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La riforma del catasto porterà a un aumento delle tasse?

12 Marzo 2022 8 min lettura

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La riforma del catasto porterà a un aumento delle tasse?

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In poco meno di una settimana la maggioranza che sostiene il governo guidato da Mario Draghi si è divisa due volte al voto in Commissione Finanze alla Camera, dove è all’esame il disegno di legge delega sulla riforma fiscale.

In entrambe le occasioni, il 3 marzo e l’8 marzo, l’oggetto della divisione è stata la revisione del catasto, e più nello specifico due emendamenti, sostenuti anche da Forza Italia e dalla Lega (che sono al governo), per modificare le proposte dell’esecutivo che chiedono di aggiornare il sistema catastale italiano. Per un solo voto di scarto entrambi gli emendamenti non sono passati.

Da tempo, il centrodestra (Lega, Forza Italia e Fratelli d’Italia) è compatto nell’opporsi alla revisione del catasto contenuta nella legge delega sul fisco, perché sostiene che si tratti di fatto di un tentativo mascherato per aumentare le imposte sulla casa. Il 9 marzo, durante un’interrogazione alla Camera dei deputati, il presidente del Consiglio Mario Draghi ha ribadito che «nessuno pagherà più tasse» per effetto di quanto previsto dalla legge delega.

Il centrosinistra, e in particolare il Partito democratico, ha più volte ribadito la necessità di approvare la riforma, perché sarebbe tra le condizioni per ricevere i soldi del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), finanziato con risorse europee per far fronte alla crisi causata dalla pandemia. Chi ha ragione in questo dibattito, sempre più confuso? Entrambi gli schieramenti, nel portare avanti le loro ragioni, stanno commettendo errori.

Un catasto vecchio e iniquo

Semplificando un po’, il catasto è l’inventario di tutti i beni immobili presenti sul territorio italiano. Come ha sottolineato un recente dossier della Camera, uno dei suoi problemi principali è quello di essere ormai troppo vecchio, fondandosi su una disciplina «sostanzialmente risalente al 1939». La formazione del catasto è in realtà iniziata nel 1886 ed è stata completata nel 1956, quasi settant’anni fa.

Uno dei concetti principali su cui si basa il nostro catasto è quello della “rendita catastale”. Questa parola, dal sapore particolarmente tecnico, fa riferimento al valore reddituale che il sistema catastale attribuisce a un immobile che può generare reddito per fini fiscali. Il valore della rendita si calcola considerando diversi fattori, dalla grandezza dell’immobile alla zona in cui si trova in una città. In parole più semplici, la rendita catastale di un immobile dovrebbe più o meno equivalere al valore di un affitto che un proprietario otterrebbe se decidesse di mettere in affitto, appunto, un proprio immobile.

Uno dei problemi principali del catasto è che, a causa del passare del tempo, le rendite catastali degli immobili italiani sono ormai diventate sballate: il loro valore, insomma, non corrisponde più a quello di un ipotetico affitto che possono generare. Come ha spiegato due anni fa la Commissione parlamentare di vigilanza sull’anagrafe tributaria, in un documento dal titolo: “Per una riforma della fiscalità immobiliare equità, semplificazione e rilancio del settore”, gli estimi catastali – fattori che sono usati per calcolare i valori delle rendite – sono stati rivisti l’ultima volta, a livello generale, nel «periodo 1988-89», ossia più di trent’anni fa.

Un esempio aiuta a capire meglio quello di cui stiamo parlando. In base alle rilevazioni dell’Agenzia delle entrate, nel nostro paese le rendite catastali delle sole abitazioni valgono circa 17 miliardi di euro, che divisi per oltre 36 milioni di abitazioni, generano in media una rendita catastale di circa 500 euro all’anno per abitazione. Un dato evidentemente molto lontano dalla realtà attuale. Secondo un’analisi pubblicata a novembre su lavoce.info, non solo «il valore catastale sottostima quello di mercato nella grande maggioranza dei comuni» italiani, ma ci sono anche due elementi di disuguaglianze. «Le aree maggiormente agevolate dall’attuale disallineamento dei valori sono le zone costiere di Sardegna, Toscana e Liguria, oltre a grandi città come Roma e Milano. Dall’altro lato dello spettro, troviamo invece le aree interne del Sud Italia», si legge nell’analisi. «Dall’attuale sistema catastale sembrano beneficiare quindi i proprietari di immobili in zone turistiche e nei centri produttivi».

Per risolvere questo problema, bisognerebbe cercare di stabilire delle nuove rendite catastali, in linea con i valori di mercato, e introdurre dei meccanismi che le rivedano periodicamente. A grandi linee, questo obiettivo è quello che si è prefissato di fare il governo con il disegno di legge delega, all’articolo 6, facendo inoltre emergere le unità immobiliari urbane non censite dal catasto (che secondo le stime sarebbero oltre 1,2 milioni).

Ricordiamo che con la legge delega l’esecutivo ha chiesto che Camera e Senato definiscano i principi generali entro cui il governo dovrà poi agire non solo per revisionare il catasto, ma anche per modificare imposte come l’Irpef, l’Iva e l’Irap. E proprio il tema delle imposte è quello che agita di più il dibattito politico.

Nella legge delega, all’articolo 6, il governo ha scritto che le nuove informazioni sulle rendite catastali dovranno essere rese disponibili a partire dal 1° gennaio 2026 – dunque tra poco meno di quattro anni – ma «non dovranno essere utilizzate per la «determinazione della base imponibile dei tributi» derivanti dalle risultanze catastali «né per finalità fiscali». Tradotta in parole semplici: l’obiettivo del governo, frutto già di un compromesso tra le forze di maggioranza, è quello di avere nei prossimi anni informazioni aggiornate sugli immobili accatastati, ma di non utilizzarle per alzare le imposte. Su questo punto si concentrano le perplessità e le critiche del centrodestra.

Nuovo catasto, nuove tasse?

Da quasi trent’anni, le imposte sul patrimonio immobiliare sono calcolate a partire dalle già citate rendite catastali. Per esempio, l’Imu sulle abitazioni si calcola su un valore ottenuto moltiplicando la rendita catastale di un immobile, rivalutata del 5%, per 160, una cifra stabilita dal governo tecnico guidato da Mario Monti. 

Come abbiamo visto prima, le rendite catastali non sono più allineate con il reale valore delle case, e di conseguenza sono sballate anche le imposte patrimoniali che i contribuenti pagano sui propri immobili. In che senso? In breve: oggi alcuni contribuenti pagano meno imposte sulla casa di quelle che pagherebbero se il catasto fosse aggiornato, mentre altri ne pagano di più, magari perché vivono in un’abitazione che negli anni ha perso parte del suo valore iniziale. Senza poi dimenticarsi che le rendite catastali servono anche per calcolare il valore di partenza su cui si applicano le imposte sull’eredità o l’acquisto di immobili, o per stimare l’Indicatore della situazione economica equivalente (Isee) delle famiglie.

In linea di principio, l’obiezione del centrodestra, secondo cui una revisione del catasto porterà a un possibile aumento delle imposte, non sembra dunque infondata. Ma come abbiamo visto, il governo ha escluso che le nuove informazioni raccolte con le disposizioni della legge delega possano essere usate a fini fiscali.

In più, è comunque far passare il messaggio che nuove rendite catastali si traducano automaticamente e necessariamente in imposte più alte, addirittura per tutti. Una strada da percorrere, sebbene politicamente non semplice, può essere quella della cosiddetta “parità di gettito”: una volta riviste le rendite catastali, il governo potrebbe rivedere le aliquote con cui sono calcolate le imposte patrimoniali, evitando che le entrate fiscali da queste voci salgano rispetto a quanto già incassa oggi. 

È vero però che se un progetto del genere riuscisse ad andare in porto, la somma delle entrate potrebbe rimanere la stessa, ma non significherebbe che tutti pagherebbero le imposte come le pagano ora. Da un lato, alcuni contribuenti si troverebbero a pagare più imposte, se vivono in un’abitazione con una rendita che sottostima il valore di mercato dell’immobile, mentre altri meno, se la loro rendita è sovrastimata. Di conseguenza, alcuni Comuni potrebbero vedersi ridurre le entrate, e altri aumentarle. In questo caso, una soluzione potrebbe essere quella di adottare delle misure compensative, per livellare eventuali squilibri. 

Che cosa c’entrano il Pnrr e l’Europa

Nel centrosinistra, e in particolare nel Partito democratico, come sottolineato da Pagella Politica, uno degli argomenti più utilizzati per difendere la riforma fiscale, e di conseguenza la revisione del catasto, è sostenere che questi provvedimenti siano una condizione necessaria per accedere ai soldi del Pnrr. In realtà non è così, e lo stesso errore è stato commesso anche da Fratelli d’Italia e dalla sua leader Giorgia Meloni. 

Le riforme principali del Pnrr e necessarie per avere i fondi sono quelle della giustizia e della pubblica amministrazione (le cosiddette “riforme orizzontali”), più un’altra serie di riforme, chiamate “abilitanti” e “settoriali”. La riforma fiscale compare sì nel Pnrr, ma tra le riforme considerate di “accompagnamento”, ossia quelle che seppure «non ricomprese nel perimetro delle azioni previste dal piano» sono comunque «destinate ad accompagnarne l’attuazione, concorrendo a realizzare gli obiettivi di equità sociale e miglioramento della competitività del sistema produttivo». Inoltre nel Pnrr, nella parte dedicata alla riforma fiscale, non si fa mai cenno al catasto, ma per esempio alla revisione dell’Irpef.

È comunque vero che nel 2019 l’Unione Europea ha raccomandato all’Italia di «spostare la pressione fiscale dal lavoro, in particolare riducendo le agevolazioni fiscali e riformando i valori catastali non aggiornati». Secondo l’UE, questi valori, che «costituiscono la base per il calcolo dell’imposta sui beni immobili, sono in gran parte non aggiornati ed è ancora in itinere la riforma tesa ad allinearli ai valori di mercato correnti».

Nell’analisi dell’impatto della regolamentazione contenuta nella legge delega fiscale, realizzata dal Ministero dell’Economia e delle Finanze, si sottolinea che l’aggiornamento del catasto proposto dal governo è «coerente» con le raccomandazioni europee del 2019. Ancora una volta, questo non significa che necessariamente la legge delega farà aumentare le imposte (ricordiamo che l’aggiornamento delle informazioni catastali sarà disponibile a inizio 2026), ma che la revisione del catasto va nella direzione indicata dall’UE. 

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La scelta di poter utilizzare le rendite catastali per fini fiscali è una scelta che toccherà all’esecutivo che sarà in carica quando la revisione sarà portata a termine. Per ora, l’obiettivo dichiarato dell’attuale governo è quello di approvare un’operazione “trasparenza”. «L’introduzione dell’Ici, l’introduzione dell’Imu, l’abolizione dell’Ici, l’introduzione della Tasi, l’abolizione della Tasi, sono state fatte sempre su valori inesistenti, su valori che non hanno senso, su valori di 33 anni fa, come mi avete giustamente puntualizzato un attimo fa», ha dichiarato il presidente del Consiglio Mario Draghi il 9 marzo, rispondendo a un’interrogazione di Fratelli d’Italia. «Allora, questa procedura di applicare un coefficiente fisso su valori che non hanno senso, per produrre numeri che non hanno senso, deve finire. Vogliamo trasparenza». Queste parole sono però state lette dai critici della revisione, tra cui c’è il presidente della Confedilizia Giorgio Spaziani Testa, come un’ammissione implicita di Draghi che il suo obiettivo finale è quello di alzare le imposte.

In ogni caso, il testo della legge delega deve prima ricevere il via libera della Camera, poi del Senato. E successivamente il governo deve predisporre i decreti legislativi per intervenire sulla materia. Insomma la strada è ancora molto lunga, e viste le premesse, rischia di essere accidentata per il prosieguo dell’esecutivo.

 

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