Global Sumud Flotilla: abbiamo bisogno di una resistenza civile internazionale
11 min letturaLa spedizione della Global Sumud Flotilla rappresenta un’azione di resistenza civile internazionale. Lo è nello sforzo organizzativo che coinvolge imbarcazioni da oltre 40 paesi e nella mobilitazione che coinvolge migliaia di persone, oltre alle circa 500 a bordo. Basta vedere le immagini della fiaccolata di Genova, per capire che soffermarsi su questa o quella celebrità è una scorciatoia interpretativa. La spedizione ha coinvolto molti di quei paesi i cui governanti rischiano di essere imputabili per complicità in crimini di guerra o genocidio, lanciando prima di tutto un segnale verso il loro tentativo di eludere il diritto internazionale.
Ma ci sono anche complicità più nascoste, frutto dell’inazione. La scrittrice irlandese Naoise Dolan ha per esempio denunciato l’ipocrisia del suo paese, che a parole condanna Israele, ma di fatto ne agevola i crimini, ad esempio con la mancata approvazione di una legge del 2018 che avrebbe dovuto vietare l’importazione di beni dagli insediamenti israeliani illegali, è “ormai al suo settimo anno di limbo legislativo, con infinite esitazioni sull'opportunità di includere anche i servizi”.
Il governo israeliano, per bocca del ministro della Sicurezza Nazionale Itamar Ben-Gvir, ha promesso che i membri dell’equipaggio saranno trattati come terroristi. Ma la premessa dell’azione è che la fame come strumento di guerra è un crimine contro l’umanità. Si è arrivati al punto in cui anche giornalisti e operatori internazionali presenti nella Striscia faticano a nutrirsi, mentre oltre 100 organizzazioni umanitarie hanno lanciato ad agosto l’ennesimo appello inascoltato. Sempre ad agosto è stato confermato lo stadio di carestia nel Governatorato di Gaza, il più grave secondo la Integrated Food Security Phase Classification.
Israele ha modi concreti per dimostrare che sta rispettando il diritto internazionale e le disposizioni della Corte di Giustizia Internazionale: lasciar entrare i giornalisti e osservatori terzi, smettere di ostacolare l’arrivo di aiuti umanitari. Far girare screenshot per giustificare l’uccisione di giornalisti palestinesi non rientra invece tra questi.
La spedizione può riuscire o fallire. Gli attivisti potrebbero essere respinti, come nei due precedenti tentativi, oppure l’ala più fascista del governo di Netanyahu potrebbe davvero prendere il sopravvento. Ma la storia è una bilancia, e azioni del genere hanno il merito di mostrare che si può scegliere su quale piatto riporre la propria moneta. Chi partecipa si prende un rischio, ed è molto comodo trincerarsi dietro l’idea che sia un’iniziativa “inutile”, o una “passerella”. Nella filosofia nonviolenta i mezzi impiegati sono fini: l’efficacia di un’azione non sta nel successo, ma nell’esempio. Nel testimone che può essere raccolto da chi, armato di buona volontà e capacità organizzativa, potrà essere ispirato a gesti più efficaci.
Certo non mancano le contraddizioni, le opacità e gli impresentabili, non manca chi cerca di cavalcare gli eventi per facile consenso o posizionamento. Non manca la consapevolezza che tra molti partecipanti vi sia chi pratica una solidarietà selettiva: ci sono popoli cui è concesso lo statuto di oppresso non in virtù delle atrocità che subisce, ma perché la sua oppressione è arruolabile ideologicamente contro dei nemici che pre-esistevano. Gli altri possono essere ignorati, o persino ingiuriati. Chissà perché Alessandro Orsini non ha mai pensato di andare in televisione a dire “Netanyahu ha sventrato Gaza”, o “guardi che si vive bene anche nei territori occupati”.
Ci siamo appassionati per le parole del portavoce dei portuali di Genova, mentre annunciava un possibile sciopero internazionale: “Se noi, per solo 20 minuti, perdiamo il contatto con le nostre barche e con i nostri compagni, noi blocchiamo tutta l’Europa”. Ma parliamo dello stesso sindacato che, all’indomani dell’invasione criminale della Russia in Ucraina, invitava a scendere in piazza “contro la guerra, per l’uscita dalla NATO e dall’Unione Europea”, dopo aver affermato:
L’Unione Sindacale di Base ha sostenuto sin dall’inizio le Repubbliche Popolari del Donbass, autoproclamatesi indipendenti a seguito di un referendum popolare e dopo il golpe occidentale del 2014 che defenestrò con la violenza l’allora Presidente Yanukovich.
Per chi pensa sia plausibile buttarla sulle questioni di classe, mentre si nega il diritto a difendersi, forse è il caso di guardare ai sindacati di altri paesi, che non hanno certo mancato di mandare solidarietà alla popolazione oppressa, o di effettuare boicottaggi contro l’invasore. O alla sinistra ucraina di Sotsialnyi Rukh, che ha espresso la sua solidarietà alla Flotilla e al popolo palestinese.
Ci sono perciò molti modi di intendere la solidarietà di classe: non si è obbligati dal proprio lavoro, dalla propria classe sociale, o dalla propria militanza a credere alle bugie del Cremlino sul Donbas; lo si fa per adesione ideologica. Già in passato abbiamo provveduto su Valigia Blu a ristabilire la verità dei fatti storici documentati sul Donbas, consapevoli di quanto questi sforzi siano asimmetrici, nel panorama politico attuale. Mentre sul livello di democraticità, parliamo di un popolo che durante una guerra strutturalmente condotta contro obiettivi civili ha trovato la dignità e il coraggio di manifestare contro il proprio governo. Ci vuole perciò una bella dose di arroganza per pensare di poter dare lezioni di democrazia a gente da cui dovremmo prendere esempio.
Proprio nei giorni in cui la Global Sumud Flotilla partiva alla volta di Gaza, su Freedom l’anarchica bielorussa Nikita Ivansky pubblicava un articolo sull’“antimilitarismo degli idioti”. Titolo che riprende quello di Leila Al-Shami, militante siriana che nel 2018 criticava “l’antimperialismo degli idioti” fatto sulla pelle del suo paese. Ivansky (e non è la prima anarchica Bielorussa a farlo), denuncia come parte della sinistra in Occidente caschi in una facile narrazione a uso e consumo di una lotta di classe più dichiarata che praticata, anche a costo di silenziare le voci di chi subisce l’oppressione.
I dibattiti sull'antimilitarismo continuano a scuotere il movimento anarchico nella parte occidentale del mondo. Spesso in questi dibattiti possiamo vedere alcune organizzazioni ucraine o russe mostrare sostegno alla posizione “no alla guerra, sì alla guerra di classe”. A tre anni e mezzo dall'invasione su larga scala dell'Ucraina, il movimento anarchico è estremamente diviso. Le precedenti strategie di “ascoltare le voci locali” hanno per lo più fallito con chi dall'inizio non è mai stato interessato ad ascoltare.
Sempre nei giorni scorsi, Siyâvash Shahabi, giornalista iraniano rifugiato in Grecia, in un post su Facebook ha denunciato le campagne di delegittimazione che sta subendo da una parte della sinistra greca, “per il solo fatto di oppormi alla Repubblica islamica e all’Islamismo organizzato di gruppi come Hezbollah e Hamas”. Questo capita quando il diritto internazionale è usato come pretesto da una parte, mentre dall’altra lo si considera una sovrastruttura al servizio dello status quo, intanto che attori specifici ne approfittano per distruggere quelle architravi che lo tengono in piedi.
Muovo queste critiche proprio perché la necessità di creare un fronte dal basso internazionale, che sappia farsi resistenza civile, richiede di capire la posta in palio, la bandiera sotto cui unirsi e gli avversari da combattere. Cosa che non può accadere in un mondo convinto che “decolonizzare” consista nell’abbattere un Israele mostrificato come origine di ogni male, ignorando il colonialismo di paesi come Cina e Russia (con tanto di “pacchetto sopravvivenza” per regimi), e senza spiegare quale sorte debba toccare a circa 7 milioni di ebrei israeliani (li si “de-sionizza?” li si sottopone a una pulizia etnica mascherata da liberazione del popolo palestinese oppresso?). O che esista un solo “impero”, o che “capitalismo” e “Occidente” siano sinonimi esclusivi. O che è disposto a scendere a patti con gli autoritarismi, purché abbiano una bandiera con un po’ di rosso sullo sfondo.
Risparmiamoci gli alibi del “non sono antisemita, sono antisionista”: quante volte avete visto esposto cartelli con “i russi pro-Putin non possono entrare”? Quanti con scritto “I cinesi a favore del genocidio degli uiguri non possono entrare?”. Quante volte avete sentito parlare di “entità putiniana” per il regime russo? Quante proteste per documentari di propaganda sostenuti dal Cremlino? Come mai non esiste pericolo di “escalation atomica” a Gaza? Perché gente come Alessandro Di Battista non ha l’impulso a chiamare “Bestie di Satana” gli Emirati Arabi che finanziano massacri in Sudan, e che in pratica hanno evitato l’accusa di genocidio per un problema di giurisdizione?
Viviamo in un’epoca segnata dal ritorno di logiche e strutture di potere fasciste, dalla repressione violenta dei diritti civili, dal controllo dei corpi, fino alla criminalizzazione della solidarietà. Nel 2024, almeno 142 persone nell’Unione Europea hanno subito procedimenti penali o amministrativi per azioni di solidarietà verso migranti. Dalla repressione delle proteste degli ecoattivisti fino alle proteste pro-Palestina, dal 2023 abbiamo assistito a una progressiva limitazione del diritto di protesta e di espressione. Eppure lo scudo della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo ha reso possibile allo stesso tempo difendere questi principi. Perso quello scudo, non a caso sotto attacco proprio a partire dalle politiche migratorie, cosa ci difenderà? Un video di Giuseppe Conte da Bruxelles?
A Gaza come in altre parti del mondo, la vita di intere popolazioni è ridotta a pedina geopolitica. I discorsi d’odio e le politiche securitarie avanzano sotto nuove forme, ma con la stessa radice: la volontà di disumanizzare. Think thank come l’Heritage Foundation stanno facendo diluviare soldi in Europa per attaccare i diritti LGBTQIA+, od organizzano incontri in Polonia e Ungheria su come smantellare il diritto dell’Unione Europea. Una palingenesi motivata dal bisogno di distruggere invece che dalla solidarietà non farà sorgere il sol dell’avvenire. Ecco perché in paesi come Georgia e Serbia ci si mobilita per un’Europa più libera e più democratica: un fronte di resistenza civile internazionale dovrebbe abbracciare anche queste lotte, stringere alleanze e prendere esempio.
Eppure, fateci caso, da quando Donald Trump ha vinto le elezioni, parte della sinistra antimperialista o cosiddetta “pacifista” ha iniziato a bersagliare l’Unione Europea e Ursula von der Leyen, o ad attaccare attiviste come Carola Rackete perché favorevoli ad armare l’Ucraina. Minacce verso Canada e Groenlandia, con tanto di probabili tentativi di destabilizzare quest’ultimo paese attraverso agenti infiltrati? Riduzione a carta straccia dell’autorità della Corte Penale Internazionale con il meeting in Alaska tra Trump e Putin? Alleanza integrata tra Big Tech e Pentagono? Queste sirene d’allarme suonano a vuoto.
Questo accade quando invece di organizzarsi in comunità di pratiche, invece di lavorare sulle leve politiche per promuovere cambiamenti, muovendosi secondo un principio di “agency” (ossia di capacità di azione effettiva, che implica alleanze su obiettivi e compromessi), si abdica a un nuovo paradigma. Un paradigma dove, come evidenziava Francesca Melandri, l’empatia è sostituita dall’identità, e quindi in una stessa coscienza può coesistere la condanna per Gaza e la giustificazione per Mariupol distrutta; oppure troviamo l’appoggio incondizionato all’Ucraina, e nessuna solidarietà o empatia per i palestinesi massacrati. Ma, aggiungo, in questo nuovo paradigma la giustizia è stata sostituita dalla volontà di punire (no, non la cancel culture), il senso di comunità dall’individuazione di nemici esterni, la fiducia dalla fede e le idee da feticci. Quegli aspetti della vita politica che richiedono razionalità, dialettica e riconoscimento dell’altro sono abbandonati; le contraddizioni che la logica e l’esperienza del mondo dovrebbero separare sono tenute in piedi da miti e simboli.
Questo paradigma, di cui si nutrono i nuovi fascismi e i loro leader, ha certo le sue ragioni materiali. Ma è stato accelerato da diversi terremoti cognitivi cui siamo stati sottoposti negli ultimi anni, a partire dalla pandemia, e che hanno creato riallineamenti politici e nuovi orizzonti valoriali, squassando le illusioni di controllo e centralità. È stato durante la pandemia, del resto, che abbiamo iniziato ad appropriarci simbolicamente dell’Olocausto, con i no-vax che si vestivano come prigionieri dei lager, esibivano la stella gialla imposta dai nazisti, o invocavano una “Norimberga”. In un mondo dove l’iperconnessione si faceva particella microscopica capace di uccidere, e dove la nostra vita poteva essere determinata a monte da un virus in Cina, nuovi traumi collettivi hanno cannibalizzato simbolicamente quelli passati.
Questa appropriazione non è venuta da “anafalbeti funzionali”, secondo un termine molto in voga e che sa di classismo borghese. No: questa appropriazione è stata alimentata da scrittori, giornalisti, filosofi, intellettuali, e cavalcata da politici che ora sono al governo in diversi paesi. Ora siamo nella fase in cui ai sopravvissuti dell’Olocausto è negato il valore della testimonianza, per il semplice fatto di non essere d’accordo con le loro opinioni, rimuovendo prima di tutto la dimensione del trauma collettivo. Dove per accusare Israele si intitolano i libri “J’accuse”, compiendo una inversione storica e simbolica rispetto alle parole con cui Emile Zolà denunciava l’antisemitismo nel caso Dreyfus.
Non sono d’accordo con la definzione che Liliana Segre dava di genocidio nel novembre 2024, ma sono convinto che abbia pienamente ragione quando parlava di
libidine con cui troppi sembrano cogliere un’opportunità per sbattere in faccia agli ebrei l’accusa di fare ad altri quello che è stato fatto a loro. Un complesso di colpa collettivo prodotto dalla storia si scioglie in un rabbioso sfregio liberatorio verso lo Stato ebraico di Israele, non solo equiparandolo ai nazisti ma rinfocolando tutti i più vieti stereotipi sugli ebrei vendicativi, suprematisti, assetati del sangue dei bambini non ebrei.
Se così non fosse, non sentiremmo il bisogno di recensire le manifestazioni della società civile israeliana, salvo prendere quello che ci serve per reiterare un clima da punizione collettiva. Cercheremmo lì quelle leve per far cadere Netanyahu, prima che il bisogno di alimentare una guerra per motivi di sopravvivenza politica porti il suo governo a far precipitare definitivamente Israele nell’abisso autoritario.
Oggi la parola “resistenza” non appartiene più solo alla memoria del Novecento, o alle celebrazioni annuali. È un orizzonte necessario, un compito quotidiano che non può limitarsi a decidere per chi votare. E la resistenza o è internazionale e solidale, oppure non è. Il rischio, altrimenti è di creare a sinistra un fronte in cerca di un nuovo tiranno che sappia alimentarne gli entusiasmi mentre nasconde i cadaveri. Magari un fronte che neanche troppo velatamente, condivide con i nuovi fascismi il desiderio di distruggere lo Stato borghese, la pallida incarnazione di democrazia che rappresenta. O, e non so davvero quale sorte sia peggiore, il rischio è di condannarsi all’isolamento da Cassandre impotenti, che non hanno nemmeno un pubblico da avvertire, ma solo uno schermo da guardare, mentre l’orrore si compie in un’infinita diretta.
(Immagine anteprima via Heute)







