ma di un nuovo modello di sviluppo che ponga al centro un’agricoltura sostenibile e a misura del nostro pianeta.

Human Rights Watch: “La violenza e l'impunità alimentano la deforestazione nell'Amazzonia brasiliana”

Secondo un rapporto di Human Rights Watch pubblicato il 17 settembre la deforestazione nell’Amazzonia brasiliana sarà inestirpabile fino a quando non verranno sradicate le fitte reti criminali che coordinano attività illegali di disboscamento, lavorazione e vendita su larga scala di legname, ben sapendo di poter sfuggire alle maglie della legge e di muoversi in un contesto politico favorevole, soprattutto dopo l’elezione a presidente di Jair Bolsonaro. È come se – scrivevamo in questo articolo sugli incendi in Amazzonia – accaparratori di terre, minatori, taglialegna e agricoltori si siano sentiti incoraggiati dalle parole e dalla propaganda del nuovo presidente del Brasile.

Il rapporto – dal titolo “Le mafie della foresta pluviale. In che modo la violenza e l’impunità alimentano la deforestazione nell’Amazzonia brasiliana” – mette in risalto l’inefficacia delle politiche di contrasto alle attività illegali (che vanno appunto dagli incendi al disboscamento abusivo, dall’estrazione di oro alle pratiche di allevamento e agricoltura elusive delle leggi esistenti) e degli strumenti in mano a istituzioni e forze dell’ordine per poter perseguire queste reti criminali (ndr, i funzionari di controllo ambientale chiamano questi gruppi "ipê mafias", riferendosi all'albero di ipê il cui legno è tra i più preziosi e ricercati dai taglialegna) e proteggere chi si batte per la difesa delle foreste e delle comunità indigene: funzionari pubblici che lavorano per le agenzie ambientali del paese e agenti di polizia che combattono la criminalità ambientale; piccoli agricoltori che osano dire alle autorità i nomi di chi invia motoseghe e camion per il trasporto di legna; indigeni che pattugliano i loro territori a piedi, in barca e in moto, armati di archi, frecce e GPS. 

Negli ultimi 10 anni – scrive HRW che, per la realizzazione dello studio, ha intervistato oltre 60 funzionari federali e statali coinvolti a vario titolo nell’applicazione delle leggi ambientali e 60 membri di comunità indigene e residenti locali – più di 300 persone sono state uccise nelle lotte per difendere e salvare i terreni in Amazzonia dal disboscamento illegale, ma solo in 14 casi si è arrivati a un processo. E in oltre 40 casi di attacchi o minacce, solo in un’occasione si è arrivati alla formulazione di un’accusa a carico dei responsabili di questi reati. Alcune volte, secondo quanto riferito da funzionari e vittime, la polizia degli Stati di Maranhão e Pará ha rifiutato di registrare anche solo le denunce.

Secondo quanto appurato sul campo da HRW, in 6 dei 16 omicidi segnalati dal 2015 nello Stato di Maranhão (che comprende 4 territori indigeni), ad esempio, ci sono stati gravi inadempienze nella gestione dei casi: in almeno 2 occasioni, gli investigatori non hanno visitato la scena del crimine e in 5 non è stata effettuata l’autopsia. Le forze dell’ordine hanno commentato che l’inefficacia delle indagini è dovuta in gran parte al fatto che i crimini tendono a verificarsi in aree remote o luoghi lontani dalla stazione di polizia più vicina. Ma, si legge nel rapporto, ben 4 di questi sei decessi sono avvenuti in centri urbani dove erano presenti stazioni di polizia locale.

Non va meglio per i programmi di protezione degli attivisti. Le oltre 400 persone iscritte in tutto il Brasile dovrebbero ricevere visite personali, ottenere visibilità del proprio lavoro ed essere accompagnati da “strategie istituzionali” che prevengano la loro condizione di vulnerabilità. Invece, i funzionari governativi e i difensori delle foreste intervistati hanno concordato all'unanimità che il programma offre poca protezione significativa e si limita a controlli telefonici occasionali. In altre parole, gli attivisti sono lasciati soli al loro destino.

A tutto questo le scelte politiche della presidenza Bolsonaro che ha ridotto del 23% il budget discrezionale del Ministero dell'Ambiente, eliminando i fondi destinati alle attività di contrasto degli incendi in Amazzonia, ha licenziato 21 dei 27 direttori regionali di IBAMA, l’agenzia incaricata di monitorare e sorvegliare l'Amazzonia per fermare la deforestazione, smantellato il dipartimento che ha coordinato le principali operazioni anti-disboscamento che coinvolge varie agenzie federali e le forze armate.

Durante i primi 8 mesi di mandato, si legge nel rapporto, il numero di multe per infrazioni relative alla deforestazione emessa da IBAMA è diminuito del 38% rispetto allo stesso periodo dello scorso anno, raggiungendo il numero più basso di multe in almeno due decenni. Ad aprile, il governo ha stabilito che tutte le multe ambientali devono essere riviste in un'audizione di "conciliazione" da un panel presieduto da qualcuno che non è affiliato con le agenzie ambientali del paese. E sempre nello stesso periodo è stato emesso un decreto che abolisce le commissioni composte da funzionari e membri di ONG, che svolgevano un ruolo importante nella formulazione e attuazione delle politiche ambientali. Tra questi il comitato direttivo dell’Amazon Fund, un fondo gestito dal Brasile che ha ricevuto 3,4 miliardi di reais (oltre 820 milioni di dollari) in donazioni per preservare la foresta pluviale amazzonica da Norvegia (per il 93%) e Germania. A giugno Bolsonaro ha sciolto il comitato direttivo e la Norvegia ha sospeso i suoi contributi al Fondo.

Il ridimensionamento delle misure ambientali attive e l’indebolimento delle agenzie federali ambientali ha creato delle condizioni favorevoli al proliferare di attività illegali che si sono tradotte in aumento dei tassi di deforestazione rispetto allo scorso anno (+278% finora) e del numero di incendi anche se le dimensioni esatte del fenomeno saranno chiare solo a fine anno.

Per quasi un decennio, preservare la foresta pluviale amazzonica è stata una componente centrale dell'impegno del Brasile per contenere il riscaldamento globale. Grazie a politiche ambientali all’avanguardia tra il 2004 e il 2012 la deforestazione era diminuita del 70%, da quasi 28.000 chilometri quadrati di foreste distrutte all'anno a meno di 4.600 In quegli 8 anni il Brasile aveva creato nuove aree protette, aumentato il monitoraggio sui disboscamenti illegali, sottratto crediti governativi a quei produttori rurali colti nel dare fuoco a terreni situati in aree protette. Ma, ricostruisce il New York Times, dopo la recessione del 2014, quando il paese è diventato maggiormente dipendente dalle materie prime agricole che produce (carne bovina e soia, motori della deforestazione: l'80% della soia prodotta in Brasile è destinata al mangime per gli animali, il resto per combustibile e alimentazione umana), il disboscamento, in gran parte illegale, è tornato a salire. La deforestazione è cresciuta negli ultimi cinque anni sotto i governi guidati da Dilma Rousseff e Michel Temer, raggiungendo i 7.500 chilometri quadrati nel 2018, fino all’ulteriore accelerazione dopo l’elezione di Bolsonaro.

Nonostante il paese sudamericano si sia impegnato a eliminare tutta la deforestazione illegale in Amazzonia entro il 2030, in base all'accordo di Parigi sui cambiamenti climatici del 2015, la parte brasiliana dell'Amazzonia ha perso quasi 3.500 km² di foresta nella prima metà del 2019, secondo l'agenzia governativa che monitora la deforestazione.

Un nuovo modello di sviluppo per fermare gli incendi in Amazzonia

Cosa fare, dunque? Sylvia Coutinho, a capo di UBS group in Brasile, in un intervento sul Financial Times, commenta che per invertire davvero la rotta ci sarà bisogno non solo di una politica di tolleranza zero contro tutte le attività illegali in Amazzonia ma di un nuovo modello di sviluppo di tutta la regione che dovrà essere concordato coinvolgendo tutte le parti interessate.

L’Amazzonia, spiega Coutinho, non è semplicemente un parco naturale, è la patria di oltre 20 milioni di brasiliani, attraversata da alcuni degli Stati più poveri del paese. La foresta è talvolta vista come un ostacolo allo sviluppo, ora c’è bisogno di politiche che ne facciano una leva per far avanzare l'economia del Brasile: non solo ecosistema da salvaguardare ma motore di sviluppo economico.

Il memorandum sulla soia in Amazzonia del 2006

Quello evocato da Coutinho è un passo che va oltre anche le misure pensate finora per contenere la deforestazione, la coltivazione della soia, il ricorso ad agricoltura e allevamento su terreni boschivi, come ad esempio il memorandum sulla soia in Amazzonia (ASM) del 2006.

All’epoca, guidati da Greenpeace, ONG, aziende come McDonalds, Cargill e Bunge (che commerciano soia), agricoltori e governo brasiliano, concordarono una moratoria per bloccare la crescente deforestazione nell’Amazzonia brasiliana dovuta all’espansione della produzione di soia. In base alla moratoria, le aziende non avrebbero acquistato soia da quei produttori che stavano disboscando nuovi terreni per incrementarne la coltivazione. L’accordo è considerato ancora oggi una delle iniziative che coinvolgono pubblico e privato, istituzioni, produttori e ONG, di maggior successo di sempre, tanto è vero che è stato recentemente chiamato in causa come modello per bloccare la deforestazione della savana del Cerrado, il secondo più grande bioma del Brasile.

«La moratoria della soia è stata efficace per l'Amazzonia. Volevamo sapere che impatto avrebbe avuto estendere questo [accordo] al Cerrado, sia perché il Cerrado è un importante centro di biodiversità e importante per la produzione alimentare, sia perché il Cerrado è in pericolo di estinzione», ha commentato Aline Soterroni, una delle autrici della ricerca del National Institute for Space Research (INPE) del Brasile sugli impatti di una eventuale moratoria sulla soia nel Cerrado.

Sottoscrivendo la moratoria, il 90% delle aziende del mercato brasiliano accettarono di non acquistare soia coltivata su terreni deforestati dopo il 2006 (data limite poi spostata al 2008 quando l’ASM è diventata permanente) all'interno del bioma dell'Amazzonia e di inserire in una lista nera gli agricoltori che ricorrevano al lavoro nero.

Tuttavia, per quanto definita da Ethical Consumer “un incredibile successo” e da Cargill “un successo notevole”, la moratoria non si è rivelata uno strumento efficace per bloccare la deforestazione. Almeno stando a quanto rilevato da una ricerca condotta nel 2014 da alcuni studiosi dell’Università di Wisconsin-Madison i cui risultati sono stati poi pubblicati su Science.

La moratoria – si legge nello studio – ha raggiunto i risultati che si prefiggeva di ottenere, e cioè impedire che la foresta amazzonica venisse disboscata per piantare la soia, ma non ha arrestato la deforestazione dell’Amazzonia.

Il paper elenca le tante scappatoie trovate da agricoltori e allevatori per eludere la moratoria. Come, ad esempio, occupare terreni disboscati prima del 2008 e destinati al pascolo per utilizzarli per coltivare soia: gli agricoltori in questo caso tagliano e bruciano altre fette di foresta, cacciano gli indigeni e spostano il bestiame nei nuovi terreni sottratti. Una pratica, questa, già consolidata prima della stesura del Memorandum e di cui anche Greenpeace era a conoscenza e sulla quale la moratoria non è intervenuta, spiega Bernardo Machado Pires, che gestisce le questioni ambientali per l'Associazione brasiliana delle industrie dell'olio vegetale (ABIOVE).

Un altro modo per aggirare la moratoria era quello escogitato dai dipendenti della più grande azienda di confezionamento di carne del Brasile, JBS, che nel 2014 hanno ammesso di trasferire il bestiame allevato su terreni disboscati illegalmente su pascoli legali poco prima della macellazione.

E poi ci sono le vie legali della deforestazione, come la costruzione di infrastrutture di trasporto (si pensi all’autostrada BR-163) su pressione esercitata dai produttori di soia e realizzate per spostare la soia più celermente dall’interno del Brasile verso l’esterno, che stanno perforando il cuore dell’Amazzonia brasiliana, come il bacino di Tapajós, dove sono arrivate nuove strade, ferrovie, un corso d'acqua industriale e oltre 40 grandi dighe.

La tecnologia può salvare l’Amazzonia?

I molteplici modi in cui sono state eluse le prescrizioni della moratoria sulla soia sono l’esempio lampante di come sia necessario quel cambio di prospettiva di cui parla Sylvia Coutinho sul Financial Times per far sì che prassi illegali ritenute addirittura consolidate cedano il passo a nuove leve di sviluppo economico che tengano insieme la redistribuzione della ricchezza in aree così povere come gli Stati dell’Amazzonia e salvaguardia della biodiversità della foresta.

La Coalizione brasiliana per il clima, le foreste e l'agricoltura, che comprende rappresentanti dell'agroindustria, della finanza, della scienza e delle organizzazioni ambientali – spiega ancora Coutinho – ha presentato diverse proposte per un nuovo modello di sviluppo che va dagli alimenti ai prodotti farmaceutici, dai cosmetici ai profumi. Ad esempio, la coltivazione della palma açai si è evoluta ai sistemi agroforestali su larga scala e può generare un reddito netto di 400 dollari l’ettaro all'anno, superando i rendimenti derivanti dal pascolo del bestiame su terreni bonificati, che produce in media 70 dollari per ettaro ogni anno. La Amazon Bank of Codes, invece, punta a utilizzare la tecnologia blockchain per mappare i genomi delle foreste da utilizzare nel settore farmaceutico e in altri settori assicurando così il pagamento delle royalty.

L’obiettivo del gruppo di scienziati della Coalizione è dimostrare che la salvaguardia dei terreni può essere redditizia sia economicamente che ecologicamente: l'Amazzonia è uno dei più grandi depositi al mondo di biodiversità e può essere la base di una bioeconomia miliardaria se sarà consentito agli esperti che se ne occupano di mappare e sfruttare i codici genetici della sua variegata fauna selvatica. Dal sequenziamento genomico alla riforestazione tracciata via satellite, ci sono tanti strumenti che possono essere sfruttati per salvare l'Amazzonia.

«Se potessimo mappare e sequenziare il 100% della vita complessa sul pianeta, sbloccheremo una quantità gigantesca di nuove innovazioni e nuove industrie che non possiamo nemmeno pensare di immaginare», dice al Financial Times Juan Carlos Castilla-Rubio, presidente di “Space Time Ventures”, una società tecnologica, con sede in Brasile, che lavora su biomassa, energia e rischio idrico. 

Il gruppo guidato da Castilla-Rubio usa i big data e satelliti per aiutare gli agricoltori a migliorare la produzione delle loro terre e ridurre la necessità di dover disboscare altri terreni nella foresta pluviale. I satelliti consentono di individuare e classificare particolari tipi di erbe infestanti che possono essere colpite in attacchi precisi da droni autonomi dotati di erbicidi. “Se sai esattamente dove e quali sono le erbacce, puoi usare un trentesimo degli erbicidi di solito utilizzati. Questo significa che inquini solo un trentesimo di quanto fai adesso".

Tecnologie simili vengono ora adattate in tutto il Brasile dagli agricoltori che sono consapevoli sia degli impatti ambientali sia dell'importanza di rendere le aziende agricole più efficienti e resistenti alle condizioni meteorologiche sempre più estreme.

La tecnologia, inoltre, può venire in aiuto per mappare e sequenziare i codici genomici della ricca fauna amazzonica. Sebbene sia considerato l'ecosistema con maggiore biodiversità del pianeta, meno dell'1% del DNA della complessa vita nella giungla è stato completamente sequenziato dagli scienziati. 

«Finora abbiamo sequenziato solo lo 0,28% della vita complessa sul pianeta", spiega ancora Castilla-Rubio. «Ma la conoscenza di quello 0,28% è stata la base per molteplici settori (prodotti farmaceutici, chimici, carburanti) - e ha portato a giro di solidi di almeno 4 miliardi di dollari l’anno».

E poi c’è la strada del rimboschimento di quelle terre disboscate illegalmente, uno dei metodi più efficaci per mitigare i cambiamenti climatici, come sostenuto da un team di scienziati ambientali europei su Science a Luglio.

«Rimboschire una foresta è un molto complicato. È reinserire un sistema vitale, un intero corpo. Devi assicurarti che il cuore, lo stomaco, tutto sia nella giusta posizione. Costruire un corpo artificiale richiede molti studi», spiega Marcello Guimarães, presidente del Mahogany Roraima, una piantagione sostenibile nell'Amazzonia settentrionale. «Ogni albero deve essere piantato in considerazione non solo del sole e dell'ombra, ma anche della presenza degli altri alberi, che possono interferire con la crescita. Allo stesso modo, piantare un singolo tipo di albero aumenta il rischio di malattie, quindi è necessario organizzare un accurato mix di specie. Questo in genere deve essere fatto da esperti arboricoltori, di cui ce ne sono pochi in Amazzonia», aggiunge Guimarães.

Una volta completata la pianificazione, il processo di riforestazione deve essere implementato su larga scala. Secondo i termini dell'accordo di Parigi sul clima, il Brasile si è impegnato a rimboschire 12 milioni di ettari entro il 2030, un risultato assai lontano attualmente.

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L’adozione di nuove tecnologie può essere d’aiuto, commenta ancora Guimarães, perché possono consentire di rendere le piantagioni più redditizie ed ecologicamente sostenibili. 

Luiz Carlos Lima, un pubblico ministero federale a Roraima, uno degli Stati amazzonici interessati dagli incendi, si dice ottimista sul fatto che la situazione in Brasile migliorerà man mano che i cittadini diventeranno più consapevoli degli effetti nefasti della criminalità ambientale e dei rischi dei cambiamenti climatici: «Il Brasile è un adolescente in questo momento. Si sa, gli adolescenti non rispettano la legge. Ma crescendo diventano consapevoli».

Immagine in anteprima via Human Rights Watch

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