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Per fermare i migranti paghiamo governi autoritari, razzisti, violenti: cosa succede nella Tunisia del presidente Saied

4 Marzo 2023 9 min lettura

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Per fermare i migranti paghiamo governi autoritari, razzisti, violenti: cosa succede nella Tunisia del presidente Saied

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Come spesso è accaduto in questi anni, il naufragio di Cutro ha riacceso da un giorno all’altro i riflettori sulle stragi nel Mediterraneo, ma non sui contesti autoritari e repressivi dei paesi di transito o di partenza. Secondo la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, e il ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, la soluzione sarebbe semplice: “Non dovevano partire”, hanno detto, senza prendere in considerazione che il viaggio in mare è solo l’ultimo di una lunga serie di rischi che le persone migranti corrono, buona parte dei quali prima di imbarcarsi. Le dichiarazioni del ministro Piantedosi alla stampa confermano la tendenza della politica italiana a riproporre una formula che ha già dimostrato i suoi limiti, e che si basa sullo stanziamento di più fondi destinati ai paesi di partenza in cambio di una politica di controllo delle frontiere più dura. A dimostrare perché questa ricetta non funziona è uno dei principali paesi di partenza, verso il quale l’Italia ha iniettato più fondi: la Tunisia. 

In queste ultime settimane, le politiche di esternalizzazione delle frontiere europee a Sud del Mediterraneo hanno portato a una situazione paradossale nel paese nordafricano, dove l’apparato delle forze di sicurezza sotto il controllo del presidente Kais Saied, artefice della svolta autoritaria della Tunisia, è stato rafforzato dopo la rivoluzione del 2011 e continua a esserlo anche grazie al cospicuo contributo dell’Italia, che però non è servito a evitare la peggiore crisi economico-finanziaria che lo Stato tunisino attraversa dai tempi dell’indipendenza. Mentre i negoziati con il Fondo Monetario Internazionale per una nuova tranche di aiuti si stanno arenando e l’inflazione continua ad aumentare, la politica tunisina sembra essersi appropriata dell’argomento preferito dalle destre occidentali in caso di crisi sociale: la “lotta all’immigrazione irregolare”. Difficile a credersi, ma la propaganda anti-migranti sta riuscendo a far presa su una popolazione, quella tunisina, che è essa stessa migrante, ma che vive oggi un violento impoverimento che non sembra volersi fermare. 

Da fine 2022, cavalcando il malcontento generale causato anche da una serie di penurie di generi alimentari di prima necessità in Tunisia, il Partito Nazionalista Tunisino, un partito minore riconosciuto dallo Stato nel 2018, si è rafforzato e ha iniziato a fare campagna contro le persone nere presenti nel paese. In Tunisia, i partiti sono stati tagliati fuori dalla vita politica con il colpo di Stato istituzionale del 25 luglio 2021 (quando Kais Saied ha sbarrato le porte del parlamento), per poi essere del tutto esclusi anche dalle recenti elezioni legislative, dove in teoria erano ammessi solo candidati indipendenti. Eppure, al Partito Nazionalista è stato concesso un ampio spazio mediatico negli ultimi mesi. Sui social network, le pagine a sostegno delle posizioni apertamente xenofobe promosse da questo partito di nicchia si sono moltiplicate, specialmente su Facebook e TikTok, dove i video di presunti crimini commessi da subsahariani, spesso fake, hanno iniziato a essere condivisi centinaia di volte. 

Fino a fine febbraio, però, le minacce promosse dai gruppi xenofobi che chiedevano “l’espulsione dei subsahariani che colonizzano la Tunisia” sono rimaste inattuate, pur situandosi in un contesto di razzismo diffuso e storicamente presente all’interno delle società maghrebine. L’approvazione in Tunisia di una storica legge contro le discriminazioni razziali nel 2018 non è bastata a eradicare il problema. Martedì 21 febbraio, però, a riprendere quelle dichiarazioni apertamente razziste nei confronti della comunità subsahariana in Tunisia è stato niente di meno che il Presidente della Repubblica, Kais Saied. A seguito di un consiglio di sicurezza, sulla pagina Facebook della presidenza è comparso un comunicato che punta il dito contro le “orde di subsahariani in arrivo del paese” che minaccerebbero “demograficamente” la Tunisia e la sua “identità arabo-musulmana”. Le dichiarazioni della Presidenza fanno eco alla teoria del Grand Ramplacement, una teoria complottista secondo la quale sarebbe in atto una sostituzione dei “bianchi” da parte delle popolazioni migranti. Un’idea che, in Europa, ha alimentato la propaganda razzista nei confronti dei tunisini stessi. 

Tra i suoi fautori c’è il politico francese Éric Zemmour, ex candidato alle presidenziali in Francia che, poche ore dopo la diffusione del comunicato di Kais Saied, l’ha perfino ricondiviso sulla propria pagina Twitter, appoggiando il suo pugno di ferro nei confronti della comunità subsahariana. Il politico francese non è l’unico ad aver apertamente sostenuto le ultime direttive di Kais Saied. Anche Antonio Tajani, il nostro ministro degli esteri, ha più volte ribadito il “massimo sostegno alla Tunisia nelle attività di controllo delle frontiere” proprio nei giorni in cui i subsahariani hanno iniziato a subire veri e propri rastrellamenti da parte della polizia, attacchi e violenze per le strade delle principali città tunisine, sul posto di lavoro e nei loro appartamenti, che spesso sono stati costretti a lasciare finendo in mezzo alla strada. Proprio di fronte alla sede dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni, l’IOM, nel ricco quartiere di Lac 1, da tempo si è formata una tendopoli che in questi giorni si sta ingrandendo, dove chi ha richiesto il cosiddetto ritorno volontario attende da mesi il proprio turno, senza assistenza. Altri uomini, donne e bambini si sono installati in questi giorni di tensione di fronte alla propria ambasciata. Alcuni di loro chiedono di poter lasciare la Tunisia per ritornare nel proprio paese, ma nonostante le direttive pubblicate nei giorni scorsi da alcune ambasciate come quelle della Costa d’Avorio e del Mali, nessuno ha ancora chiaro come uscire dal ginepraio della burocrazia tunisina per ottenere documenti validi, un visto di uscita e imbarcarsi su un volo di ritorno. 

Nel frattempo, a seguito della pubblicazione del comunicato della Presidenza, una violenta campagna nei confronti dei subsahariani ha preso piede nel paese. Se da un lato, la polizia ha già arrestato centinaia di persone, ora in carcere in attesa di capire il loro destino, non sono mancati anche gli episodi di aggressioni razziste quotidiane, tanto che le associazioni che rappresentano le comunità dei subsahariani in Tunisia hanno esplicitamente richiesto ai propri concittadini di non uscire, in attesa di capire come evolverà la situazione. Anche alcune università hanno fatto sapere che durante queste settimane gli studenti subsahariani, che in Tunisia sono migliaia, avrebbero potuto non assistere alle lezioni. Molte famiglie si sono ritrovate per strada dopo che si è scatenato il panico tra i proprietari di alloggi affittati a subsahariani che rischierebbero una sanzione da parte delle autorità. In realtà, la notizia, parzialmente vera, si fonda su una vecchia legge del 2004 che, con toni simili alla Bossi-Fini, disciplina l’immigrazione in Tunisia punendo il reato di favoreggiamento, ritorcendosi contro chi assiste in qualsiasi modo chi non possiede un regolare permesso di soggiorno. 

Malgrado i rischi evidenti che corre chiunque contesti le posizioni della Presidenza tunisina nei giorni in cui Kais Saied ha ordinato l’arresto di buona parte dei suoi oppositori politici, la società civile e alcuni volontari si stanno comunque attivando per aiutare chi è rimasto per strada o non osa più uscire di casa, nemmeno per fare la spesa. Una manifestazione solidale è stata organizzata il 25 febbraio dal Fronte Antifascista, un gruppo di attivisti della sinistra tunisina che hanno provato a riorganizzarsi per rispondere alla campagna d’odio a livello locale. A farsi sentire a livello internazionale, invece, è stata l’Unione Africana, che in un comunicato ha contestato le posizioni apertamente razziste dei rappresentanti delle istituzioni tunisine. La Francia si è detta “preoccupata”. Poco dopo, però, commentando il naufragio di Cutro, il ministro dell’Interno, Gérarld Darmanin, ha stretto la mano a Piantedosi appoggiando la posizione del governo italiano che, senza commentare le vicende tunisine, ribadisce di voler “contenere i flussi migratori”, fermando le partenze, senza però interrogarsi sulla situazione in Tunisia. 

Come documenta il progetto ‘The Big Wall’ di Action Aid, dal 2011 a oggi l’Italia ha speso 47 milioni di euro, 15 solo negli ultimi due anni, nel tentativo di rafforzare la guardia costiera tunisina. Eppure, poco è stato fatto per ripensare le lacune del sistema di accoglienza nel paese nordafricano, dove la legge sull’asilo è rimasta un progetto e non è mai stata approvata. In Tunisia, infatti, i titolari dello status di rifugiato o di richiedente asilo devono comunque passare attraverso il lungo e complesso iter per poter ottenere un permesso di soggiorno, visto che il documento rilasciato dall’UNHCR non è considerato un documento d’identità amministrativamente valido per potersi mettere in regola, studiare o lavorare. In ogni caso, che si tratti di un richiedente asilo, rifugiato o semplicemente di uno straniero entrato regolarmente in Tunisia, il corpus legislativo riferito agli stranieri rende difficile regolarizzare la posizione di chi lavora nel paese, perché per poter ottenere un permesso di soggiorno per motivi di lavoro, per esempio, è necessario un contratto approvato dal Ministero del Lavoro. 

La legge tunisina, in più, lo concede solo se il lavoro in questione richiede competenze che nessun cittadino tunisino può offrire. Sebbene diverse persone riescano a provare le proprie competenze presentando lauree, diplomi e tutta la documentazione necessaria, il rilascio del permesso di soggiorno definitivo (quello provvisorio scade dopo tre mesi) incontra innumerevoli ritardi, lasciando la persona migrante in una situazione ibrida tra regolare e irregolare, ed esponendola così ai controlli della polizia. Regolarizzare la propria situazione è dunque molto difficile anche per chi vorrebbe fermarsi nel paese, anche perché molti dei subsahariani presenti in Tunisia non possiedono un passaporto valido e molti datori di lavoro restano nella convinzione che i subsahariani non abbiano diritto di lavorare. Rimangano così nell’informalità, lavorando in nero, spesso sfruttati per una manciata di dinari da aziende tunisine, o come domestici, aiuto cuochi, giardinieri per le famiglie benestanti.

Tanti di loro, per esempio i cittadini ivoriani, non hanno nemmeno bisogno del visto per entrare nel paese nordafricano, e arrivano in Tunisia regolarmente passando per l’aeroporto, per poi fermarsi più dei tre mesi concessi dal visto e non essere più in grado di pagare la multa che permetterebbe loro di lasciare la Tunisia. Se molti dei subsahariani si ritrovano in situazione di irregolarità e spesso lavorano nel paese nel tentativo di metter da parte i soldi necessari per il viaggio per Lampedusa, per altri la Tunisia è un paese di studio o di lavoro dove risiedono stabilmente, e dove spesso restano bloccati a causa delle procedure amministrative. La recente campagna d’odio non fa distinzione: tutte le persone nere presenti in Tunisia ne sono vittime, compresi i tunisini neri, che hanno lanciato una campagna sui social network spiegando di aver dovuto iniziare a uscire di casa con il passaporto per provare a passanti e polizia di essere effettivamente dei cittadini tunisini. A rappresentarli c’è l’associazione Mnemty, guidata dalla storica attivista nera tunisina Sadiya Mosbah, che ricorda: “La Tunisia non ha mai fatto i conti con la propria storia e con la propria identità di paese africano. Non c’è traccia dell’eredità della comunità nera tunisina sui nostri libri di storia. È come se vivessimo in Svezia”. 

Immagine in anteprima: foto di Arianna Poletti

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