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Gli Usa e il potere segreto contro diritti, giornalismo e libertà di informazione

25 Settembre 2021 16 min lettura

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Gli Usa e il potere segreto contro diritti, giornalismo e libertà di informazione

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“Fu l’ultima volta che incontrai Julian Assange da uomo libero”. Ho riletto questa frase del coraggioso, necessario libro di Stefania Maurizi sulla persecuzione scientifica del fondatore di WikiLeaks, dei suoi collaboratori e delle sue fonti (‘Il potere segreto. Perché vogliono distruggere Julian Assange e WikiLeaks’, Chiarelettere), tante, troppe volte. Delle tante, troppe che turbano e indignano profondamente la ragione e la coscienza di chiunque abbia a cuore la democrazia e la libertà di stampa, è quella che più mi ha perseguitato, nei giorni seguenti alla lettura del testo.

Reca infatti quell’ultimo appuntamento in un caffè di Alexanderplatz, a Berlino, tra due individui — due giornalisti, peraltro — nel pieno della loro libertà, data 28 settembre 2010. Undici anni fa. Undici anni in cui il fondatore di WikiLeaks si è visto costretto a subire privazioni delle proprie libertà personali sempre più severe, per accuse sempre più infondate e pericolose. Non solo per se stesso, ma per il giornalismo tutto e per la credibilità di istituzioni — a partire da quelle statunitensi e britanniche — comunemente elevate a modello di democrazia a livello globale.

Sarà la semplicità del gesto negato, incontrarsi in un caffè in un pomeriggio qualunque, in una delle piazze più celebri d’Europa, per discutere di lavoro o quel che si vuole. Sarà la consapevolezza di tutto quello che è venuto dopo. Fatto sta che è quella frase, nella sua immediatezza, a imporre con maggiore impazienza la domanda: perché da oltre un decennio Assange non è più un uomo libero? E perché l’accanimento, nei confronti suoi, dei suoi collaboratori e delle sue fonti — anche solo presunte — di pesi massimi dell’Occidente come Stati Uniti e Gran Bretagna?

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La risposta è complessa e inquietante. Maurizi la ricostruisce nelle 400 e più pagine del volume con la dovizia di dettagli, la passione civile e il sano furore democratico di chi ha lavorato sul materiale portato alla luce dall’organizzazione di Assange per oltre un decennio, spesso potendo recare testimonianza diretta di passaggi cruciali della sua storia.

La giornalista investigativa, prima all’Espresso e Repubblica e ora al Fatto Quotidiano, conduce infatti da anni una (pressoché solitaria) battaglia giornalistica per ottenere trasparenza circa le accuse mosse ad Assange, WikiLeaks e le sue fonti. Ha incontrato muri di gomma a ogni angolo, richieste di accesso agli atti con risposte gravemente mancanti e contraddittorie da autorità che dovrebbero, al contrario, trasparenza e correttezza. Si è vista pedinare a scopo intimidatorio, in più città, nel cuore dell’Europa, e strappare lo zaino con violenza, in pieno giorno. E ha dovuto lavorare in condizioni proibitive, più adatte a un regime non democratico che all’Occidente “libero” — finendo comunque sorvegliata insieme ad Assange durante le sue visite nell’ambasciata dell’Ecuador, in cui il creatore di WikiLeaks aveva trovato rifugio per sfuggire all’estradizione negli Stati Uniti che lui stesso aveva profetizzato — purtroppo correttamente — con un decennio o quasi di anticipo.

È grazie a questa dedizione cocciuta e all’incredibile, meticoloso lavoro di raccolta e analisi di ogni aspetto delle controversie intorno a WikiLeaks e ad Assange che il libro restituisce, finalmente nella sua interezza, l’oscena, grottesca indecenza che la loro persecuzione e incriminazione rappresenta per chiunque abbia a cuore i diritti democratici, a partire dalla libertà di informazione.

Il pugno di ferro nel guanto di velluto: anatomia del “potere segreto”

Pagina dopo pagina, quello che si dipinge sotto agli occhi dei lettori è infatti l’affresco di una vergogna che dovrebbe rimanere sconosciuta agli Stati democratici. Ma che invece, si scopre chiaramente, non solo esiste, ma non è stata nemmeno dipinta di getto. I pennelli — quello delle autorità americane, ma anche del Crown Prosecution Service britannico e delle autorità svedesi che hanno (mal) gestito le controverse accuse di stupro e molestie sessuali mosse ad Assange, un caso risoltosi “senza giustizia per nessuno” — sembrano rispondere a un’urgenza ben precisa, deliberata, per il cui soddisfacimento è lecito violare ogni diritto e (francamente) decenza umana: l’esigenza di proteggere il “potere segreto”.

Soprattutto, forse, di proteggere l’idea stessa che debba necessariamente esistere, un “potere segreto”.

È in questa salda certezza del potere che si è incuneata come una spada WikiLeaks, negli anni. Ed è questo suo averne squarciato il velo per prima a rendere le punizioni esemplari: l’organizzazione di Assange ha dimostrato che si può fare. Che esiste non questo o quel collettivo di individui, ma un metodo per sottoporre a un certo, maggiore, livello di controllo indipendente anche il “potere segreto”.

Maurizi così chiama infatti un potere che opera nell’impunità “tanto nelle dittature quanto nelle democrazie”, e che “usa il segreto di Stato non per proteggere la sicurezza dei cittadini, ma per garantirsi l’impunità, nascondere incompetenza e corruzione”. Un potere dunque che vuole mettersi al riparo dallo scrutinio democratico, dell’opinione pubblica e del giornalismo, e che è disposto a fare qualunque cosa pur di restarvi — anche distruggere scientificamente la vita e la reputazione di chiunque osi puntare un cono di luce nelle sue stanze più buie.

Come il potere di nascondere crimini di guerra, violare lo stato di diritto, torturare, sorvegliare tutto. “Collect it all”, diceva il motto della National Security Agency, rivelato da Edward Snowden. Perché se il potere deve rimanere segreto, coloro sui quali viene esercitato non debbono poterne avere nessuno. Una logica totalizzante, autoritaria, difficile da conciliare con la democrazia o una guerra in suo nome — per il semplice motivo che non ammette eccezioni, domande, dibattito, e punisce chiunque tenti di farsene voce. Come nei regimi, appunto.

Ed è un tema che sfila, sottile e terribile, come una lama per tutto il libro, questo della confusione che il trattamento di Assange, WikiLeaks e delle loro fonti genera tra democrazia e il suo contrario. Maurizi usa un’immagine straordinariamente efficace, per spiegare cosa resti oggi della differenza tra regimi e democrazie, da questo punto di vista. Mentre nei primi il “potere segreto” reagisce con il “pugno di ferro” — la repressione, le sparizioni, gli omicidi mirati— nelle seconde, scrive, “il suo pugno di ferro è nascosto sotto uno spesso guanto di velluto”.

Cosa significhi è presto detto. “Non serve fare bruciature di sigaretta sulle braccia di Julian Assange, quando lo si può portare sull’orlo del suicidio, con dieci anni di detenzione arbitraria senza un’ora d’aria e senza via d’uscita”, scrive Maurizi. “Non serve mandare sicari per fermare le pubblicazioni di una testata, quando basta usare la lawfare (cioè una guerriglia a base di aggressioni e paralisi giudiziarie, ndr) e tenere i suoi giornalisti e le sue fonti in un clima di perenne intimidazione”.

La distruzione di Julian Assange che niente e nessuno ha potuto impedire

È una forma di controllo meno violenta? Bisognerebbe chiederlo ad Assange, che dal 2010 non gode della propria libertà personale, e “rischia una condanna a 175 anni nella stessa prigione di criminali efferati, come El Chapo, per aver pubblicato documenti su crimini di guerra, torture, assassini stragiudiziali con i droni, abusi sui detenuti di Guantànamo. Mentre”, nota Maurizi, “quei criminali di Stato non hanno passato un solo giorno in galera”.

Assange portato oltre il limite delle sue forze fisiche e psichiche, in uno stato di vera e propria “tortura psicologica”.

Assange abusato al punto che la richiesta di estradizione negli Stati Uniti per giudicarlo secondo l’Espionage Act — una legge del 1917 nata per criminalizzare dissidenti politici contrari alla partecipazione americana al primo conflitto mondiale, che non distingue tra spie e whistleblower e non consente difese nel nome del pubblico interesse — è stata finora respinta soltanto perché le sue condizioni mentali erano “tali che sarebbe [stato] oppressivo” concederla, come ha stabilito la giudice Vanessa Baraitser. Due anni di detenzione nella quasi-Guantànamo britannica di Belmarsh — dove per inciso doveva restare 50 settimane, ma è ancora rinchiuso — lo hanno infatti portato a pensare al suicidio “centinaia di volte al giorno”, e al “desiderio costante” di gesti autolesionisti.

Assange, che in sette anni rinchiuso nell’ambasciata dell’Ecuador a Londra ha potuto affacciarsi all’aria aperta dal balcone “sei volte” in tutto, confinato in “venti metri quadri, con un’unica finestra” e con la possibilità di fare esercizio solo con un tapis roulant, senza mai poter godere dell’ora d’aria concessa perfino ai peggiori criminali.

Assange che in tutto questo veniva nell’ambasciata pure spiato da un’azienda spagnola, UC Global, come in un reality show, istante per istante. Maurizi ricostruisce meticolosamente il caso, che la coinvolge direttamente, visto che anche il suo materiale giornalistico è finito fotografato in segreto, i suoi incontri con Assange registrati e filmati, la Sim del suo dumb phone estratta, i codici identificativi IMEI del telefono a loro volta fotografati.

Secondo i testimoni dell’inchiesta in corso in Spagna per far luce sull’accaduto, l’azienda operava sotto richiesta degli “Americans”, si legge. E nessuna delle due parti intendeva lasciare alcunché al caso. Ecco così, dopo l’elezione di Donald Trump, saltare ogni freno inibitorio. Le telecamere cominciano a registrare segretamente l’audio proveniente dalla stanza di Assange; un microfono viene “nascosto nel supporto alla base dell’estintore che si trovava nella sala riunioni”; e “anche nel bagno delle donne erano stati piazzati dei microfoni nascosti”, scrive Maurizi.

Si raggiungono livelli da film di spionaggio di serie z: “L’azienda valutava di piazzare microfoni capaci di captare le conversazioni attraverso i muri”; o ancora: “Erano sempre ‘the Americans’ che avevano chiesto a Morales di piazzare degli adesivi rigidi sulle finestre, perché all’esterno dell’ambasciata avevano dei microfoni laser che, puntati sui vetri, permettevano di ricostruire le conversazioni che avvenivano all’interno dell’edificio attraverso le vibrazioni che le parole producevano in un mezzo elastico come il vetro”.

Il proprietario dell’azienda si sarebbe spinto, secondo i testimoni, fino alla richiesta di prelevare un pannolino del figlio Gabriel durante una visita della compagna di Assange, Stella Moris, “nel tentativo di estrarne il DNA” e stabilire così la paternità del bambino, che la coppia voleva tenere riservata. Gli Stati Uniti sarebbero arrivati al punto di valutare se rapire o avvelenare il fondatore di WikiLeaks.

Di tutto questo atterrisce la sistematicità, la pervicacia. “Dal 2010 in poi Assange ha provato a cercare ogni possibile rifugio”, nota Maurizi, con una lucidità che ferisce. “Si è rinchiuso in un’ambasciata e ha cercato protezione nell’asilo e nella legge internazionale. Ha bussato alle porte del Working Group delle Nazioni Unite. Ha bussato a quelle del relatore speciale ONU contro la tortura. Niente e nessuno ha potuto impedire la distruzione della sua salute fisica e mentale.”

A nulla è servito che il Working Group on Arbitrary Detention dell’ONU abbia stabilito, nel febbraio 2016, che “il fondatore di WikiLeaks era detenuto arbitrariamente da Svezia e Regno Unito”, e che dunque “le due nazioni dovevano lasciarlo libero e accordargli il diritto a essere risarcito”. A nulla che lo Special Rapporteur ONU sulla tortura, Nils Melzer, avesse concluso, in una perizia con uno psichiatra e un professore di medicina legale, che Assange mostrasse “tutti i segni tipici delle vittime della tortura psicologica”, nel carcere di Belmarsh dove attualmente è rinchiuso, e dove Melzer lo trovò “nella sua cella singola di due metri per tre per 2,3 metri di altezza, confinato lì per circa venti ore al giorno”.

A nulla sono serviti gli appelli dei medici, delle organizzazioni per i diritti umani e di quelle per la libertà di stampa e di espressione: Assange “rimaneva a Belmarsh, nonostante per la giustizia inglese fosse tecnicamente innocente e mai nella sua vita avesse commesso un crimine violento. Nonostante una patologia cronica ai polmoni, una grave depressione e disturbi da stress postraumatico”.

Se il giornalista è Assange, il giornalismo è un crimine

E per cosa? Per avere commesso il crimine chiamato “giornalismo”? Se si pensa che nell’ultimo, ed esteso, atto di incriminazione le autorità USA includono perfino “discorsi politici tenuti durante conferenze pubbliche, tra il 2013 e il 2015”, si comprende immediatamente che un fondamentale argine democratico si è rotto.

Le autorità USA giustificano le accuse sostenendo che Assange non è un giornalista, e di conseguenza il giornalismo con la vicenda WikiLeaks non c’entri nulla: quello, dicono, è mero spionaggio, furto di materiale sensibile per arrecare danno agli Stati Uniti. Ma la vulgata delle “mani sporche di sangue”, spesso usata per attaccare le pubblicazioni dell’organizzazione, è rimasta del tutto ipotetica. Lo ha testimoniato il brigadier general Robert Carr, durante il processo Manning, ricorda Maurizi: “Carr testimoniò che, nonostante le indagini della sua task force, non era emerso un solo esempio di persona uccisa a causa di quelle rivelazioni”.

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Quanto all’idea che debba essere un governo a stabilire chi si possa chiamare “giornalista”, e dunque fare giornalismo, e chi no, beh, dovrebbe essere estranea ai contesti democratici. “Non spetta al potere decidere chi è un giornalista e chi no”, scrive Maurizi, e “per ovvie ragioni. Il giornalismo ha come missione quella di fare il cane da guardia del potere. Se è il potere a decidere chi può definirsi legittimamente ‘giornalista’, allora non c’è alcuna speranza di un controllo indipendente”.

Si potrebbe sostenere — e Maurizi lo fa — che la furia di più amministrazioni USA contro Assange e WikiLeaks (Obama e Trump) sia dovuta proprio al suo non rispettare le regole di quel “club” di eletti nei media tradizionali, che tanto si era in passato prodigato per giustificare ogni vezzo dell’intelligence americana (si pensi all’indicibile menzogna — estorta a base di torture — che sta alla base dell’invasione anglo-americana dell’Iraq nel 2003). E che tanto, ricorda il libro, si continua a prodigare per perpetuare ogni sorta di fango contro Assange e WikiLeaks.

Gli esempi sono molteplici, ma è il messaggio di fondo che conta. Alcune grandi testate internazionali hanno ben pensato di beneficiare di WikiLeaks per ottenere scoop planetari, solo per poi ripagare Assange con una moneta amara: l’abbandono totale. Il Guardian ha fatto pure di peggio, insinuando ripetutamente connessioni inesistenti con il Cremlino e dunque, via Russiagate, con la campagna presidenziale di Donald Trump (per esempio, una fantomatica e mai confermata visita di Paul Manafort, capo della campagna di Trump, in ambasciata); distorcendo le parole di Assange; e dipingendolo più in generale — e senza fondamento — come un “utile idiota” di Vladimir Putin nel corso della fase più controversa delle operazioni di WikiLeaks, quella che ha avuto luogo durante la campagna per le elezioni presidenziali USA del 2016.

E l’hanno abbandonato nonostante il valore innegabile delle sue pubblicazioni. Anche limitandosi alla “War on Terror”, si prenda cosa riporta Maurizi nel suo testo: “A oggi gli Afghan War Logs”, gli oltre 91 mila documenti segreti sulla guerra in Afghanistan pubblicati nel luglio 2010, “rimangono l’unica fonte pubblica che permette di ricostruire attacchi, morti, assassini stragiudiziali avvenuti in Afghanistan tra il 2004 e il 2009, considerata la segretezza di queste operazioni militari. Sono anche una delle pochissime fonti che abbiamo a disposizione per cercare di ricostruire il numero di civili uccisi prima del 2007, di cui nessuno pare avere dati affidabili, neppure la missione delle Nazioni Unite in Afghanistan, l’UNAMA, che compila queste statistiche”.

E ancora: è solo grazie agli Iraq War Logs, pubblicati nell'ottobre 2010, che "una rispettata organizzazione di ricercatori, l’Iraq Body Count, ha potuto scoprire 15.000 vittime civili della guerra in Iraq mai emerse prima. Dieci anni dopo la loro pubblicazione, rimangono l’unica fonte per ricostruire queste morti in modo rigoroso”.

O si prendano le schede sui detenuti di Guantànamo. I file rivelano che di 765 detenuti solo 220 fossero categorizzati dai militari USA come pericolosi terroristi; 395 erano considerati “di basso livello”, scrive Maurizi, mentre 150 erano “completamente innocenti”. Il testo si addentra in alcune delle vicende individuali di questi esseri umani per cui la più grande democrazia del mondo aveva deciso di non prevedere il ricorso allo stato di diritto. E fa male. Un uomo, si legge, “era finito nel lager perché il suo nome era simile a quello di un ex comandante talebano”. Un taglialegna perché conosceva un “sentiero segreto tra le montagne a sud di Jalalabad” (sei mesi dopo i suoi stessi carcerieri conclusero che quell’informazione non aveva alcun valore). Un ottantanovenne “malato di cancro alla prostata, demenza senile, grave depressione e osteoartrite” ci era finito rinchiuso per il possesso di un telefono che non sapeva nemmeno usare.

Oggi restano 39 detenuti, al costo di oltre 13 milioni di dollari l’anno ciascuno, si legge nel testo. Cinque sono stati rinviati a giudizio e in attesa di processo dal 2008. È un crimine rivelare queste violazioni dei più elementari diritti dell’individuo, in democrazia? No, è giornalismo. Eppure è per queste rivelazioni — non per il “Russiagate” — che Assange rischia 175 anni di carcere, e ha perso un decennio della sua vita, oltre alla salute fisica e mentale.

Per questo che Chelsea Manning, fonte di quel materiale, era stata trattata nel modo che non posso che riportare verbatim dalle pagine di Maurizi, senza giudizio:

“Dopo il suo arresto, nel 2010, la fonte di WikiLeaks era stata imprigionata prima in Kuwait e poi nella base dei marine di Quantico in Virginia, dove veniva trattata in modo molto duro. Tenuta in isolamento ventitré ore al giorno, denudata, sottoposta alla privazione del sonno perché costretta a rispondere ai continui appelli delle guardie anche di notte, privata della possibilità di fare esercizio fisico, anche all’interno della sua cella, e degli occhiali da lettura, in modo che non potesse nemmeno leggere. Perfino l’allora portavoce del Dipartimento di Stato, Philip J. Crowley, aveva definito quelle condizioni di detenzione ‘controproducenti e stupide’, un commento che aveva portato alle sue dimissioni”.

In seguito Manning finirà in carcere nuovamente, nonostante i ripetuti tentativi di suicidio, per avere opposto la sua civile disobbedienza alla richiesta di testimoniare nel Grand Jury segreto contro Assange che gli Stati Uniti avevano portato avanti di nascosto per anni, e che solo nel 2019 era venuto a galla, per errore.

C’erano insomma voluti nove anni, ma sì, anche quella paura di Assange si era rivelata corretta, nonostante fosse divenuta fonte di ulteriori attacchi e sberleffi: gli Stati Uniti erano davvero disposti a usare l’Espionage Act per incriminare un giornalista per la sua attività giornalistica — usare chat cifrate, proteggere le proprie fonti e documenti, sollecitare l’invio di materiale di rilievo giornalistico e di pubblico interesse. E lo avevano fatto, dopo anni di indifferenza generalizzata nei media e nella politica.

In pericolo non è solo Assange, ma chiunque si opponga

Gli attacchi, tuttavia, non si sono limitati ad Assange e Manning. Si pensi alla caccia a Edward Snowden, per cui è stato fatto atterrare un aereo presidenziale — quello del presidente boliviano Evo Morales — nel cuore dell’Europa, per il solo sospetto che la fonte del “Datagate” fosse a bordo.

Si pensi al fatto che, come scrive Maurizi, “molti dei talenti intorno a Julian Assange e WikiLeaks, negli anni, erano stati fermati negli aeroporti americani, interrogati e intimiditi”. Si pensi al fatto che la giornalista Sarah Harrison, che ha fornito assistenza a Snowden nelle ore più difficili, potrebbe essere a sua volta incriminata per averlo fatto — a prescindere dal contenuto delle rivelazioni portate alla luce, che erano talmente “criminali” da essere in alcuni casi recepite dallo stesso legislatore USA per porre fine agli abusi che descrivevano (per es., il programma di sorveglianza massiva dei metadati dei cittadini USA, riformato dopo le rivelazioni di Snowden).

O ancora, si prendano le “attenzioni” subite da tre giornalisti di WikiLeaks — il portavoce Kristinn Hrafnsson, Joseph Farrel e la stessa Harrison — da parte delle autorità USA, che già nel 2012 avevano chiesto a Google di consegnare loro “tutti gli indirizzi di posta elettronica, le date degli scambi email, il testo dei messaggi, eventuali pagamenti per i servizi Google con relativi numeri di carte di credito e conti correnti bancari, i contenuti di ogni singola bozza di messaggio, le email cancellate, tutti i metadati e le liste dei contatti, eventuali foto e file”.

Insomma, appare evidente che quella di distruggere e delegittimare WikiLeaks, le sue fonti e i suoi collaboratori — oltre naturalmente al suo volto più riconoscibile, il fondatore — non sia un insieme di atti scoordinati, quanto piuttosto il dispiegarsi di una strategia ben precisa. Due documenti, del resto, la mettono anche nero su bianco, scrive Maurizi.

Il primo è un’analisi dell’Army Counterintelligence Center (ACIC) dell’amministrazione Bush che WikiLeaks ha pubblicato nel 2010. Risalente al marzo 2008, cioè poco più di un anno dopo la fondazione dell’organizzazione, il documento faceva intuire che il governo americano si era accorto eccome di Assange e dei suoi, fin da subito — e che fin da subito li considerava “una potenziale minaccia per l’esercito degli Stati Uniti”, perché avrebbe potuto indurre in tentazione qualche funzionario del governo, portandolo a rivelare cose che non andavano rivelate, non in pubblico.

Rappresentando una minaccia per quel fondamentale braccio del “potere segreto”, WikiLeaks andava distrutta. Ma come? “Smascherando l’identità di chi fornisce documenti, denunciandoli, licenziandoli dal posto di lavoro, incriminandoli, possiamo danneggiare o distruggere quel centro di gravità”, riportava il documento, nel 2008. Il trattamento subito da Manning avrebbe presto provato che non erano solo parole.

Ma ce n’è poi un secondo, due anni più tardi. È un vero e proprio piano, questa volta, per sventare “The WikiLeaks Threat”, la minaccia WikiLeaks. Apparentemente scritto da tre aziende USA, e cioè Berico Technologies, Palantir, e HBGary Federal, e sottratto da Anonymous a quest’ultima, il piano prevedeva una serie di interventi, tra cui “alimentare scontri e divisioni”, “inviare documenti non autentici e poi denunciare il falso”, “pressioni continue” e “una campagna mediatica per far passare l’idea che le attività di WikiLeaks sono irresponsabili e radicali”.

Che il piano ci fosse o meno, è esattamente quanto avvenuto.

Anche io voglio una società in cui il “potere segreto” risponda alla legge e ai cittadini

Ci sarebbe molto altro da aggiungere, svariati altri dettagli che renderebbero ancora più convincente l’argomento di fondo del testo di Maurizi. Ma il concetto è chiaro, e se dovessi riassumerlo in una frase è che chi tocca il “potere segreto” deve pagare. E pagare caro, tanto quanto lo decide quel potere offeso, senza vincoli di legge o scrupoli morali.

Il corollario, però, non è la rassegnazione, ma il coraggio e la fatica della denuncia rigorosa, sistematica, al servizio del cittadino e del lettore. È un’idea diversa e migliore di democrazia a infondere forza e giustizia a questo progetto, rispetto a quella di chi si accontenta che resti una parola vuota, da violare — in segreto — a piacimento pur di mantenere i propri privilegi o fare i propri interessi a discapito di quelli di tutti gli altri. Maurizi la descrive con dignità e speranza, come la mia parafrasi non potrebbe:

“Voglio vivere in una società in cui è possibile rivelare crimini di guerra e torture, senza finire in prigione e arrivare tre volte sull’orlo del suicidio, come è successo a Chelsea Manning. Senza scappare in Russia, come è stato costretto a fare Edward Snowden. Senza perdere la libertà per oltre dieci anni e rischiare il suicidio, come accaduto a Julian Assange. Voglio vivere in una società in cui il potere segreto risponde alla legge e all’opinione pubblica delle sue atrocità. Dove ad andare in galera sono i criminali di guerra, non chi ha la coscienza e il coraggio di denunciarli e i giornalisti che ne rivelano la criminalità. Oggi una società così autenticamente democratica non esiste. E nessuno la creerà per noi. Sta a noi combattere per arrivarci. Per quelli che c’erano, per quelli che non c’erano e anche per quelli che erano contro”.

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Un auspicio solo aggiungo: che almeno in democrazia mai più si possa dire di un giornalista, per l’esercizio della sua professione, “l’ultima volta che lo vidi da uomo libero”.

Immagine in anteprima via gnuckx, Flickr

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