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2011-2013: Il biennio che consumò la sinistra italiana

11 Maggio 2013 12 min lettura

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2011-2013: Il biennio che consumò la sinistra italiana

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Gianni Morandi agita le sue grandi mani anticipando le parole che sta per dire. È stanco ma irrequieto, con l'aria di chi potrebbe ringraziare per altre due ore la casa di moda che gli ha confezionato l'abito. Incalzato dalla 'linea comica' del Festival Luca e Paolo convoca il sindaco di Sanremo Zoccarato (PDL, riuscirà a fare un comizio-lampo durante la premiazione) e annuncia il vincitore. «Roberto Vecchioni!»: il professore, fra gli ultimi cantautori italiani politicamente inquadrabili, sale sul palco con l'espressione di chi dovrebbe trovarsi di fronte al distributore di sigarette a trafficare col codice fiscale e invece viene sollevato di peso e alzato come un trofeo. Chiederà il permesso di togliere la giacca prima di esibirsi per l'ultima volta (accordato).

La vittoria di Roberto Vecchioni al Festival di Sanremo 2011 è stata indicata da molti, per diverso tempo, come la concessione definitiva della cultura popolare alla progressiva e irrefrenabile deriva 'a sinistra' nella politica e nella discussione pubblica, nei media e alle elezioni. L‘affermazione di una sinistra finalmente nazional-popolare e simbolo della morte del berlusconismo, che trovava in quegli istanti il suo più eclatante fenomeno nella sconfitta della favorita Emma Marrone, stella dei talent di Maria De Filippi data per trionfatrice dopo anni di vittorie tranquille a botte di sms - come assegnare un seggio elettorale (la tv) a un esponente di partito qualsiasi (chiunque provenga da Amici) ché tanto si vince facile. A sorpresa, al televoto vince la sinistra, «e risuona come un segnale che il vento sta cambiando» (Gad Lerner, 20 febbraio 2011).

Di lì a poco si sarebbe votato per le elezioni comunali in molte città d'Italia. La sfida per Milano viene enfatizzata da Silvio Berlusconi come un referendum personale, nella speranza che l’affermazione 'in casa' possa aiutarlo a tirarsi fuori dalle sabbie mobili nelle quali sta cominciando a sprofondare. Febbraio 2011, la maggioranza PDL-Lega impara con noi la parola spread e piscia sulla suddivisione dei poteri democratici accusando la magistratura di sovvertire la democrazia. Ruby occupa stabilmente le homepage del pianeta con una foto di lei su un trono a braccia aperte e duck face, mentre Bossi e i suoi più stretti (il "cerchio magico”) si tengono lontani dalle tv fino a rinunciare alla partecipazione nel programma Rai di Lucia Annunziata, che avrebbe brandito davanti a un imbolsito Salvini le lamentele degli ascoltatori di Radio Padania - perfino loro insoddisfatti dopo anni di promesse disattese e pungolati sul culo da una crisi economica ancora pubblicamente non riconosciuta (i «ristoranti pieni» arriveranno pochi mesi dopo). Il PDL sprofonda nei sondaggi e si allontana dal 30 percento. Non vi tornerà mai più, prima di oggi.

A mutilare le ambizioni internazionali e la tenuta del Governo Berlusconi, inaspettata, giunge la faccenda libica: quello che per anni si è cercato di riabilitare come spendibile amico del Mediterraneo si riscopre ferito e violento dittatore. Il Presidente, animato da amichevole e umana pietà, è costretto controvoglia all’intervento militare da L’OCCIDENTE INTERO. Intorno buona parte dei paesi arabi comincia a vivere una serie di tumulti ricordati come Primavera Araba, Wall Street viene messa sotto assedio e i media scoprono Twitter affibbiandogli il ruolo di detonatore di rivoluzioni mondiali e sfottò alla Moratti. Maggio 2011 è jackpot: fuori “todo cambia”, la sinistra “si lava poco”, ma riesce a vincere quasi ovunque alle Municipali.

Genova, Napoli, Cagliari, i quattro referendum: l’arancione diventa il tema dominante di quasi tutte le nascenti formazioni politiche gauchiste, De Magistris conquista Napoli e sembra volersi imporre come leader di un movimentone (chiaramente) arancione fondato sui beni comuni, i diritti, l’inclusione della 'società civile' e le bandane in tinta. A Milano la spunta Pisapia, il 'rivoluzionario gentile', il 'comunista borghese' la cui vittoria avrebbe dovuto invertire il senso «del vento», facendolo spirare decisamente - e ovviamente - «a sinistra»: l’alba una nuova stagione politica, che Vendola rivendicherà ruvido e sudato in Piazza Duomo. Non andrà così.

Le divisioni politiche vengono congelate dal governo tecnico, che pochi mesi dopo (novembre 2011) è convocato dal Presidente della Repubblica Napolitano per un intervento emergenziale sui conti pubblici in ossequio alle direttive imposte dall’Europa. La condotta dell'esecutivo, benché incerta e comunque sostanzialmente fallimentare, non manca di evidenziare tutte le differenze possibili fra una squadra di governo e un premier genuinamente incapaci e un altro con una chiara ossessione per la figa e la magistratura. Il PD, pur garantendo tutti i voti necessari a un governo tendenzialmente liberista e conservatore come quello guidato da Monti, continua a guadagnare punti nei sondaggi. A sinistra Vendola contesta questa ipocrisia di fondo e le politiche turbocapitaliste di Monti e Fornero (immaginate Vendola che dice «turbocapitalismo») e cresce fino a vedersi riconoscere lo status di candidato alle primarie di coalizione vinte da Pierluigi Bersani.

È il novembre del 2012, ed è passato un anno: in Francia i socialisti piazzano una versione ancora meno seducente di Bersani all’Eliseo, il PD conquista la Sicilia ‘per abbandono’ con un ex comunista in alleanza con l’UDC. Il centrosinistra nazionale - nella forma di Italia Bene Comune - è vicino al 40 percento. Cominciano a girare i nomi del futuro ‘Governo PD’, formula inedita con la quale sembra si dovrà cominciare a fare l’abitudine. Le ultime battute della campagna elettorale si distinguono per un’impareggiabile vaghezza che trova il proprio zenit nel celebre “Lo smacchiamo” cantato sui tetti della redazione della webtv del partito.

Un epitaffio: alle Politiche, febbraio 2013, la coalizione resta attorno al 30 percento, il PD riesce a perdere tre milioni e mezzo di voti rispetto al disastroso risultato di Veltroni nel 2008, Berlusconi per poco non vince e questo video di Fassino che invita Grillo a farsi un partito si candida a suoneria polifonica del decennio 2010-2019. Bersani è costretto a pellegrinare fra partiti, dirette streaming e Quirinale per trovare un'intesa di massima e «non ostacolare» la partenza dell'esecutivo - un’operazione che Renzi definisce «umiliante» e che dura per più di un mese. La sua segreteria si dimette in blocco all'alba della bocciatura delle candidature al Colle dell’ex senatore Franco Marini e di Romano Prodi, colpito alle spalle da 101 franchi tiratori. Il partito si inabissa e esplode, portando a galla tutti i pezzettini di merda che si erano tenuti sott’acqua con le mani a coppetta perché tanto «vinciamo ovunque».

Quella descritta dal 2011 delle grandi promesse ai tetti del giaguaro indelebile è una parabola impietosa che ha annichilito per fasi ogni ambizione 'di sinistra' presente e futura, nel PD e al di fuori di questo. Il 2013 può essere ritenuto 'l'anno nel quale la sinistra venne cancellata dal panorama politico', laddove per sinistra non si intendono solo le formazioni post-comuniste che dal ‘93 - o dall'’89, o dal '45 - stanno cercando una dimensione vincente e contemporanea, ma anche quel riformismo più blando e latente che in linea teorica dovrebbe essere riprodotto dal Partito Democratico, a diversa vocazione ma più o meno ferma posizione su una certa parte dell'emisfero politico. Un orientamento di massima: di qua ci stiamo noi - indipendentemente da tutto ciò che implica - di là quegl’altri. Le parole chiave di questo disastro sono “Sopravvivenza della classe dirigente del Partito”, “Disinteresse per il mandato popolare”, “Inattualità della battaglia politica”, “Avv. Dott. Angelino Alfano” e “Governo Letta”.

Sin dalla sua costituzione il PD è sempre stato abituato alla critica 'da sinistra', come formazione 'di sistema' e attore co-protagonista del famigerato inciucio, facendo ben poco per scrollarsi di dosso l’etichetta del partito 'moderato' di poche idee e possibilmente non compromettenti. Il compimento di questo passaggio politico si è rivelato in tutta la sua disastrosa grandezza nelle scorse settimane, col giuramento di un governo presieduto dal numero due del partito Enrico Letta e formato da esponenti del PDL come Alfano (in veste di vice), Lupi, Micciché, Quagliariello, e regalando le commissioni parlamentari a Capezzone, Sacconi, Cicchitto, Formigoni, Matteoli. L’operato di questo governo potrà essere quindi definito “di sinistra” a piacere quando converrà al capo del PDL per criticarne le scelte - e mostrarne la matrice ideologica agli elettori (tipo così) - e MAI di sinistra per quelli che hanno deciso di restarne fuori (SEL, M5S, antagonismo spurio - tipo così).

Un segnale: Beppe Fioroni nel partito ricopre il ruolo di quello che ricorda a tutti che se sei di sinistra Papa Bergoglio piange. Ex DC, ex Popolare, successore di Paola Binetti per acclamazione, Fioroni ha dichiarato domenica scorsa al Corriere della Sera che «va bene l'asse dei moderati, ma il nostro è un partito di centrosinistra». Un allarme inequivocabile che dice tutto del futuro del PD, della sua linea politica e di quella del suo governo, ritenendo improbabile l’eventualità che il nuovo ESUBERANTE premier (altro ex DC) possa trascinare il partito di Berlusconi su posizioni progressiste - sembra anzi piuttosto facile il contrario, come già si vede dall’antipasto sull'IMU «o stacchiamo la spina» (Berlusconi in tutona in acetato, Tg4). Un governo d’emergenza preteso dal Quirinale su temi non negoziabili, inattaccabile e senza modulazioni politiche, ma in grado di accontentare tutti - correnti di partito, fondazioni, poteri, paranoie grilline, persino Renzi.

La critica pubblica nei confronti del Governo Letta viene infatti inquadrata il più delle volte come incomprensione dello stato (critico) delle cose, a causa del quale il partito ha risposto doverosamente al Paese (grazie) aprendo alla collaborazione con chi appena poche settimane prima occupava le scalinate del Tribunale di Milano inneggiando informalmente all'anarchia giudiziaria o cantava civettuolo inni a Silvio e alle Libertà con un carlino in braccio: le reazioni di buona parte dei media - quasi univocamente impegnati nell’esaltazione delle nuove intese - e della stessa Presidenza della Repubblica hanno dato tutta l’impressione di voler relegare l’esito delle urne a parentesi del libero quanto superfluo esercizio democratico («Gli elettori? Ma cosa vogliono dire gli elettori? Che c'entrano?» - Pierluigi Battista, lunedì 29 aprile, La7), e gli strumenti di dissenso parlamentare a una forma di sostanziale irritazione ai coglioni da grattare ridendo (l’astensione di Civati durante il voto di fiducia).

Sinistra Ecologia e Libertà, dopo mesi di 'OPA ostile' normalizzata dalle primarie, resta a sinistra dello schieramento e al di fuori della maggioranza PD-PDL: la presence-absence di Nichi Vendola, tornato nella ridotta barese, lascia SEL ridimensionata in termini di visibilità mediatica e argomenti che in maniera ciclica tornano legittimi quanto irrilevanti (ora per esempio è stagione di NO alla parata militare del 2 giugno). Si parla di un riavvicinamento con l’ex leader CGIL Cofferati e Stefano Rodotà (all’insegna della freschezza e dei giovani col gel nei capelli) in previsione di un futuro partitone del lavoro e di un “nuovo cantiere per la sinistra italiana” (l’ennesimo). Ma è il senso della parte intera a perdere assieme credibilità e appeal. La sinistra parlamentare negli ultimi tempi è scacciata malamente dalle manifestazioni in luoghi dove il MoVimento 5 Stelle trova spesso miglior accoglienza - protesta contro TAV e MUOS su tutte - e persino il concerto del Primo Maggio, simbolo univoco e decennale della lotta per i diritti, comincia a stare sulle palle un po' a tutti, Camusso compresa. L’imbarazzo di Geppi Cucciari incapace di gestire i «Berlusconi Merda» del pratone romano è una grandiosa metafora di questa immobilità, l’inabilità di gridare la propria posizione senza turbare la luna di miele delle larghe intese e i monocoli degli editorialisti, così come la breccia nella campana di vetro del concertone praticata quest'anno dalla satira di una band amica come Elio e le Storie Tese è un segnale notevole, che ha dato sfogo a sensazioni prima solo sussurrate pudicamente.

Quanto rimasto della sinistra con la falce e il martello nel logo, in una piccola grande galassia di simboli che ha trovato la sua stagione migliore nella Rifondazione di BERTINOTTI (fresco di cerimonia in veste di testimone di Valeria Marini), si è assembrato alle ultime elezioni insieme a Di Pietro dietro la lista Rivoluzione Civile, capeggiata dall'ex pm Antonio Ingroia, arrivata a un irrilevante 2% e sciolta in questi giorni dallo stesso leader, lasciando di nuovo i superstiti alla strenua lotta per la sopravvivenza e il presidio dei centri sociali fuori mano. Il tutto a pochi anni dalla fallimentare esperienza della Sinistra Arcobaleno, la 'piattaforma' delle forze socialiste e anti-capitaliste azzoppata nel 2008 da programmi, leader e vocazione maggioritaria di un Veltroni che riuscirà - con le leve fornite dalla legge elettorale e l’appello al' voto utile' - a estromettere la sinistra-sinistra dall'arco parlamentare per la prima volta nella storia repubblicana. Ingroia dovrà tornare mestamente a esercitare ad Aosta, città assegnatagli dal CSM in quanto unico collegio nel quale non si è presentato da capolista (fa ridere).

Restano infine Grillo e il suo equivoco di fondo: malgrado buona parte degli elettori che hanno scelto 5 Stelle alle ultime elezioni provengano certamente dall’area del centrosinistra, e malgrado alcune battaglie come quella sul salario minimo abbiano incontrato l’interesse e l’entusiasmo di quei due-tre miei amici che fra di loro ancora si chiamano compagni, i sedici libri sul fenomeno Grillo fin qui prodotti non sono stati ancora in grado di stabilire se il MoVimento sia mosso da una matrice ideologica socialdemocratica oppure da un sincero gusto per il trolling applicato alla vita reale - tenendo presente che il leader-megafono ha l’abitudine di declinare i temi dei comizi in base al luogo in cui si trova (antisindacale e un po’ razzista in Veneto, tutto accoglienza nei grandi centri urbani progressisti, 'sindacati vera mafia' in Sicilia). Del resto, in una piazza occupata da maschere di Guy Fawkes nessuno è in grado di capire se ci sia qualcuno di sinistra - sarebbe interessante sentire il parere dei “cittadini a 5 Stelle” in Parlamento, se non stessero setacciando rabbiosi gli studi di Canale 5 alla ricerca di dissidenti da stanare.

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Che fine ha fatto la sinistra, quindi? A grattare la superficie, il quadro propone una coalizione elettorale uscita relativamente vittoriosa dalle elezioni che nell'obiettivo di condurre anche solo nominalmente un governo, intestarsi presidenze di Repubblica, Camera e Senato e preservare dall’estinzione la classe dirigente storica, ha abdicato alla propria azione politica regalandola all'altra parte dell’innaturale maggioranza (quella con Monti e Berlusconi) ed emarginando ogni tipo di pretesa che possa suonare 'di sinistra' - che nessun'altra forza politica, per incapacità o mancanza di numeri, può far propria. La sinistra extraparlamentare ha vissuto per l’ennesima volta il processo di deterioramento-palingenesi-balcanizzazione con il quale convivrà ancora per qualche anno mentre il mondo ride molto forte del suo anacronismo. Il MoVimento di Grillo intanto continua a urlare motti universalistici e semplificatori, unificando dietro un Marchio Registrato chiunque abbia voglia – anche legittimamente - di reclamare il proprio 'vaffanculo', ma senza esibire troppo il senso e il tono politico dell’invettiva. Il resto è terra incolta, mujaheddin berlusconiani e astensione.

Febbraio 2013, Gianni Morandi guarda il Festival di Sanremo dal suo salotto di Bologna. L’edizione, la più de sinistra di sempre, è condotta da Fabio Fazio e Luciana Littizzetto. Ad affermarsi è Marco Mengoni, vincitore di un talent show ritenuto però più accettabile: X Factor. Come un governo effettivamente di destra guidato da Enrico Letta.

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