Migranti, l’attacco dell’Italia e altri 8 governi europei alla Corte europea dei diritti umani
8 min letturaCon una lettera del 22 maggio 2025, pubblicata anche sul sito del governo italiano, i capi di Stato e di governo di nove Stati europei hanno chiesto alla Corte europea dei diritti umani (l’organo che ha sede a Strasburgo ed è deputato al controllo del rispetto degli obblighi internazionali assunti dagli Stati europei a tutela dei diritti umani), di rivedere il proprio approccio, considerato eccessivamente garantista, alla protezione dei diritti dei migranti irregolari e di quelli che hanno commesso reati. La lettera dichiara specificamente di voler avviare un “confronto aperto” sostenendo che la Corte si sia spinta “troppo oltre” nell’interpretare la Convenzione europea, limitando la capacità dei governi di adottare le decisioni politiche necessarie alla salvaguardia della democrazia e delle società nazionali.
La lettera è stata promossa e resa pubblica al termine di un incontro bilaterale tra la presidente del Consiglio del governo italiano, Giorgia Meloni, e la prima ministra del governo danese, Mette Frederiksen, ma ha raccolto anche l’adesione di Stati appartenenti a tradizioni politiche diverse, tra cui anche i governi di Austria (Stocker), Belgio (De Wever), Repubblica Ceca (Fiala), Estonia (Michal), Lettonia (Siliņa), Lituania (Nausėda) e Polonia (Tusk).
Nello specifico, gli Stati hanno rivendicato una maggiore discrezionalità nelle scelte politiche in materia di migrazione, anche a costo di ridurre il livello di tutela dei diritti dei migranti. Secondo i firmatari, occorrerebbe:
- La possibilità di esercitare una maggiore discrezionalità nel determinare le modalità e le condizioni di espulsione dei cittadini stranieri condannati per reati;
- La necessità di poter controllare e monitorare in modo capillare i cittadini stranieri che, pur avendo precedenti penali, non possono essere allontanati dal territorio;
- La facoltà di contrastare l’utilizzo strumentale dei flussi migratori alle frontiere, laddove questi vengano impiegati da altri Stati come strumenti di pressione politica.
Sono tutte ipotesi in cui può entrare in gioco quel nucleo imprescindibile di garanzie fondamentali di cui godono tutte le persone, ivi inclusi migranti regolari o irregolari, sottoposte alla giurisdizione degli Stati membri della CEDU (art. 1), tra cui il divieto di essere sottoposti a trattamenti inumani o degradanti in caso di rimpatrio (principio di non-refoulement) e le garanzie processuali riconducibili al diritto a un equo processo.
Al di là delle innegabili questioni legate alla necessità di garantire un adeguato bilanciamento tra i diritti della persona e le esigenze collettive connesse alla gestione del fenomeno migratorio, si tratta di una iniziativa pericolosa per l'assetto istituzionale della tutela dei diritti umani in Europa, tanto per la retorica impiegata quanto per le modalità, del tutto nuove e irrituali, con cui l’iniziativa è stata portata avanti.
Quanto alla retorica impiegata, la lettera si fonda sulla discutibile idea secondo cui i diritti umani sarebbero stati concepiti nel contesto del secondo dopoguerra (la CEDU compie quest’anno 75 anni) e, per questo, non sarebbero adeguati a rispondere alle sfide attuali poste dall’aumento dei flussi migratori legati alla globalizzazione:
“Il mondo è cambiato radicalmente rispetto all’epoca dei grandi conflitti in cui molte delle nostre idee sono state concepite. Le idee in sé restano universali e immutabili. Tuttavia, oggi viviamo in un mondo globalizzato, in cui le persone migrano oltre i confini con una frequenza e una mobilità del tutto diverse”.
Tale posizione ignora tuttavia un principio consolidato nella giurisprudenza della Corte europea, riconosciuto fin dal 1978, secondo cui la CEDU costituisce uno “strumento vivente” capace di adattarsi alle condizioni del tempo presente e alle evoluzioni del vivere sociale (v. sentenza Tyrer c. Regno Unito, para. 31). I diritti della CEDU possono dunque ben applicarsi a situazioni non originariamente previste, comprese quelle connesse alla intensificazione dei movimenti transfrontalieri dovuta alla crescente interdipendenza globale.
Inoltre, la lettera mette in discussione il concetto stesso di diritti umani, suggerendo che la loro protezione debba essere “meritata” e possa invece essere persa qualora un cittadino non si conformi alle regole del vivere sociale. Si afferma che alcuni migranti avrebbero scelto di non integrarsi, “isolandosi in società parallele e allontanandosi dai valori fondamentali di uguaglianza, democrazia e libertà”, fino a non contribuire “positivamente alla società che li ha accolti, optando per la commissione di reati”. Da ciò si deduce che, proprio per queste ragioni, la tutela dei loro diritti dovrebbe essere ridotta o attenuata: “È incomprensibile come alcune persone possano arrivare nei nostri paesi, godere della nostra libertà e delle nostre ampie opportunità e, addirittura, scegliere di commettere reati”.
Questa visione risulta distorta e profondamente incompatibile con il principio universale che ispira i diritti umani, i quali non sono subordinati al comportamento o al merito individuale. I diritti fondamentali non sono concessioni discrezionali, bensì garanzie imprescindibili da rispettare per ogni individuo, indipendentemente dalla condotta, dal status, dalle circostanze politiche, dalla presenza di precedenti penali o dalla maniera regolare o irregolare in cui l’individuo entra nel territorio dello Stato.
Peraltro, la lettera cerca di attribuire colpe alla Corte europea, accusata di strumentalizzare i diritti umani impedendo ai governi di espellere i criminali stranieri o di proteggere i confini nazionali. In realtà, non è affatto vero che la Corte adotta un atteggiamento eccessivamente severo e rigoroso nei confronti degli Stati. Al contrario, nella sua giurisprudenza più recente si registra una tendenza sempre più marcata ad assecondare le scelte statali in materia migratoria, tanto da suscitare critiche severe e fondate da parte della dottrina internazionalistica.
È emblematico il caso della criticatissima sentenza della Grande Camera N.D. e N.T. c. Spagna (2020), in cui la Corte ha escluso la tutela prevista dalla CEDU semplicemente perché i migranti avevano attraversato illegalmente la frontiera spagnola. Come evidenziato da numerose analisi (ad esempio qua), nella maggior parte dei casi recenti riguardanti l’espulsione di migranti la Corte ha concluso per la non violazione della Convenzione, confermando così un orientamento sempre più deferente nei confronti delle decisioni statali in questo ambito. Considerato come sono già fortemente limitate le garanzie fondamentali di cui godono i migranti ai sensi della Convenzione europea, non è affatto chiaro a quali ulteriori sacrifici dell'effettività della tutela la lettera faccia riferimento.
Come già osservato da numerosi esperti del settore, la lettera presenta la sicurezza come un valore superiore ai diritti umani individuali, ignorando il principio secondo cui tutti i diritti hanno pari dignità e nessuno può essere considerato gerarchicamente superiore. La Corte europea ha più volte riconosciuto che la lotta alla criminalità e la tutela della sicurezza sono obiettivi legittimi, previsti dalla stessa CEDU, e che gli Stati dispongono di un certo margine di manovra in questo campo. Tuttavia, questo margine non è illimitato: anche le misure adottate per proteggere la sicurezza devono rispettare gli standard internazionali sui diritti umani. Ed è proprio questo rispetto che i governi firmatari della lettera sembrano mettere in discussione.
Inoltre, l’iniziativa risulta particolarmente problematica anche a causa della modalità insolite e irrituali con cui è stata presentata. Si tratta infatti della prima volta che governi di Stati parte della Convenzione esprimono direttamente alla Corte proprie convinzioni circa l’interpretazione della Convenzione e chiedono esplicitamente un mutamento nell’approccio interpretativo.
È importante ricordare che la Corte europea non detiene il monopolio dell’interpretazione della Convenzione, che viene invece condiviso con le autorità nazionali che, come sottolineato dalla stessa Corte nella sua giurisprudenza, sono spesso “meglio posizionate” (“better placed”) per decidere le soluzioni più adeguate nell’interesse delle proprie società e per bilanciare i diversi interessi in gioco nella protezione dei diritti umani.
Tuttavia, la Corte europea è un organo indipendente che deve poter svolgere il proprio ruolo senza subire alcun tentativo di strumentalizzazione politica. Come evidenziato dal Segretario Generale del Consiglio d’Europa, Alain Berset, in risposta alla lettera degli Stati:
“Mantenere l’indipendenza e l’imparzialità della Corte è un principio fondamentale per noi. Il confronto è salutare, ma politicizzare la Corte non lo è. In una società fondata sullo stato di diritto, nessun organo giudiziario dovrebbe subire pressioni politiche. Le istituzioni che tutelano i diritti fondamentali non possono piegarsi alle logiche dei cicli politici. Se ciò accadesse, rischieremmo di compromettere la stabilità stessa che tali istituzioni sono nate per garantire. La Corte non deve essere strumentalizzata, né contro i governi né da essi”.
Gli Stati parte della Convenzione sono certamente liberi di proporre, sollecitare oppure orientare un'evoluzione della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo in un senso più congeniale alle loro necessità politiche, ma ciò deve avvenire entro le sedi istituzionali previste o attraverso gli strumenti giuridici opportuni, non tramite lettere informali e aperte con lo scopo di esercitare pressione politica.
Esistono strumenti giuridici ben consolidati per incidere sul contenuto e sulla portata della CEDU, così come sulla sua interpretazione da parte della Corte europea. Gli Stati possono adottare accordi interpretativi di cui la Corte deve tenere obbligatoriamente conto nell’interpretazione della CEDU, ai sensi dell’Articolo 31 (para. 3, lett. a) della Convenzione di Vienna che regola l’interpretazione dei trattati. In aggiunta, gli Stati possono adottare Protocolli addizionali alla Convenzione europea per ampliare o restringere la protezione offerta dalla CEDU, ivi inclusa quella offerta ai migranti irregolari o con precedenti penali. Nel corso dei 75 anni di applicazione della CEDU, gli Stati hanno fatto pieno uso di questo strumento, adottando ben 16 protocolli, modificando, ampliando o specificando la portata della protezione dei diritti garantiti nella Convenzione.
Il Protocollo n. 15, adottato nel 2013 ed entrato in vigore nel 2021, rappresenta un esempio significativo di come gli Stati parte possano orientare in modo lecito l’evoluzione e l’interpretazione della Convenzione, anche nella direzione auspicata dai firmatari della recente lettera. Esso ha infatti introdotto nel Preambolo della Convenzione un esplicito riferimento al principio di sussidiarietà, secondo cui la responsabilità primaria nell'applicazione della Convenzione ricade sulle autorità nazionali, mentre l’intervento della Corte europea dei diritti dell’uomo è previsto soltanto in via sussidiaria. Tale modifica ha rafforzato l’invito alla Corte a esercitare una maggiore deferenza nei confronti delle scelte compiute dagli Stati, soprattutto in ambiti politicamente sensibili e complessi, e si è tradotta in una giurisprudenza maggiormente rispettosa delle sensibilità nazionali. Non a caso, fortunata è diventata l’espressione secondo cui la Corte sarebbe entrata in una vera e propria “era della sussidiarietà”.
La scelta di non intraprendere modifiche interpretative o legislative attraverso accordi sembra riflettere la consapevolezza che non tutti gli Stati parte della Convenzione avrebbero condiviso la visione espressa nella lettera. In questo senso, risulta particolarmente significativo il mancato coinvolgimento di alcuni Paesi europei tra i firmatari, come la Svezia e i Paesi Bassi, i cui governi sostengono posizioni altrettanto ferme su migrazione e sicurezza, nonché della Finlandia, dove il tema dell’uso strumentale della migrazione da parte della Russia alle frontiere è da tempo un argomento centrale nel dibattito politico.
Una maggiore discrezionalità, nel senso di un diverso bilanciamento tra diritti e interessi contrapposti, può sempre costituire l’oggetto di una legittima pretesa da parte degli Stati, specie in relazione alle complesse decisioni che essi sono chiamati a prendere nella gestione di fenomeni delicati come quello migratorio, purché sia espressa attraverso le modalità opportune. Iniziative del genere rischiano invece di rappresentare un pericoloso tentativo di politicizzazione, di delegittimazione, e di pressione nei confronti delle istituzioni internazionali che tutelano i diritti fondamentali, le quali dovrebbero operare in base a criteri oggettivi e non secondo in base ai mutevoli interessi dei governi o al timore di dovervisi contrapporre.
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