Twitter, il Colle e i tecnoschiavi
5 min letturaGira una strana voce. Che senza Internet sarebbe stato eletto Marini, ma che al contempo con Internet la politica è ostaggio di Internet. Sono i due lati della medaglia: la partecipazione e la dittatura del pubblico istantaneo; il dare voce e il dare peso a ogni sussurro. Alcuni hanno banalizzato, altri provato a riflettere. Tra i primi Roberto Cota, che ieri sera a Porta a Porta lamentava ripetutamente che «non si può eleggere un presidente della Repubblica su Twitter». Vespa annuiva, dicendo che su Internet non si ragiona, si parla a ruota libera (la solita storia del far west della rete) e soprattutto si finisce vittima di manipolazioni. Vero, ma non meno di quanto si finisca manipolati a guardare solamente Porta a Porta e affini, verrebbe da rispondere. Se fosse il punto. Ma non lo è. Il punto è quello di Vespa: «Siete prigionieri di questo oggetto qua», ha detto agli ospiti, indicando un iPad (simulacro di Internet, deduco). Nessuna obiezione dai presenti.
Del resto, è la vulgata imperante. Tanto che a Omnibus, questa mattina, Giuliano Ferrara ha potuto tranquillamente chiedere - scherzando, mi auguro - la chiusura «per decreto» di Facebook e Twitter («In Cina lo fanno, perché noi no? Siamo una democrazia, facciamolo»; risate, surreali, in studio). Solo a questo modo ci potremo liberare dei «pazzi che twittano». E, soprattutto, che cambiano idea a seconda delle risposte in 140 caratteri ricevute tra le menzioni. L'uomo è nato libero, ma su Twitter - non ovunque, come in Rousseau - è in catene. E ancora: «Vuole che le mostri Twitter?», ha risposto proprio stamane Laura Ravetto, Pdl, a un giornalista che le chiedeva un parere su Prodi. Come il suo elettorato stesse lì dentro, nel telefonino.
Se insomma fino a ieri i politici erano tutti tecnoignoranti o tecnofobici, così si diceva, oggi sarebbero tutti tecnoschiavi, da mane a sera con lo smartphone in mano a scorrere i tweet che li riguardano. Così fosse non stupirebbe, visto che i media li hanno imbottiti per mesi con la terribile balla che «le elezioni si vincono in rete» (cui si aggiunge l'altra, altrettanto terribile, che Grillo abbia trionfato per via della rete). E che, a dire una parola fuori posto (un twitter invece di un tweet, per esempio: molto peggio, dal punto di vista mediatico, che non sapere assolutamente nulla dell'ultimo documento economico-finanziario), si finisce nella schiera dei dannati. Insomma, si sarebbero convinti di essere costantemente sotto il giudizio del tribunale popolare 2.0. Mentre scrivo, Stefano Ceccanti (costituzionalista del Pd) ha appena finito di sostenere a Rainews24 - come giustificandosi - che «i grandi elettori sono connessi alla propria base tramite Facebook e Twitter, e hanno meno autonomia del solito».
Sarà. Ma sugli influentissimi social media non ho visto grandi campagne di mobilitazione in favore di Romano Prodi - che pure è diventato il candidato ufficiale del Pd; nemmeno dopo lo spettacolare fallimento (sì, anche in tempo reale) di Marini. Ne ho viste invece diverse a favore di Emma Bonino. Eppure del suo nome non si sente parlare. Quanto a Rodotà, flash mob organizzati via Facebook, raccolte firme, petizioni e - non ultima - l'offerta di una possibile «collaborazione» con il movimento (il Cinque Stelle) che fa della voce della Rete la sua unica voce, non sono bastati a convincere la dirigenza dei democratici fosse una buona idea appoggiarlo. Insomma, se questo significa avere «meno autonomia del solito» non mi sembra che le catene stringano poi tanto, intorno al collo.
Che si stia, al solito, esagerando? Sofri sostiene (pur con la cautela di chi naviga in questi temi da un pezzo) che senza la presenza continua e costante dei social media nel dibattito pubblico (e nella politica stessa) «Marini sarebbe diventato Presidente della Repubblica». Ma siamo proprio sicuri che noi, senza Twitter, saremmo stati «intenti a cenare e fare altro» mentre i partiti, nelle segrete stanze, avrebbero potuto continuare a fare i loro porci comodi? Sicuri che quella scelta, nel Pd, non sarebbe comunque sfociata nella tensione del Capranica? Il gioco dei controfattuali non è chissà che appassionante, ma quantomeno ha il pregio di evidenziare che c'è il rischio di dare troppo peso al fattore tecnologico (i social media) e troppo poco a quello umano e politico (le ragioni che hanno spinto così tanti militanti ed elettori di centrosinistra a riversarsi sui social media per criticare la scelta dei dirigenti).
Senza Internet, infatti, il Pd l'avrebbe scampata liscia? Può darsi. Ma qui i fattori decisivi sembrano essere la crisi economica che flagella gli italiani da anni e senza prospettive di uscita, più che l'evoluzione delle connessioni a banda larga; gli indicatori che dicono che la loro fiducia nei partiti (e dunque anche nelle modalità decisionali a loro interne) e nelle istituzioni è al minimo storico, più che le sentiment analysis su Twitter; il successo straripante di Grillo, la cui retorica (comunque la si valuti) è tutta incentrata sul ridare un ruolo fondamentale al cittadino, e sul rendere nuovamente i processi democratici partecipati e trasparenti (attraverso «la Rete», il che nutre i convincimenti internet-centristi di cui si è detto sopra); e, soprattutto, anni e anni di richieste di cambiamento evase dai vertici, incapaci di ascoltare il suo elettorato oggi, nell'era di Twitter, come ieri, quando la politica aveva i tempi del telegiornale della sera e della carta stampata. A meno che, ribadisco, non si consideri la scelta di Prodi un segnale di apertura alla rete: quel segnale, semplicemente, la rete non l'ha mandato. Volerlo soddisfare sarebbe un problema di udito.
Quindi no: non credo, con Granieri, sia possibile affermare con sicurezza che «la rete è stata decisiva nel decidere quello che succedeva durante l'elezione del Presidente della Repubblica». Non credo, ampliando il raggio, che senza una presenza così pervasiva dei social media la politica avrebbe potuto agire indisturbata come prima, non credo avrebbe ascoltato meno i cittadini (ma quando li ascolta, tra l'altro?) e non credo nemmeno che i cittadini si interesserebbero meno di politica se farlo non significasse arrendersi allegramente (e compulsivamente) alla moda del tempo reale. Ma sono supposizioni, le mie, fondate su argomenti, intuizione e buonsenso: dati, su questo, non ce ne sono. E mi sorprende si possa avere la pretesa di emettere sentenze su fenomeni così complessi non solo quando non è sedimentato del tempo per rifletterne o accumulare dati migliori, ma addirittura quando l'evento di cui stiamo parlando - l'elezione del presidente della Repubblica - è ancora in corso.
Mi lascia poi perplesso leggere, come nel commento di Martinetti, continue metafore e riferimenti che rivelano una chiara sudditanza tecnologica - dei media, prima che della politica. Quando si elogia l'incisività di Matteo Renzi e l'autore scrive che è «come se parlasse istintivamente per tweet» (sicuri sia un complimento?), per esempio. Ma soprattutto quando Martinetti mette a nudo, con estrema innocenza, che è il moto perpetuo di Twitter a guidare la costruzione delle pagine del quotidiano: «da una parte», si legge, «dovevamo cristallizzare sulla carta un timone che reggesse il progetto del quotidiano da mandare in edicola per l’indomani, dall’altra avevamo quei prolungamenti delle braccia che sono diventati i nostri smartphone in ebollizione crescente sull’evento più importante che ci raccontavano una realtà in mutazione continua».
Può darsi, ma per ciò che accadeva fuori, non dentro la rete: lì era tutto chiaro dall'inizio (caro Pd, ti stai suicidando). Senza contare che i retroscena e le indiscrezioni venivano sempre e comunque da giornalisti, come prima degli smartphone; i fatti, pure. Insomma, siamo proprio sicuri che sia indispensabile restare sempre immersi in quel mare di opinione pubblica istantanea - e che non sia più utile, per esempio, frequentare di più il mondo che un tempo avremmo definito reale - per comprendere a fondo cosa ci circonda? Specie dopo lo spettacolare fallimento dell'informazione con le elezioni 2013, ne dubito. E, per quanto la politica (ma quanta, poi?) abbia preso a scambiare la realtà con la rete, e dunque sia a sua volta dentro la bolla, non bisogna dimenticare che ha sempre un modo per ritornare coi piedi a terra: i risultati elettorali. Fino a quando saranno determinati in televisione, più che su Internet, non c'è pericolo la classe dirigente si ritenga interamente tecnoschiava. Di certo, piuttosto, può farle comodo imparare a barattare una oscura e fallimentare trattativa politica con una - prontissima! - redenzione digitale. Basta non cascarci.