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“Poteva andarmi peggio”, la campagna contro gli stereotipi sulla disabilità si presta a criticità ma per me era proprio quello che ci voleva

17 Novembre 2021 7 min lettura

“Poteva andarmi peggio”, la campagna contro gli stereotipi sulla disabilità si presta a criticità ma per me era proprio quello che ci voleva

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"Poteva andarmi peggio". "Meglio così che...". Chi di noi non l’ha pensato almeno una volta nella vita? Ognuno si è detto che in fondo, pur nella difficoltà, non era andata poi così male. E, che ci crediate o no, se lo dicono anche persone che convivono con una disabilità grave e impattante. Io, ad esempio, lo penso spesso quando vedo la gente sgomitare per fare un selfie con il politico di turno. Penso che scemi, meno male essere me. E mi sento fortunata a essere me. I ragazzi della Parent Project Aps ci hanno messo proprio la faccia per una campagna di sensibilizzazione e raccolta fondi per la ricerca scientifica. Cos’è la Parent Project Aps? Nasce nel 1996 ed è un’associazione di pazienti e genitori con figli affetti da distrofia muscolare di Duchenne e Becker. Lavora per migliorare il trattamento, la qualità della vita e le prospettive a lungo termine di bambini e ragazzi attraverso la ricerca, l’educazione, la formazione e la sensibilizzazione. Gli obiettivi di fondo che hanno fatto crescere l’associazione fino ad oggi sono quelli di affiancare e sostenere le famiglie dei bambini che convivono con queste patologie attraverso una rete di Centri Ascolto, promuovere e finanziare la ricerca scientifica al riguardo e sviluppare un network collaborativo in grado di condividere e diffondere informazioni. Queste particolari malattie incidono fortemente sulla vita dei pazienti e loro famiglie; eppure grazie alla ricerca e al lavoro svolto in questi 25 anni di vita dall'associazione, si è triplicata l'aspettativa di vita e ne ha guadagnato in qualità e solidità.

Lo scorso 10 novembre, la Parent Projects Asp ha promosso sui social (in collaborazione con KIRweb – l’agenzia di Riccardo Pirrone, famosa per le dissacranti campagne pubblicitarie delle onoranze funebri Taffo–  e già virale sui social media) la campagna “Poteva andarmi peggio”. Sei persone tra i 16 e i 35 anni che convivono con la malattia hanno prestato il loro volto sorridente lanciando un unico messaggio: “Poteva andarmi peggio. Potevo nascere omofobo”. Oppure razzista, complottista, negazionista, no-vax, terrapiattista. Come dice il comunicato stampa dell’associazione l’obiettivo è quello di “sdoganare alcuni luoghi comuni e modi di narrare la disabilità”. Credo che sia la prima volta in assoluto che le persone con disabilità prendono la parola da sole ed esprimono il loro pensiero politico. Scrivo questo pensando anche alle campagne delle Famiglie SMA, che oggi hanno come protagoniste Michela Giraud e Anita Pallara (in passato il volto era stato prestato da Checco Zalone e il piccolo Mirko Toller, mancato l’anno scorso) e che sono meravigliose, divertenti, e molto delicate, ma in cui il protagonista è il normodotato che impara dalla persona con disabilità a vedere il mondo con occhi diversi. È una mia analisi personale, ovviamente, e non ha nulla di semanticamente vero. La cito perché è un paragone che è uscito spesso con gli amici con cui ho discusso della campagna Parent Project Aps.

 

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La prima sera che ho visto il post su Facebook ho riso, ma, devo ammetterlo, ho provato anche una sensazione di disagio. E come faccio sempre in queste occasioni, ho spento il cellulare e ho lasciato sedimentare il mio pensiero. Ho pensato al mio retaggio culturale, alla radicalità di certi sentimenti, a quanto crescere in una società che considera la disabilità una bruttura e una disgrazia continui ad avere un grosso impatto su di me. Ho pensato anche io ciò che poi ho letto in varie critiche tipo quella di Sofia Righetti, perché la disabilità dev’essere per forza vista come la cosa peggiore che possa capitare a un uomo o a una donna? Perché un disabile non può essere razzista, omofobo, terrapiattista? Perché paragonare la disabilità a comportamenti umani che causano odio e discriminazione? Il giorno successivo, mentre ero al lavoro – ore in cui non guardo mai i social –, non ho avuto altro in testa, ma mi sono accorta che, passata la reazione di pancia, la mia percezione stava cambiando. Dentro di me ho pensato, pur prestandosi ad alcune criticità, “È una figata pazzesca, questa campagna!” perché permette una lettura a molteplici livelli. E ho pensato, parte da un preconcetto abilista per distruggerlo da sé. Sono gli interessati stessi che prendono in giro quello che è un pensiero radicato, la disabilità è la cosa peggiore che possa succedere. E chi è disabile sa che può permettersi di parlare di se stesso in modo che una persona normodotata non potrebbe fare. Non ho fatto in tempo però a formulare un pensiero articolato perché la seconda sera, aprendo Facebook, ho scoperto che si era già scatenato l’inferno. Sulla pagina della Parent Project asp è piombata una pioggia di insulti. La campagna ha scatenato reazioni violentissime. Il commento che mi ha colpito di più è questo: 

“Parent Project aps io non sono vaccinata, sono sana, sportiva, salutista, sono madre, amica, iperattiva, abile artigiana e persona che si sa divertire con poco. Non credo di peccare di presunzione pensando che ognuno di questi ragazzi preferirebbe essere me".

Mi ha colpito perché io sono una donna con disabilità, vaccinata, non sono madre né salutista, forse non sono nemmeno una buona amica, ma posso dire con assoluta certezza che non sono invidiosa di nessuna donna e non vorrei essere nessun altro fuorché me stessa. C’è questa continua idea che la normalità altrui sia per un disabile la massima aspirazione; eppure, i tempi e la società si sono evoluti e dovrebbe essere chiaro che una persona con disabilità vuole il meglio e può anche non volere altro che se stesso. È ciò che mi ha detto Elena Poletti al telefono, responsabile della comunicazione di Parent Projedct Aps, «l’associazione ha scelto di prendere posizione su tematiche considerate divisive e, attraverso un chiaro e provocatorio paradosso, con molta ironia sono gli stessi pazienti che mostrano un nuovo approccio alla propria disabilità». E all’accusa che la campagna sia stata creata da persone non disabili, mi risponde: «La campagna "Poteva andarmi peggio" è stata discussa e approvata secondo un iter democratico che ha coinvolto in un'ampia consultazione i giovani pazienti – compresi coloro che hanno deciso in prima persona di partecipare come testimonial, in alcuni casi scegliendo direttamente quale tra i claim preferissero –, il consiglio direttivo, composto da genitori, e tutti gli organi rappresentativi dell'associazione».    

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 “Vergogna, sfruttate i disabili”, è sicuramente l’accusa più offensiva. Ed è anche subdola perché una frase così esprime non la rabbia verso un’eventuale strumentalizzazione di persone con distrofia, ma il fatto che queste persone esprimano un pensiero diverso dal proprio. Non è un caso che la maggior parte degli insulti, minacce di denuncia siano arrivate dai "no vax". Ad aver preso la decisione consapevole di apparire in questa campagna, me lo conferma uno dei protagonisti, Luca Buccella, che ho intervistato via messenger su Facebook. Luca ha 30 anni, è laureato in Cinema e arti della visione al DAMS dell'Università Roma Tre. È stato critico cinematografico, oggi è un traduttore. Luca mi racconta che quando aveva 3 anni gli è stata diagnosticata la distrofia muscolare di Duchenne e che nel 1996 suo padre Filippo ha fondato Parent Project. Ha quindi assistito alla crescita dell'associazione in prima persona. Quando gli ho chiesto del progetto, Luca mi ha risposto così «mi è stato proposto di partecipare alla campagna mostrandomi un template delle varie proposte. Ho capito subito che si trattava di una proposta innovativa, diversa da tutte le altre campagne dell'associazione. Pertanto, ho deciso di partecipare perché rispecchiava il modo in cui vorrei si parlasse della disabilità, senza pietismo». Alla mia domanda sulle reazioni, Luca dice, «Già mi aspettavo che ci sarebbero state risposte controverse, ma non credevo che sarebbero arrivati a questo livello. Negli anni, ho preso parte a vari convegni e iniziative sulla disabilità, quindi sono piuttosto abituato a confrontarmi anche con pareri negativi e critiche. Gli unici commenti che mi hanno veramente infastidito erano quelli, numerosissimi, in cui si insinuava che fossimo stati usati per la campagna a nostra insaputa, come se non fossimo capaci di intendere e di volere».

Per quanto riguarda le critiche ricevute dagli attivisti con disabilità, analizza «qui la situazione è più complessa. Alcuni di loro hanno suggerito che scrivere "poteva andarmi peggio" fosse già in partenza un modo di descrivere la disabilità come una condizione di inferiorità. Ed è una cosa che in un certo senso posso anche capire, anche se non la condivido. Credo che accostare quella scritta alle nostre foto, che mostrano ragazzi sorridenti e felici, sia invece un modo per rimarcare che la disabilità fisica è ovviamente un problema, ma di sicuro non la cosa peggiore che possa capitare. Che è molto peggio scegliere di essere intolleranti o di adottare posizioni antiscientifiche». Scegliere. Mi sono fermata a rileggere quest’ultima frase pensando a me stessa e a chi ha scritto che questa campagna paragona la disabilità a comportamenti umani che causano odio e discriminazione. A chi ha insultato e continua insultare i testimonial come “malati mentali”. A chi sputa ogni giorno sulla ricerca scientifica, che per molte persone è la salvezza. A chi parla senza sapere. Mi sono fermata a pensare che chi si indispettisce di fronte alle frasi associate alle immagini è perché probabilmente si sente chiamato in causa. E che si continui a ritenere inaccettabile che una persona con disabilità ti prenda in giro, soprattutto in questo modo, mettendoci la faccia e tutto il proprio corpo. Ho pensato che il lavoro da fare è tanto e la strada ancora lunga; si devono sradicare convinzioni rassicuranti che ci hanno accompagnato per secoli, in cui siamo stati considerati asessuati, apolitici, incapaci di prendere posizioni, persone passive e bisognose. È una visione che ha sempre fatto comodo a entrambe le parti, disabili e non. Dobbiamo rompere dei tabù, decostruire la visione tragica che si ha della disabilità per costruire una società che sia veramente inclusiva, in cui saremo soggetti attivi a tutti i livelli. E quindi scelgo ogni giorno di allargare lo sguardo, per quanto faticoso sia e ringrazio la Parent Project asp che me lo ha permesso nuovamente.

Immagine in anteprima via Parent Project aps

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