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L’attesa di Berlusconi presidente è essa stessa Berlusconi presidente

15 Gennaio 2022 7 min lettura

L’attesa di Berlusconi presidente è essa stessa Berlusconi presidente

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E così nel gennaio 2022 dobbiamo parlare dell’ipotesi che Silvio Berlusconi possa diventare presidente della Repubblica. O quanto meno, del fatto che lui creda molto a questa possibilità, e che di conseguenza ci credano - o fingano molto bene - tutta una serie di parlamentari, di persone retribuite direttamente o indirettamente dalla famiglia Berlusconi.

A suggellare l'agiografia del capo cui le reti Mediaset si sono dedicate nelle ultime settimane, è arrivata nei giorni scorsi l'iniziativa di Forza Seniores, il dipartimento di Forza Italia che raccoglie gli over 65 iscritti al partito, con una pagina uscita sul Giornale (di proprietà della famiglia Berlusconi). Nella pagina si incensano i risultati ottenuti da Berlusconi, tra cui la “fine della guerra fredda” con l’accordo di Pratica di Mare. La mitomania dei piazzisti al potere spacciata per rivoluzione salvifica: si legge anche, infatti, di come il nostro abbia evitato al paese la nascita di un “regime illiberale”, ed è subito 1994.

Chi si loda s’imbroda, verrebbe da dire. Ma se siete nati dopo gli anni ‘80 non preoccupatevi: è tutto grottescamente normale, purtroppo. Anche i titoli sulle telefonate che iniziano con “Salve, sono quello del bunga bunga”, o sulla “Operazione Scoiattolo”. Negli anni ‘90 quando Berlusconi annunciò la mitica “discesa in campo”, in molti sghignazzarono, soprattutto a sinistra, mentre in quella vasta area che va dai moderati all’estrema destra, passando per i “moderati” (quelli che sono di destra ma han troppo pudore), si intravide una palingenesi miracolosa, la cosiddetta “rivoluzione liberale”. Non la rivelazione di un messia laico, quanto piuttosto la possibilità di poter finalmente sbracare, tra una battuta sconcia e un appalto agli amici - cosa c’è di meno liberale di un monopolista che si butta in politica per fare lobby di sé?

È così che iniziano le tragedie in politica: tra i sorrisetti furbi di chi pensa di saperla più lunga e gli sguardi imbarazzati o perplessi, mentre avanza l’idolatria del nuovo istrione di turno, il cui circo permanente rende arduo coltivare scetticismo o disincanto, anche solo per il frastuono continuo. L’istrione così riesce a occupare l’immaginario di un intero paese, che o per amore o per odio non riesce a fare a meno di lui. A star dietro all’istrione c’è del resto da mangiare per tutti, o quanto meno per chi vuole contare. Se si capisce questo, si capisce anche che non ci vuole molto, poi, a strisciare fuori dall’inconscio di un popolo, e tornare sotto i riflettori, non importa quanto tempo sia passato. L’immutabilità politica di fondo, nascosta tra apparenti cambi di casacca, nuove retoriche e riposizionamenti, sta tutta in questo video del Terzo Segreto di Satira.

Oggi possiamo dire, ripensando a quel ventennio e più: era il segno dei tempi che sarebbero venuti. Non solo in Italia, se pensiamo all’America di Trump, alla Gran Bretagna di Johnson, o al Brasile di Bolsonaro, se consideriamo come gli interessi privati in politica, la cleptocrazia che erode la democrazia liberale, la paludosa e ambigua commistione senza soluzione di continuità, siano diventati norma - a meno che non vogliate davvero credere, per dirne una, che un senatore che fa conferenze retribuite per un regime stia svolgendo una missione diplomatica. Del resto, quanti di quelli che hanno retto il gioco (un po’ come i compari nelle truffe) all’epoca sono ancora lì, a spiegare in tivù, sui giornali, nei libri, cosa dovrebbe fare la sinistra per vincere, a denunciarne le “derive illiberali” (ma fatevi due chiacchiere con un giornalista ungherese o una studente di Hong Kong, invece di appestarci con la fuffa) a offrire a lettori considerati infanti una pappetta reazionaria? E quanti, di quelli che a sinistra si sono comodamente posizionati dalla parte della ragione, però sedendosi a tavola alla sinistra del re? Ogni tanto avrebbero potuto provare a pagare il conto di quelle cene, o a declinare l’invito, o a cambiar commensali. A mettere alla prova il divario classista tra retorica e prassi.

Questo è prima di tutto un paese disgraziato perché incapace di cambiare repertorio. Al massimo ogni tanto si svecchiano gli interpreti, cooptando quelli più simili alla generazione che li ha preceduti. I cambiamenti, quando avvengono, sono più simili a una grazia che arriva non si sa da dove, se non tra le maglie larghe di una cultura del potere che alla fin fine non sa di essere ottusa, e fa passare i più stoici o i più folli. C’è, prima di ogni analisi politica, un deprimente senso di stanchezza che cala sulla testa e rende gravoso il respiro, nel leggere i vari giochini attorno alla nomina del prossimo presidente della Repubblica, di cui il nome di Berlusconi è un tassello tutt’altro che anomalo. C’è prima di tutto un senso di resa a dover raccogliere firme contro l’ipotesi, a dover dedicare copertine di settimanali, a ricordare curriculum giudiziario e affiliazioni (“la vergogna della candidatura al Quirinale del pregiudicato Berlusconi”, scrive Flores d’Arcais). O anche solo a provare a calare un briciolo di razionalità negli schemi. Anche non ridendo e non scherzando, stiamo pur sempre parlando della prima carica dello Stato.

Non avverrà mai, ma sarebbe doveroso che a un certo punto, un pezzo significativo di chi negli anni ‘90, voleva spiegarci questa fantomatica “rivoluzione liberale”, e ancora oggi regge il gioco a un sepolcro incerato, dicesse “scusate, o per ingenuità o per convenienza abbiamo dato credito alla stronzata del rischio di un regime comunista in Italia, e ci siamo trovati col Movimento sociale al governo, ma alla fine faceva gioco posizionarsi come anticomunisti - fa gioco persino oggi!”. Ma non succederà mai, perché nei giri che contano “l’autocritica” è un tormentone, un gaslighting culturale che si rivolge agli altri - di solito a chi sta più in basso, o più a sinistra. Non per altro, ma perché in nome di questo credo religioso - la rivoluzione liberale in un paese malato d’oligarchie -  abbiamo assistito via via a vari presunti salvatori della patria, e alla fine la panzana ha completato l’orbita e siamo tornati al punto di partenza. Non accadrà, perché poi nel frattempo, un po' come quelle famiglie dove invece di problematizzare il genitore abusivo si problematizzano gli altri membri ("se fai così certo che ti rifila le scoppole!"), si trova spazio anche nel recitare, fuori da realtà politiche specifiche - di contesti pratici - il ruolo di quelli che a sinistra devono dire che la sinistra deve fare autocritica, purché si usi un certo vocabolario. A memoria, avete mai sentito dibattiti sulla destra che deve fare autocritica sull'immigrazione, o sulla libertà di espressione, o sul proibizionismo, o sul diritto di sciopero, o sui diritti delle donne, avete mai letto lenzuolate su lenzuolate a riguardo? Avete mai assistito a un cerchiobottista che dà un colpo solo alla botte, ma un colpo bello sodo e forte? "Eh ma loro son così, che c'entra" vi diranno, intanto che guardinghi cercate di capire se sta per arrivarvi l'ennesima scoppola.

E così ci troviamo a discutere dell’ipotesi di una persona il cui profilo politico avrebbe suggerito il pensionamento e l’archiviazione storica, ma che essendo in buona compagnia non può che restare al suo posto. Troppo lunga sarebbe la schiera dei pensionabili per raggiunti limiti di decenza. E a chi ha voglia di improvvisare dibattiti, anche solo per dire “ma quale decenza, il problema è un altro”, o per specchiarsi nella propria intelligenza, viene da dire solo “no”, e passare oltre, lasciandosi intrappolare in questa palude disfunzionale per il minor tempo e spazio possibili.

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Perché casomai ce ne fossimo dimenticati, siamo in presenza del vero post-modernismo: l’attesa di Berlusconi presidente è essa stessa Berlusconi presidente. Un giocare continuamente attorno al palco della rappresentazione, lavorando sulle meta-narrazioni, sul simbolo che assorbe ogni esperienza, sulla centralità totalitaria del palco che ottenebra ciò che sta lontano dalle luci artificiali. Fino a sentirci magari storditi perché troppo sazi di questa sarabanda di significati, ma allo stesso tempo privi di una direzione precisa, di un senso che arrivi oltre quel gioco ridanciano, sghignazzante. Ancora affamati, senza sapere il nome del cibo che manca. Ma non importa, perché subito sul palco si replica un altro spettacolo, anche perché il palco sa moltiplicarsi e riprodursi altrove, eternamente centrale ed eternamente repressivo verso il periferico. Come dimostra anche l’attenzione che subito la stampa straniera si è prodigata a rivolgere all’ipotesi che “Mr Bunga bunga” diventi presidente. Anche solo per la ridanciana o superiore convenienza che permette di distogliere dagli scandali sessuali di casa propria, come quello che chiama in casa il principe Andrew, Duca di York, coinvolto nello scandalo Epstein.

C’è chi invece, come Thom Yorke, leader dei Radiohead, sposato con un'attrice italiana, ricorda chiaramente la puzza di cadavere sotto la tavola imbandita. “Let the lights down low / Bunga bunga or you’ll never work in television again” (Lascia che si abbassino le luci / Bunga bunga o non lavorerai più in televisione), canta nel nuovo singolo uscito a inizio anno per i The smile. Chi vuol vedere vede, chi vuol sapere sa, e chi ha buona memoria trova parole perlomeno schiette. Tanto sul palco quanto nelle periferie, c’è davvero molto spazio lontano dalla triste, ennesima riedizione di questo asfittico patriarcato color azzurro viagra.

Immagine anteprima: Niccolò Caranti, CC BY-SA 4.0, via Wikimedia Commons

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