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Violenza e serial: il caso di Slovo patsana, la serie tv russa ai tempi della guerra

20 Dicembre 2023 8 min lettura

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Violenza e serial: il caso di Slovo patsana, la serie tv russa ai tempi della guerra

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di Ksenia Filimonova*

Nelle ultime due settimane in Russia vi è un fenomeno particolare, le questioni culturali appaiono sulle prime pagine dei media e nei social network. Si discute tanto su più cose, sia tra le autorità che tra i cittadini comuni, e ovviamente la prima questione riguarda le elezioni presidenziali del prossimo marzo, che coinvolgono anche i volti noti, quindi anche della cultura. Come sempre, nella squadra dei fiduciari, che rappresentano il candidato durante la campagna elettorale, vi sono artisti, sportivi, musicisti, accomunati dalla fedeltà al potere, e tra i componenti del gruppo vi è il direttore del teatro Oleg Tabakov, l’artista e regista Vladimir Mashkov, il quale all’inizio dell’operazione militare speciale ha fatto affiggere sulla facciata dell’edificio, posto in una delle strade centrali di Mosca, l’Anello dei giardini, una enorme Z.

Mashkov è una figura discussa nel mondo teatrale, nella stessa settimana è stato eletto (senza concorrenti, ritiratisi dalla corsa) presidente dell’Unione degli artisti di teatro. Si tratta di un dettaglio importante per capire come cambia la cultura russa in diretta sotto i nostri occhi e di come la verticale del potere, da Putin ai teatri, garantisca il controllo dell’ideologia, del repertorio e delle sceneggiature, e un altro esempio è la nomina di Valerij Gergiev, famoso direttore d’orchestra il cui legame con il presidente è noto, a capo del teatro Bolshoi.

Se quanto avviene nella direzione dei teatri riguarda le autorità e i loro equilibri interni, tra la gente comune, in assenza di film stranieri (anche loro non arrivano più in Russia dall’inizio della guerra), il piccolo schermo e i serial son diventati popolarissimi; l’accesso a Netflix è diventato problematico, però le piattaforme russe producono una gran quantità di serie, spesso di buona qualità. Nell’anno che volge al termine vi sono state una serie di produzioni importanti sulla criminalità giovanile, dove l’attenzione è sui delitti legati alla droga, a internet, alle truffe e così via, cioè ai giovani d’oggi che cercano “percorsi alternativi” per risolvere i propri problemi. Ma ad aver avuto un effetto esplosivo è stato il serial “Slovo patsana. Krov na asfalte” (“Parola di ragazzo. Il sangue sull’asfalto”): se ne parla sui social network, viene denunciato all’Autorità russa delle telecomunicazioni, il Roskomnadzor, c’è chi lo elogia e chi lo detesta.

Di cosa parla la serie?

La serie è tratta dal libro di Robert Garaev “Slovo patsana. Kriminalnyj Tatarstan 1970-2010-kh” (Parola di ragazzo. Il Tatarstan criminale, 1970-2010). Il regista Zhora Kryzhovnikov (nome d’arte di Andrey Pershin) è famoso al grande pubblico per altri due serial di successo, “Gorko” (2013) e “Zvonite Di Kaprio” (2018): la nuova fiction è stata girata con finanziamenti statali forniti dall’Istituto russo per lo sviluppo di internet, struttura che fornisce fondi a “contenuti patriottici” e oggi, assieme al Ministero della Cultura, unico ente di sostegno al cinema russo. Il serial è basato su avvenimenti realmente accaduti e racconta delle guerre tra le bande criminali giovanili a Kazan durante la transizione dall’Unione Sovietica alla Russia.

Alla fine degli anni Ottanta nella capitale della Repubblica autonoma socialista sovietica tatara (oggi Tatarstan) si verificò quel che le forze dell’ordine e i giornalisti chiameranno “fenomeno di Kazan”. La città venne divisa in zone da gruppi criminali, la cui base in gran parte era costituita da adolescenti e giovanissimi. L’epoca era particolare, l’Unione Sovietica iniziava a collassare, la guerra in Afghanistan, la perestroika e la catastrofe di Chernobyl avevano contribuito ad avviare il processo di crollo delle istituzioni che non riuscivano più a garantire il controllo di tutto il sistema, e in questo contesto sorsero varie bande. A Mosca quelli erano gli anni dei “lyubera”, ragazzi sportivi della città di Lyubertsy, confinante con la capitale dove venivano per attaccare i “neformaly”, ovvero metallari, hippy, punk e appartenenti a altre sottoculture giovanili; invece a Kazan erano gli adolescenti a raggrupparsi sotto la guida di giovani, spesso passati attravero l’esperienza della guerra in Afghanistan e quindi con una buona conoscenza delle armi. Il salto di qualità avviene negli anni Novanta, quando si formano le bande criminali organizzate (in russo note con la sigla Opg), che parteciperanno attivamente alla nascita del capitalismo alla russa.

Il protagonista del serial è un ragazzo, Andrey, unitosi alla banda degli Universamskie (da Universam, supermercato) perché minacciato e oggetto di richieste di soldi dai componenti di un altro gruppo: la sua storia in realtà è l’esperienza dell’autore del libro, capitato in questo modo nell’ambiente criminale, dove ha trascorso due anni. A comandare i ragazzi, alcuni ancora bambini, è Vova Adidas, giovane veterano della guerra in Afghanistan, sempre vestito con la telnyashka, la maglia a righe in uso nelle forze armate sovietiche (e poi russe) o in divisa quando è necessario presentarsi bene per far colpo – dopotutto, nessuno avrebbe mai offeso un militare.

Vi sono parecchi momenti già diventati meme per Instagram e Tik Tok: “i ragazzi non si scusano”, “Ricordati, ora sei un ragazzo, ora sei in strada, attorno a te ci sono solo nemici” e anche la colonna sonora del serial è diventata virale, da “Piyala”, canzone in tataro del gruppo Aigel (escluso dai titoli di coda, perché ha preso posizione contro la guerra in Ucraina ed è stato costretto ad emigrare dopo la cancellazione del tour previsto nelle città russe) alle band di culto Laskovyj Maj (composto da ragazzi cresciuti negli orfanotrofi) e Mirazh.

Perché tanta attenzione dell’opinione pubblica? 

La prima accusa presente nelle numerose denunce al Roskomnadzor è la presunta romanticizzazione della criminalità: i personaggi sembrano così attraenti che gli spettatori non riuscirebbero a distinguere in essi il male. È vero, gli attori sono molto bravi, sono riusciti a rendere i personaggi in modo molto realistico, però il serial è stato contrassegnato come vietato ai minori di 18 anni.

La generazione over 45 è rimasta colpita perché molti ricordano quel tempo e quella sensazione di orrore di fronte al crollo di quel che sembrava eternamente solido. “Non vogliamo ricordare quegli anni, sono stati terribili” dicono quelle persone nati sotto Breznev e cresciuti durante la perestroika e i “crudeli” anni Novanta. Per capire bene questo sentimento si può leggere “Tempo di seconda mano” di Svetlana Aleksievič, scrittrice bielorussa e Nobel per la letteratura nel 2015: le voci di chi ha vissuto quell’epoca, senza commenti né opinioni dell’autrice, formano uno strano racconto di come sono crollati gli ideali, i valori e le certezze, del senso di perdita, di rassegnazione e di esser stati truffati, sentimenti che prevalgono tra le persone passate attraverso la perestroika, le riforme di fine anni Ottanta e l’esplosione della criminalità e l’arricchimento senza scrupoli dei Novanta. Boris Grebenshchikov sempre in quel tempo cantava: “Dove sono i giovani tamarri che ci toglieranno dalla faccia della terra”, rivolgendosi ai suoi fan.

Chi invece ha più di vent’anni oggi non era ancora nato ai tempi della caduta dell’Unione Sovietica e vede nella serie il lavoro compiuto dal regista e dagli attori, i dialoghi facilmente trasformabili in meme da usare sui social e una meravigliosa colonna sonora; gli adolescenti interpretano il tutto come l’ennesima versione di “Hunger games” o “Squid game”, dove la partecipazione spesso avviene a costo della vita, e questo si comprende guardando il video girato da alcuni ragazzi nel distretto di Sarman in Tatarstan, dove vi è il cosplay di “Slovo patsana”, dalla rissa alle immagini, con l’effetto tremolante delle videocassette, insomma il cinema come la vita e la vita come il cinema.

Già in passato c'erano state serie tv sul mondo criminale, dove a essere protagonisti non erano i poliziotti ma killer e banditi di ogni genere non privi di fascino: “Banditskij Peterburg” (tratta dall’omonimo libro del giornalista Andrey Konstantinov), “Brigada” (nota anche in Italia), “Bumer” (da cui è tratta una citazione diventata d’uso comune – “Non siamo noi a esser così, è la vita”) e poi i due film “Brat” e “Brat 2” di Alexey Balabanov.

Ed ecco ora “Slovo patsana”. In Russia, come in gran parte del mondo, se guardiamo ai podcast e alle produzioni presenti su Netflix e altre piattaforme, c'è una forte richiesta di pellicole e serie di true crime; inoltre, per la generazione degli anni Novanta, tra le trasmissioni più seguite c'erano “Kriminalnaya Rossiya” e “Sledstvie veli” (Il caso è stato condotto) del giornalista Leonid Kanevsky, in più i detenuti oggi vengono reclutati per andare al fronte in Ucraina, da dove ritornano sei mesi dopo da eroi e ricominciano ad ammazzare e stuprare, ed è particolare vedere come la realtà odierna si vada a incrociare con la serie, dove Vova Adidas torna dalla guerra e non trova alcuna prospettiva se non quella criminale. Tra l’altro mi ricordo molto bene quando a scuola venne un veterano, un parà, con la stessa uniforme del protagonista, appena tornato dall’Afghanistan, e ricordo le sue parole sul “dovere internazionalista”, su come fosse spaventoso lanciarsi con il paracadute non la prima, ma la seconda volta, e le domande dei ragazzi in classe su come erano i mujaheddin. Sembrava tutto così normale, nessuno pensava che quest’uomo era tornato dall’inferno, con la sindrome post-traumatica, allora era un eroe e in questo senso “Slovo patsana” sembra un avvertimento per un paese che sembra non aver imparato la lezione: presto o tardi i soldati torneranno, e, lasciati a sé stessi, andranno a riempire le pagine e i siti di cronaca nera, e a pensarci è quanto ha illustrato Balabanov nei suoi film – Danila Bagrov, il protagonista, aveva combattuto in Cecenia.

Nella Russia di oggi è comune accusare internet, i videogames e la cultura di massa di essere responsabili della violenza giovanile, e ogni avvenimento di cronaca che coinvolge degli adolescenti viene collegato a giochi, videoclip o film, senza alcuna presa di responsabilità né della società né delle famiglie. Nel 2018 sono stati bloccati su YouTube e sul social Vkontakte i video dei fan di Oxxxymiron, rapper dichiarato agente straniero, girati con la canzone “Poslednij zvonok” da cui son state tagliate delle scene prese dal film estone “Klass”, dove si racconta di due adolescenti marginalizzati, vittime di bullismo e poi autori di una sparatoria a scuola. Il videoclip è stato inserito nella lista dei materiali estremisti, Oxxxymiron non vive più in Russia ormai da tempo e questa storia è solo una delle tante nella interpretazione della violenza giovanile come frutto dell’influenza occidentale o di internet e non è causata dal contesto scolastico o familiare.

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Da dove vengono allora la romanticizzazione del mondo criminale e la simpatia per i banditi? La risposta, come spesso accade, deve essere cercata nella storia e nella letteratura: nelle “Memorie da una casa di morti” di Dostoevskij e in “Resurrezione” di Tolstoj vediamo questo sentimento particolare di pietà verso i deportati inviati in Siberia, a cui vengono dati durante le soste cibo e soldi. 

Dicono che ora starebbero rimontando le ultime due puntate, addirittura rigirando alcune scene a causa del clamore attorno alla serie, staremo a vedere.

*Ksenia Filimonova insegna Lingua e letteratura russa presso l’Università Orientale di Napoli, si occupa della letteratura concentrazionaria in Unione Sovietica e in passato ha lavorato per il Dipartimento della cultura della città di Mosca. Cura il canale Telegram Non solo Dostoevskij

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