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L’etica della condivisione nell’era dei social

3 Settembre 2015 10 min lettura

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L’etica della condivisione nell’era dei social

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9 min lettura

"Hanno pianto un po’, poi si sono abituati. A tutto si abitua quel vigliacco che è l’uomo." (Fëdor Dostoevskij)

Aylan Kurdi aveva tre anni. Il suo corpo senza vita è stato recuperato ieri su una spiaggia di Bodrum, in Turchia. Insieme ad Aylan si pensa siano morte altre 12 persone. Fuggivano dalla Siria. Volevano raggiungere la Grecia, l'isola di Kos, dove da settimane arrivano migliaia di disperati in fuga dalla guerra. Aylan aveva un fratello, Galip, di 5 anni. È morto anche lui. Il suo corpo è stato ritrovato da un'altra parte sulla stessa spiaggia. Questi sono Aylan e Galip. Ed è l'unica foto che pubblicherò dei due piccoli fratelli.

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La foto di Aylan si è diffusa rapidamente sui social poco dopo la pubblicazione su Twitter da parte di Peter Bouckaert, Emergency Director di Human Rights Watch.

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Pubblicare o no le foto di Aylan senza più vita lungo la spiaggia? Condividere o no sulle nostre bacheche? Ieri la discussione si è scatenata a livello globale. Su Twitter, su Facebook...

Provo ad affrontare la questione da due punti differenti: i nostri singoli spazi social e la scelta (etico-giornalistica) dei media.

Nell'era social ognuno di noi è media, e ognuno di noi si prende la responsabilità dei contenuti che pubblica. Per la maggior parte chi ha condiviso, almeno dal mio punto di osservazione, ha scelto di farlo perché "il mondo deve sapere", senza che alcuna informazione approfondita o meno accompagnasse quelle immagini. Chi è quel bimbo, da cosa sta fuggendo, cosa sta succedendo in Siria? Perché decido di "imporre" quell'immagine ai miei contatti? Non so onestamente, quanti di quelli che hanno pubblicato o condiviso conoscano le risposte, si siano posti dubbi prima di usare il tasto "pubblica" o "condividi".

Sui miei spazi ho deciso di non condividere. Avrei voluto scegliere se vedere o meno. Non mi è stato possibile. Alcuni dei miei contatti hanno deciso che era loro missione "risvegliare" la mia coscienza. Quei contatti li ho oscurati, da oggi non vedrò più i loro contenuti su Facebook o su Twitter (aggiornamento: mi spiego meglio perché qualcuno ha chiesto spiegazioni in merito parlando di ban e blocco. No, non è come bannare: tecnicamente ho chiesto a Facebook di vedere meno post / notizie di queste persone scorrere sulla mia home page di Facebook. Rimaniamo amici, ma non vederò con la stessa frequenza di prima i loro post sulla mia home. In tutto ho calcolato di aver "oscurato"4, 5 persone. Per fortuna precedentemente avevo fatto richiesta di non vedere immagini simili e l'algoritmo ha "rispettato" questa richiesta). Scelte che condivido con alcuni "amici", come Giovanni Scrofani, che ha tra l'altro scritto un post sulla tendenza alla pubblicazione di contenuti "forti" sui social.

Rigrazio tutti i fenomeni da baraccone, che in queste ore hanno cercato di sensibilizzarmi utilizzando la foto del...

Posted by Giovanni Scrofani on Mercoledì 2 settembre 2015

I motivi  per cui scelgo di non condividere sono diversi, e sono gli stessi che Carlo Gubitosa ha pubblicato sulla sua bacheca Facebook giorni fa, quando già circolavano alcune foto di bambini senza vita:

Credo che sia una forma di rispetto delle vittime.

Non credo sia opportuno strumentalizzare quelle immagini anche se le userei come strumento contro il razzismo, la xenofobia e la chiusura mentale che spinge alla chiusura delle frontiere.

Credo che la vita degli adulti valga quanto quella dei bambini.

Come esseri umani abbiamo l'istinto animale che ci spinge a proteggere i cuccioli, e di conseguenza questo istinto ci rende più sensibili alla morte dei bambini che a quella degli adulti, ma abbiamo anche strumenti più evoluti come la ragione e la cultura, e non credo che il modo migliore per far prevalere l'umanità sia quello di fare appello ai nostri istinti animali.

Sono immagini disturbanti per chi è già sensibile e al tempo stesso sono inutili per a far riflettere chi è insensibile alle stragi del mediterraneo, e di immagini simili ne ha già viste a bizzeffe senza cambiare di una virgola il suo orientamento a favore dei respingimenti e della criminalizzazione della naturale tendenza umana a cambiare luogo di vita per migliorare le proprie condizioni.

Poi ognuno potrà trovare ragioni altrettanto valide per farle circolare, non pretendo di avere verità assolute in tasca. Ma la notizia per me è che nel Mediterraneo sono morte più di trentamila persone per cercare una vita migliore. Di loro possiamo dire tante cose, ma l'unica cosa certa è che cercavano una vita migliore.

Discutendo nel gruppo Valigia Blu sono emerse poi ulteriori considerazioni e perplessità. La condivisione "virale" corre il rischio di svuotare, di avere un effetto "anestetizzante", di scioccare senza informare, di alimentare una forma di slacktivism (una sorta di attivismo "da poltrona", che non richiede grandi sforzi o impegni e coinvolgimento), in un meccanismo perverso, straniante, alienante: ho postato la foto, la mia coscienza è a posto, ho incassato la mia dose di like, e adesso andiamo avanti con le foto delle vacanze o i commenti sulla partita... In questo contesto, è bene esserne consapevoli, si decide di intestarsi il risveglio delle coscienze (ripeto è la motivazione che va per la maggiore tra chi sceglie di condividere).

Riporto qui una sintesi-raccolta dei commenti della discussione privata

Davvero crediamo che mostrarla abbia un effetto positivo in termini di sensibilizzazione delle persone? O è solo un altro modo per sputare in faccia al potere la nostra ira (non importa come)? Il fatto è che poi quando parli con altre persone, che mai hanno parlato di questi argomenti, ti accorgi che forse una foto come quella è l'unico modo di far sì che la guerra in Siria diventi "topic". Ma è giusto fare propaganda "umanitaria" a questo prezzo? E, soprattutto, ha davvero effetti positivi? Aumenteranno le donazioni a UNHCR? Boh. Una cosa è certa: se uno ha davvero bisogno di una gallery di morti per prendere coscienza della sofferenza umana che ci circonda allora è proprio messo male.

Comunque penso che possa essere rischioso, nel lungo periodo, convincerci della necessità di usare la morte (quella VERA) graficamente con uno scopo preciso (sia esso sensibilizzare, informare, vendere, etc.). Penso all'assuefazione, penso ai centinaia di giornali di cronaca nera con foto di persona decapitate che esistono (e vendono!) in Messico... E penso che lì è normale, li trovi anche nella sala d'attesa del medico. È intrattenimento.

Non possiamo ignorare la banalità dell'orrore che sta nel tasto destro "salva immagine" e "condividi". Dinamiche inevitabili, ma di cui almeno bisogna prendere consapevolezza. Un momento condividi il bambino morto, 5 minuti dopo l'Inter, 10 una battuta... 

Al Festival del Giornalismo quest'anno ho seguito un panel sul Messico, dove giornalisti e attivisti rischiano ogni giorno la vita (dall'inizio dell'anno a oggi otto giornalisti sono stati trucidati). A fine incontro ho posto una questione agli speaker: tv e giornali in Messico sono assuefatti alla violenza dal punto di vista delle immagini, ma si ha l'impressione che questo nasconda un deficit spaventoso di informazione e mi hanno dato ragione: in Messico il narcotraffico riempie i telegiornali... Manca solo l'informazione. È una forma di controllo? Secondo me sì. Una declinazione distopica del pane e circo.

Ricordiamoci anche che questa foto del bambino viene dopo l'infornata di foto di altri bambini che giravano sulle bacheche. L'orrore a ciclo continuo, può anche essere che sia diventato "di moda" schiaffare queste foto sulle proprie bacheche...

Fra 48 ore sarà tutto dimenticato e archiviato. E molti di quelli che hanno 'sharato' la foto al grido di "VERGOGNA" non avranno neanche fatto in tempo a scoprire cosa sta succedendo in Siria.

Chiudendo questa parte del mio post: quando condividiamo, quando scegliamo di condividere un contenuto che pone o dovrebbe porci davanti a una scelta "etica", che sia almeno una scelta meditata, consapevole. Come dicevo all'inizio siamo in un'era in cui ognuno di noi è media e dovremmo quanto meno porci la questione. Avendo piena consapevolezza dell'architettura dei social dove "pubblichiamo" i nostri contenuti.

Every user of social media is a publisher and a distributor of news. In the end, we all decide what standards of conduct or morality we are going to uphold, and it’s not getting any easier. (Mathew Ingram)

Nel mio post precedente mi sono occupata della questione del video dei giornalisti uccisi da un ex collega in Virginia. Avevo accennato alla questione etica dell'autoplay sui social che ti obbligano a vedere anche non volendo. Da questo possiamo proteggerci disattivando l'autoplay. Con le foto l'unica possibilità è chiedere di non vedere più quelle immagini (ma solo dopo averle viste). Non c'è nessuna possibilità di scegliere. Non c'è nessun avviso, alert sulla durezza o meno delle immagini. Questo a differenza invece dei giornali, delle TV che possono avvertire le persone, dando così la possibilità (sarebbe un diritto) di scegliere se vedere o meno.

In quel post sostenevo che non pubblicare il video è un atto giornalistico. La riflessione rispetto alla pubblicazione o meno della foto di Aylan da parte dei media questa volta, per me, è del tutto differente. Pone quesiti, interrogativi diversi. Non è un video di un killer che pianifica "mediaticamente" il suo omicidio.

 

La scelta dei media come atto di accusa

'If these images don't change Europe, what will?'. Così titolano diverse testate. Ed è una domanda che un giornale deve porsi, perché quella foto è la "conseguenza" di scelte politiche. E pone questioni e responsabilità a chi ci governa. In questo c'entra la missione di un giornale, di un media. Che ha il dovere di porre la politica davanti alle sue inadempienze, al suo immobilismo, alle sue incapacità rispetto a uno dei più imponenti flussi migratori dei nostri tempi.

E quella foto ha giustamente osservato Raffaella Menichini di Repubblica.it - chiedendosi se fosse giusto o meno pubblicare e rendendo partecipi i suoi contatti del fatto che dentro la redazione di Repubblica si stesse discutendo in quel momento se e come pubblicare - ha una sua valenza iconica.

La decisione di pubblicare è del tutto legittima, a mio avviso. Considerando soprattutto il contesto: un clima preoccupante misto di razzismo e odio verso l'altro, una politica "europea" di gestione della crisi migratoria praticamente inesistente. Ma il punto centrale, come sempre, è come vengono usate quelle immagini e come ci si pone nei confronti dei "lettori".

Le scelte sono state molto differenti fra di loro: c'è chi ha scelto di non pubblicare affatto le foto, chi le ha pubblicate contestualizzando le immagini in un testo di approfondimento, avvertendo a inizio articolo i lettori con note simili a queste di CBC (e dando la possibilità al lettore di scegliere se vedere o meno le foto. Personalmente è l'opzione che ho preferito da lettrice)

EDITOR'S NOTE (GRAPHIC WARNING): This story contains two graphic photographs of a young boy who died, images some viewers may find disturbing. They are embedded at the bottom of this story, after the last paragraph of text. CBC News has decided to include the photos to allow for the fullest understanding of the event, but we do want to give readers the option to not scroll down and click away if they don't want to see them.

C'è chi ha pubblicato spiegando il motivo: sostanzialmente un atto di accusa alla politica inerme o in alcuni casi "ostile" di fronte al fenomeno migratorio. Una chiamata alla responsabilità della politica di fronte alla tragedia di migliaia e migliaia di persone che dall'Afghanistan, Siria, Africa fuggono da guerre e miserie, nella speranza di una nuova vita in Europa.

La foto, quella foto, come simbolo tangibile delle conseguenze di decisioni politiche.

C'è chi ha scelto di usare la foto con un gioco di parole, chi ha scelto di "marchiare" la foto con il proprio brand, chi ha scelto di realizzare fotogallery mettendo insieme le immagini di ieri e altre immagini di persone senza vita in una specie di collage della morte privo di qualsiasi contesto informativo... Scelte che non condivido, che ho trovato inopportune, ciniche e senza alcun valore "giornalistico".

Sul dibattito e la discussione all'interno delle varie redazioni se pubblicare o meno ho trovato molto completo questo articolo del New York Times, dove vengono riportare le diverse scelte tra giornali di carta e online, tra media tradizionali e non (oltre al dibattito sui social). Tra tutte la posizione di Max Fisher, Foreign editor di Vox, è quella che più mi ha colpita:

Online news outlets weighed the same considerations as traditional newspapers. The image appeared on BuzzFeed News but was absent from Vox Media, which declined to publish it in part because of “a certain viral aspect the photo has taken on,” said Max Fisher, its editorial director. He worried that for some the image had become “less about compassion than about voyeurism.”

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“I understand the argument for running the photo as a way to raise awareness and call attention to the severity of the refugee crisis, and I don’t begrudge outlets that did,” he said in an email message, “but I ultimately I decided against running it because the child in that photo can’t consent to becoming a symbol.”

Quello che mi auguro davvero a questo punto è una politica di gestione della crisi migratoria (che è ormai una crisi umanitaria) e di accoglienza degne di questo nome. Ieri su Valigia Blu abbiamo pubblicato l'appello all'empatia del sindaco di Barcellona.

Europa, europei, apriamo gli occhi. Non ci saranno sufficienti muri, né filo spinato che blocchino tutto questo. Né gas lacrimogeni, né proiettili di gomma. O affrontiamo questo dramma umano partendo dalla capacità di amare che ci rende umani, o finiremo tutti disumanizzati. E ci saranno altri morti, molti altri. Questa non è una battaglia per proteggerci ‘dagli altri’. In questo istante, questa è una guerra per la vita […] Ciò di cui ha bisogno l’Europa, urgentemente, è una ‘chiamata’ all’affetto, una chiamata all’empatia. Potrebbero essere i nostri figli, le nostre sorelle o le nostre madri. Potremmo essere noi, come tanti dei nostri nonni che furono esiliati.

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