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La destra americana all’attacco dell’educazione all’antirazzismo

10 Ottobre 2021 12 min lettura

La destra americana all’attacco dell’educazione all’antirazzismo

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Critical race theory” è una delle tante espressioni ormai imprescindibili nell’iper-polarizzato dibattito americano. Eppure, anche solo facendo una rapida ricerca su Google trends, fino all’incirca all’estate scorsa il grande pubblico non sembrava fosse interessato a sapere cosa fosse. Il tasso di ricerca tuttavia inizia a diventare rilevante verso settembre 2020, e a schizzare verso l’alto dalla scorsa primavera. Per capire come mai, e conoscere così il nuovo simbolo reclutato dalla destra americana nell’imperitura guerra culturale, occorre fare un leggero passo indietro.

Luglio 2020. La pandemia ha costretto molte aziende e molti settori della pubblica amministrazione a lavorare da remoto, e ciò vale anche per i corsi di aggiornamento e formazione. È così anche a Seattle, dove l’amministrazione cittadina tiene una sessione su pregiudizi e stereotipi. Solo che stavolta uno dei partecipanti fa degli screenshot di alcune slide e le invia a un giornalista di una testata locale, Christopher Rufo.

Rufo ha un passato da documentarista ed è anche un attivista conservatore, potendo contare collaborazioni con varie think thank di quell'area. Da quel primo contatto scrive un articolo, Cult Programming in Seattle, dove denuncia corsi rivolti ai dipendenti bianchi dove si esamina la loro “complicità nel sistema del suprematismo bianco”. Successivamente, dopo alcune richieste FOIA, rilancia sul proprio sito pubblicando nuovo materiale:

Ho ottenuto nuovi documenti dai corsi segregazionisti “solo per bianchi” che introducono i dipendenti bianchi nel culto della critical race theory.

Rufo, insomma, capisce di avere tra le mani non tanto una storia, quanto un nuovo nemico da additare: la critical race theory (Teoria della razza critica, in italiano). Tradizionalmente l’espressione indica un’area di studi e di analisi legale sorta negli anni ‘70. Le due idee centrali sono che il concetto di razza sia una costruzione sociale, e che non sia qualcosa legato tanto a pregiudizi e bias, e quindi al singolo individuo, ma storicamente promosso o mantenuto attraverso leggi e istituzioni. Secondo questo punto di vista ciò che una società ha di razzista non è un’anomalia, o qualcosa inerente mele marce, ma la manifestazione di aspetti strutturali.

Naturalmente a Rufo non interessa tanto contestare un indirizzo di studi accademico, o eventuali derive nel mercato della formazione, quanto individuare un frame spendibile nel panorama mediatico e politico. L’obiettivo è cognitivo ancora prima che politico: inquadrare “l’ideologia progressista sulla razza”, almeno a partire dagli ultimi anni della presidenza Obama. È Rufo stesso a raccontarlo al New Yorker, che ha ricostruito la vicenda a circa un anno di distanza:

Avevamo bisogno di un nuovo linguaggio per questi problemi [...]. “Politicamente corretto” è un’espressione datata e che, soprattutto, non è più applicabile. Le élite non si limitano a far rispettare un certo tipo di comportamenti e limiti, stanno cercando di ridefinire le fondamenta della psicologia umana e delle istituzioni sociali attraverso nuove politiche sulla razza, ed è molto più invasivo della “correttezza”, che è un meccanismo di controllo sociale, ma non il cuore di quanto sta accadendo. Gli altri frame sono altrettanto sbagliati: “cancel culture” è vago e non traducibile in un programma politico, “woke” è un buon epiteto, ma è troppo generalizzato, troppo facile da scrollarsi di dosso. “Critical race theory” invece è il cattivo perfetto. Le sue connotazione sono tutte negative per molti americani della classe media, tra cui le stesse minoranze, che vedono il mondo “creativo” piuttosto che “critico”, “individuale” piuttosto che “razziale”, “pratico” piuttosto che “teoretico”. Messe insieme  queste parole connotano persone ostili, accademici, divisivi, ossessionati dalla razza, velenosi, elitari anti-americani. [...] Ma, più di tutto, non è un peggiorativo applicato dall’esterno.

L’intuizione di Rufo, che arriva studiando le bibliografie del materiale proveniente dai corsi, è vincente. Da espressione specifica, “critical race theory” ora può riguardare qualunque cosa inerente l’educazione e l’antirazzismo, dal corso aziendale al programma accademico, fino alla scuola elementare. Non importa il fenomeno in sé: è sufficiente alimentare una certa tipologia di discorso, specie se nutrito da risentimento pregresso, orientato dalla paura di una corruzione morale che mescola antirazzismo e marxismo. È sufficiente dirigere quel discorso e quel risentimento verso una certa tipologia di nemici, allargando così le maglie della razionalità e dello spirito critico e facendo entrare l’allarmismo. Non importa l'epistemologia, quando puoi usare l'enfasi e hai una base di ascolto ricettiva.

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Il marchio “critical race theory” è così pronto per altri articoli dove le fonti di Rufo diventano “whistleblower”, e dove è denunciato il “discorso accademico sulla critical race theory" che "si diffonde rapidamente attraverso il governo federale”, quasi a suggerire un'epidemia. A inizio settembre Rufo si ritrova a parlare del “culto” della "critical race theory" a Fox News, ospite di Tucker Carlson, il conduttore di punta dell’emittente di Murdoch. Da lì Rufo è direttamente contattato dallo staff della Casa Bianca per capire meglio la natura del problema. Nel frattempo, la Casa Bianca diffonde un memo sulla questione. Nel memo si invitano le agenzie federali a censire la presenza di corsi di formazione dove si parli di Critical race theory e privilegio bianco. Si legge nel testo:

La divisiva, falsa e umiliante propaganda del movimento della Critical race theory è contrario a tutto ciò che l’America rappresenta, e non dovrebbe trovare posto nel Governo federale.

Mentre iniziano a diffondersi articoli o su che cosa sia la "critical race theory", o sulla minaccia che rappresenterebbe, Trump capisce le potenzialità del nuovo nemico da additare. Il 17 settembre, in un discorso tenuto al National Archive Museum, Trump fa i nomi dei “veleni ideologici” che minacciano il paese. Il copione del discorso è simile a quello tenuto il 4 luglio in occasione del Giorno dell’indipendenza. Lì se la prendeva contro la “cancel culture”, qui invece contro la “critical race theory”:

Gli studenti nelle nostre università sono inondati dalla critical race theory. Si tratta di una dottrina marxista che sostiene come l’America è una nazione perversa e razzista, come persino i più piccoli sono complici dell’oppressione, e come la nostra intera società abbia bisogno di essere radicalmente trasformata. La critical race theory viene attualmente imposta nelle scuole dei nostri figli, è imposta nei luoghi di lavoro, ed è stata schierata per distruggere amicizie, quartieri, famiglie. [...] La critical race theory, il 1619 Project e la crociata contro la storia americana sono propaganda tossica, veleno ideologico che, se non sarà rimosso, dissolverà i legami civili che ci tengono assieme. Distruggeranno il nostro paese.

Il riferimento diretto al 1619 Project mostra come ora la “critical race theory” possa tranquillamente essere estesa a inglobare tutto ciò che concerne la formazione e lo studio del razzismo, compresi il giornalismo e la storia, a prescindere dal valore specifico, o dall'area di pertinenza. Il 1619 Project è un progetto del New York Times realizzato dalla giornalista Nikole Hannah-Jones. Il progetto esamina la storia americana in base all’impatto avuto dallo schiavismo e dal contributo dei neri americani. Il 1619, infatti, è l’anno in cui approda nelle coste della Virginia la prima nave di schiavi dall’Africa. Il progetto, grazie al successo ottenuto fin dal suo lancio, nel 2019, è stato poi adattato e implementato nei curriculum scolastici, mentre nel maggio 2020 ha vinto il Pulitzer.

Pochi giorni dopo quel discorso, arriva l’ordine esecutivo della Casa Bianca per “combattere gli stereotipi su genere e razza” (qui il testo completo). Il pericolo, insomma, non viene più solo da un divisivo indottrinamento antirazzista, ma anche dalle questioni di genere. Nel testo, fra i vari punti, si propugna una revisione unitaria dei conflitti razziali nel paese, benché siano trascorsi pochi mesi dall'omicidio di George Floyd:

Grazie al coraggio e al sacrificio di chi ci ha preceduto, l’America ha fatto significativi progressi nel realizzare il nostro credo nazionale, in particolare nei 57 anni trascorsi da quando il Dr King ha condiviso il suo sogno con il paese. Oggi, tuttavia, molte persone stanno promuovendo una differente visione dell’America, radicata in gerarchie fondate su identità sociali e politiche collettive, invece che sull’uguaglianza e la pari dignità di ogni persona come individuo. Questa ideologia è radicata nella perniciosa e falsa credenza che l’America sia un paese irrimediabilmente razzista e sessista e che l’identità sessuale e razziale siano più importanti della nostra comune condizione di esseri umani e americani.

In apparenza, l’ordine emenda tutte le condizioni per cui può esserci una discriminazione in base a razza o genere. Tuttavia il numero di condizioni e un certo grado di discrezionalità rendono estremamente arbitraria l’applicabilità, avendo così un effetto autocensorio. Il rischio, all’atto pratico, è che per effettuare formazione occorra investire più soldi per avvocati che per i formatori stessi. Già ad ottobre il New York Times documenta la sostanziale paralisi formativa provocata dalla Casa Bianca. Viene inoltre promossa un’azione legale contro l’ordine esecutivo di Trump, azione che vede coinvolte varie associazioni per i diritti civili, tra cui l’importante NAACP Legal Defense and Educational Fund.

Trump pregusta la possibilità di inasprire ancora di più il conflitto, tuttavia novembre 2020 segna la vittoria alle elezioni presidenziali di Joe Biden. Sebbene nel frattempo la “critical race theory” sia entrata nel dibattito pubblico (raggiungendo anche la Gran Bretagna), a gennaio il neopresidente Biden promulga un ordine esecutivo che abolisce di fatto quello del suo predecessore. L’ordine di Biden non segna però la fine della guerra culturale voluta dalla destra repubblicana. A maggio, Media Matters for America rileva come Fox News abbia menzionato la "critical race theory" circa 1900 volte nei precedenti tre mesi e mezzo. Più o meno nello stesso periodo, vari governi federali a maggioranza repubblicana emettono leggi fotocopia, che implementano l’ordine esecutivo dell’ex presidente Trump, andando quindi contro quanto disposto dal presidente Biden. A ciò si sommano poi iniziative promosse da organi scolastici federali o locali.

Gli Stati che finora hanno emesso divieti con leggi federali sono otto - Iowa, Idaho, Oklahoma, Tennessee, Texas, New Hampshire, Arizona, e Carolina del Sud. A eccezione dell'Idaho, nessuna di queste leggi menziona esplicitamente la "critical race theory" - anche perché è una materia universitaria. Ma nel complesso, secondo una mappa del sito Chalkbeat, sono 28 gli Stati dove si sono registrate iniziative per limitare l’insegnamento su “razzismo, bias, sul contributo specifico di alcune razze o gruppi etnici alla storia americana, e su argomenti collegati” (come il genere), in particolare nei programmi scolastici K-12 (ovvero fino ai 18 anni). NBC News lo scorso giugno ha censito i gruppi attivi a livello locale e nazionale per impedire lo svolgimento di lezioni su razza o genere: almeno 165, e spesso godono del sostegno di think thank conservatori o studi legali.

Tra i bersagli di leggi e proteste anche il già citato Project 1619 e la giornalista Nikole Hannah-Jones, la cui cattedra alla scuola di giornalismo dell’Università della Carolina del Nord ha subito a inizio anno un pesante ostruzionismo da parte del consiglio di amministrazione. Nonostante incassi la solidarietà di oltre 40 colleghi di facoltà, alla fine la giornalista ha rinunciato all'incarico.

Se Rufo era partito da un corso riservato a degli impiegati pubblici di Seattle, a poco più di un anno di distanza si è arrivati alla promulgazione di leggi censorie inerenti tematiche razziali o di genere. Nella guerra alla "critical race theory" sono ormai neutralizzati contesti specifici - scuola dell'obbligo, aziende, pubblica amministrazione, accademia. Le uniche costanti sono il concetto di divulgazione antirazzista e la sua stigmatizzazione. Se a qualcuno può sembrare ragionevole, può essere che non abbia mai letto, a proposito di "culto antirazzista" e "indottrinamento", i discorsi di due storici uomini di fede americani, come Martin Luther King e Malcolm X.  I quali, da vivi, erano molto più divisivi di come ce li ricordiamo, in particolare il primo, spesso usato oggi per promuovere illegittime forme di riconcilazione (scambiando nonviolenza per passività e docilità). È del resto la prospettiva storica, sia nel valutare continuità o discontinuità, la prima vittima di ogni guerra culturale. Sempre sull'Economist, Jason Stanley, professore di Filosofia a Yale, ha ricordato la ricorsività di un certo tipo di conflitti:

La CRT preme perché l'America riformi le sue politiche praticamente in ogni ambito, tra cui il sistema giudiziario, l'educazione, l'edilizia, le banche e i criteri di assunzione. Gli Stati uniti hanno già tentato questo tipo di processo - in particolare durante la Ricostruzione, quando i governi federali impiegarono vaste risorse a vantaggio della popolazione nera da poco liberata. Quel periodo vide legislatori neri, un tempo schiavi, eletti in tutto il Sud, ed educazione pubblica gratuita offerta a tutte le razze. La risposta a quei cambiamenti drastici fu panico morale, la diffusione del terrorismo a sfondo razziale e una rapida inversione dei progressi.

Giunti a questo punto, è utile perciò collocare lo spauracchio della "critical race theory" nello schema più ampio in azione nel paese, e che purtroppo qua in Italia è molto sottorappresentato. L’offensiva che abbiamo visto, dove i governi federali si oppongono drasticamente a quello centrale, è qualcosa che i repubblicani stanno portando avanti su vari campi - dall’istruzione al diritto al voto, passando per il diritto all’aborto e la tutela delle persone LGBT - forti della maggioranza nella Corte suprema. Ciò con l’obiettivo, come spiegato magistralmente sul Washington Post da Robert Kagan, di “provocare la più grave crisi costituzionale dai tempi della Guerra Civile”.

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In ciò trovano purtroppo alleati insospettati, e può essere utile individuarne due. Il primo tipo è costituito da un certo giornalismo che, fingendo equidistanza e amore per il dibattito, non fa che normalizzare la propaganda, togliendone la patina di radicalità e occultandone la natura. Ne è un esempio Bari Weiss, non nuova a questo tipo di operazioni già quando lavorava al New York Times. Di recente Weiss ha condotto un dibattito dal titolo “Le scuole pubbliche dovrebbero vietare la Critical race theory?”. Dove la domanda ammette la plausibilità di una censura (eppure Weiss è stata tra le firmatarie della lettera di Harper’s Magazine contro la cosiddetta “cancel culture”), e dove a sostenere la tesi a favore c’è Rufo stesso, presentato come colui che “più di ogni giornalista ha gettato luce” su un’ideologia definita da Weiss “segregazionista". A confrontarsi con lui David French, la cui posizione è presentata come “molto più scettica” circa il divieto per legge, e che politicamente è conservatore, benché più moderato di Rufo. A parlare, insomma, non c'è nessuno studioso con competenze dirette, o che provenga dal mondo scolastico.

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Il secondo insospettabile alleato è un certo establishment democratico, convinto che il trumpismo sia qualcosa di archiviato, che l’ex Presidente sia stato poco più di un “buffone a livello mondiale” e che l'insurrezione di Capitol Hill sia stata soprattutto gestita male dal punto di vista comunicativo, e non rappresenti invece il sintomo più evidente di una crisi sistemica. “Per qualche ragione i democratici pagano un prezzo maggiore per Alexandra Ocasio Cortez di quanto non facciano i repubblicani con Marjorie Taylor Greene”, diceva lo scorso aprile James Carville, storico consulente politico dei democratici. Senza rendersi conto, come purtroppo molti osservatori e attori politici, che in quel “per qualche ragione” ci passa quanto meno la radicalizzazione di un intero partito e di una parte considerevole di elettorato sotto la spinta del culto del leader. Se il cruccio principale del Partito Democratico è una corrente minoritaria del partito, la prospettiva di una battaglia interna tra correnti rischia di consegnarne la classe dirigente a un giudizio storico impietoso.

Se il tutto vi sembra esagerato, considerate che la National School Boards Association (organizzazione che raduna oltre 90mila consigli scolastici) ha scritto il 29 settembre al presidente Biden per chiedere protezione per il personale scolastico. A minacciarne l'incolumità, denuncia la NSBA, sarebbero soprattutto l'attivismo e la propaganda diretti contro i protocolli di sicurezza anti-Covid19 e l'implementatazione della cosiddetta "critical race theory". A seguito della richiesta, la Casa Bianca ha allertato il Dipartimento di Giustizia e l'FBI. In un memo del 4 ottobre, il procuratore generale Merrick Garland annuncia che l'FBI e le autorità sotto la sua giurisdizione indagheranno sulle minacce e intimidazioni rivolte al personale scolastico su tutto il territorio. Sarà inoltre fornito un addestramento specifico a presidi e insegnanti per capire quali minacce vadano prese sul serio.

Anche se nel memo non si menzionano le cause specifiche e ci si mantiene vaghi, la concomitanza tra i due eventi lascia pochi dubbi all'interpretazione, così come la vaghezza di scopi è utile a diminuire il rumore di fondo circa i due argomenti caldi - pandemia e tensioni razziali. Sebbene vada di moda evocare scenari apocalittici e "linciaggi" portati avanti dalle "folle digitali", la storia degli Stati Uniti, recente e antica, ci ricorda che è soprattutto il conto con i linciaggi tradizionali a non essere mai stato saldato. Evocare i secondi a sproposito quando l'eredità ideologica dei primi è ancora attuale, persino rivendicata tra un ammiccamento e l'altro, è purtroppo parte del problema. Se non altro, questo dimostra l'importanza e l'attualità a livello accademico della critical race theory.

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