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Perché la Polonia e i paesi baltici vogliono il riarmo

2 Aprile 2024 19 min lettura

Perché la Polonia e i paesi baltici vogliono il riarmo

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L’economia polacca è tra le più vitali del nostro continente. Quest’anno dovrebbe crescere, secondo la Commissione europea, del 2,7%, e addirittura del 3,2% nel 2025. A trainare il PIL sono prima di tutto i consumi, ma contribuisce anche il KPO (Krajowego Planu Odbudowy i Zwiększania Odporności), cioè il piano nazionale di ripresa e resilienza varato da Varsavia. In effetti per le strade di grandi città come Poznań e Bydgoszcz, roccaforti del benessere nella Polonia A (cioè la Polonia a ovest del fiume Vistola, più europea e moderna della Polonia B, che invece sta a est) lo shopping è sovrano, e ovunque ci si imbatte in cantieri e in squadre di operai. Oltre a tante bandiere nazionali bianche e rosse si avvistano numerose bandiere blu e gialle, e nelle librerie si vendono saggi sulla guerra in Ucraina. «L’economia polacca è forte. E lo sarebbe ancora di più se non ci fosse la guerra – mi raccontava a novembre un manager pubblico di Danzica –. È un freno alla crescita, perché spaventa una parte degli investitori, e penalizza le start up, che sono business ad alto rischio. Chi ha soldi preferisce investire in asset più sicuri, immobili ad esempio».

Per chi vive ad Elbląg, città a una cinquantina di chilometri dall’oblast di Kaliningrad (semi-exclave russa quartier generale della Flotta del Baltico) la crescente aggressività del regime russo è fonte di grande inquietudine. Come mi spiegava, sempre a novembre, una studentessa universitaria, «se un giorno scoppia una guerra con la Russia, noi siamo i primi a essere invasi». Non è la sola a pensarlo in Polonia: secondo un recente sondaggio il 56% dei polacchi teme una guerra tra la NATO e la Russia. È questo che sfugge a molti europei dell’ovest e del sud: in Polonia, così come in Estonia, Lituania, Lettonia, Finlandia e Svezia (in poche parole, in buona parte della regione baltica), la Russia è percepita da un numero crescente di persone come una minaccia sempre più concreta.

E se la Svezia non combatte una guerra contro Mosca dal 1809, e la Finlandia è stata soggetta alla Russia soltanto dal 1809 al 1917 (pur non avendo mai dimenticato il trauma della “guerra d’inverno” lanciata contro di essa da Stalin nel 1939), nel caso di estoni e lituani, lettoni e polacchi la consapevolezza di secoli di dominazione russa, e la memoria di tragedie vicine e lontane, amplificano l’attenzione verso una guerra che, nel caso della Polonia, avviene in uno Stato confinante, culturalmente affine, con cui nel 2012 sono stati organizzati congiuntamente i campionati europei di calcio. 

Le tre spartizioni della Polonia-Lituania, di cui la Russia fu corresponsabile; la repressione dell’insurrezione del 1863, e le deportazioni in Siberia (lo stesso Józef Piłsudski, giovanotto, conobbe il confino siberiano, rimanendone debilitato a vita); il massacro di Katyn del 1940, dove oltre ventimila membri dell’Intelligencija polacca furono uccisi dall’NKVD sovietico; la sanguinosa repressione stalinista del dopoguerra, che portò alla deportazione nei gulag e all’assassinio di molti membri dell’AK, l’Armia Krajowa clandestina polacca che combatté i tedeschi; I decenni cupi del comunismo e della “sovranità limitata”: queste sono soltanto alcune delle cicatrici lasciate nella memoria e nella storia della Polonia dalla dominazione di Mosca. 

Nel caso di lituani, estoni e lettoni i traumi novecenteschi sono persino più profondi. Le tre repubbliche, indipendenti (al pari della Polonia) dopo la prima guerra mondiale, furono illegalmente annesse dall’URSS nel 1940; le deportazioni e uccisioni che si verificarono tra il 1940 e il 1941, e soprattutto dopo la rioccupazione sovietica nel 1944, falcidiarono la popolazione. Nel marzo del 1949 oltre 20mila estoni, 30mila lituani e 40mila lettoni furono deportati nei gulag, compresi moltissimi bambini, donne e preti (un post di pochi giorni fa al riguardo su X del ministro degli Esteri estone ha ottenuto oltre un milione di visualizzazioni, facendo storcere il naso a non pochi per i suoi parallelismi con l’attuale situazione ucraina e per la sua frase d’esordio: “La Russia ha una lunga storia di mancanza di rispetto per le vite umane e per le loro case”). 

Come ricordano spesso a Riga, Tallinn e Vilnius, tra il 1940 e il 1953, anno della morte di Stalin, furono deportate dalle tre repubbliche oltre 200mila persone, il 10% della popolazione complessiva. Forse possono sembrare numeri piuttosto piccoli agli europei dell’ovest e del sud, abituati a commemorare le carneficine gigantesche della Prima e della Seconda Guerra Mondiale, e migrazioni forzate e deportazioni ben più colossali (oltre alla Shoah, pensiamo alle dimensioni dell’esodo degli italiani d’Istria, Fiume e Zara, stimato intorno alle 250mila persone). Ma per i tre paesi baltici, dove la popolazione totale non supera oggi i sei milioni di persone, 200mila di uomini e donne sono una catastrofe demografica. Non solo. La denazionalizzazione dei tre paesi, che ad esempio in Lettonia fece salire la percentuale di popolazione russa, bielorussa e ucraina dal 12,1% del 1935 al 42,3% del 1989, fu perseguita dal Mosca in modo sistematico: autentica ingegneria sociale. 

Ma non sono stati solo i decenni di dominazione sovietica ad aver segnato la psiche collettiva di estoni, lituani e lettoni (si veda in merito il cortometraggio estone Body Memory). In realtà sin dal Medio Evo le popolazioni baltiche hanno sempre vissuto in condizioni di subalternità, e intanto i dominatori si susseguivano: la Chiesa cattolica, i Cavalieri portaspada e i Cavalieri teutonici, i danesi, gli svedesi e, ovviamente, la Russia zarista (che già nel 1721, con la pace di Nystad a conclusione della Grande guerra del nord, otteneva l’Estonia, la Livonia e l’isola di Ösel, oggi chiamata Saaremaa). 

Popoli che per secoli sono stati oggetto della cosiddetta grande storia, la histoire-bataille dei re e degli imperatori, dei generali e dei dittatori, con la fine del comunismo, e l’ingresso nella NATO (nel 1999 per la Polonia, nel 2004 per estoni, lettoni e lituani) e nell’Unione Europea (nel 2004) hanno sentito di diventare, finalmente, padroni del proprio destino. Quello che la NATO rappresenta per un polacco o un estone è difficilmente comprensibile per un francese o un italiano, considerando che non pochi (specie a sinistra) associano la NATO solo a Gladio, all’imperialismo statunitense, a vicende dai contorni poco definiti. Come dichiarò nel 2002 al vertice di Praga, Vaira Vīķe-Freiberga, allora presidente della Lettonia, l’invito a entrare nella NATO rappresentava per il suo popolo «un segno di giustizia internazionale», la fine delle ultime vestigia della Seconda Guerra Mondiale e delle decisioni prese da Churchill, Roosevelt e Stalin a Teheran nel 1943 e a Yalta nel 1945, la garanzia della sicurezza del paese: «Penso che questo vertice NATO possa essere sintetizzato in una parola: speranza. […] Noi lettoni vorremmo costruire il nostro futuro sulla roccia della certezza politica, non sulle sabbie mobili dell’indecisione. Non vogliamo trovarci in una specie di zona grigia di incertezza politica». 

Qualche giorno fa il ministro degli Esteri lituano, Gabrielius Landsbergis, ha scritto su X che «nell’anniversario dell’entrata della Lituania nella NATO, ci guardiamo indietro e vediamo la magica trasformazione delle nostre vite ed economie che la protezione della NATO ha permesso, e pensiamo che gli ucraini meritino esattamente lo stesso». 

Ferite del passato che bruciano ancora e il neoimperialismo russo

Le relazioni tra la Russia post-sovietica e la Polonia non sono mai state idilliache. E ancora meno quelle tra Mosca e Vilnius, Riga o Tallinn. Mentre la Germania ha chiesto scusa per i crimini del nazismo (si pensi alla foto del cancelliere della Germania ovest Willy Brandt in ginocchio, nel 1970, di fronte al monumento dedicato alla rivolta del ghetto di Varsavia, o alla richiesta di perdono rivolta ai polacchi dal presidente Frank-Walter Steinmeier nel 2019) e del colonialismo (ossia il genocidio dei popoli herero e nama in Namibia), Mosca non ha mai chiesto scusa per le deportazioni e i massacri del periodo sovietico (anche se nel 2010, quando era presidente della Russia Dmitrij Medvedev, la Duma ha condannato il massacro di Katyn, incolpando Stalin e l’URSS; condanna recentemente rinnegata). 

Ovviamente Mosca non ha mai accolto le richieste di risarcimento per le vittime dei gulag da parte dei baltici, e ad esempio solo nel 2007 la Russia e la Lettonia sono riuscite a firmare un trattato per il riconoscimento dei confini. Tentativi di migliorare le relazioni non sono certo mancati: nel 2001 il presidente lituano Valdas Adamkus si recava in visita nella capitale russa e a Kaliningrad, e nel 2005 il ministro degli esteri russo Sergey Lavrov e il suo omologo lituano Antanas Valionis rilasciavano una dichiarazione congiunta positiva. Sempre nel 2005 Vīķe-Freiberga partecipava alla parata per la Giornata della Vittoria sulla Piazza Rossa di Mosca (alla pari del presidente polacco Aleksander Kwaśniewski, ma non dei colleghi di Estonia e Lituania), e ascoltava Putin dire che non si sarebbero mai più verificate guerre calde o fredde; nel 2010 il suo successore Valdis Zatlers auspicava l’introduzione il prima possibile di un regime di esenzione dal visto tra l’Unione Europea e Russia. Sempre nel 2010, in occasione della visita di Medvedev in Polonia, a Varsavia si votava a favore della creazione di un centro di dialogo e comprensione polacco-russo, e si confidava in una nuova fase delle relazioni tra i due paesi.

La strada però è sempre stata in salita. Mosca ha digerito a fatica l’entrata della Polonia nella NATO, e non ha mai accettato l’ingresso nella NATO dei paesi baltici, considerati (de facto) Stati non pienamente sovrani: “vicino estero”, per citare un’espressione molto utilizzata dai politici russi. I frequenti riferimenti dei baltici alla durezza della dominazione sovietica e ai trattati di pace sovietico-baltici del 1920 (violati nel 1940 con l’annessione all’URSS) hanno provocato reazioni molto aspre da parte di Mosca (che ancora non ha firmato con l’Estonia un trattato sul riconoscimento dei confini come quello firmato nel 1997 con la Lituania, e con la Lettonia nel 2007). 

Esiste peraltro una profonda differenza di vedute tra Mosca, da un lato, Vilnius, Riga e Tallinn, dall’altro, in merito alla genesi e natura della statualità baltica: per la Russia (che dal 2020, secondo la Costituzione, “protegge la verità storica”) essa è frutto della secessione dall’URSS (di cui la Russia è lo Stato successore), mentre per lituani, estoni e lettoni – e per gran parte dei paesi occidentali – esiste piena continuità tra gli Stati nati dopo la prima guerra mondiale (e occupati illegalmente da Stalin nel 1940) e quelli odierni.

Nessun governo tedesco si sognerebbe di reclamare la città polacca di Wrocław (Breslavia), tedesca sino al 1945, così come nessun nostro presidente del Consiglio oserebbe mai sollevare pretese sulle croate Rijeka (Fiume) o Zadar (Zara); nel 2005 però il presidente Vladimir Putin, nel corso della crisi diplomatica con la Lettonia in merito al trattato sui confini, pronunciava delle parole che oggi suonano molto sinistre: “La Federazione russa ha perso decine di migliaia di pezzi del suo territorio storico come risultato del collasso dell’Unione Sovietica. E ora noi dobbiamo dividere di nuovo tutto? Dovremmo allora chiedere il territorio della Crimea e parti dei territori delle altre ex repubbliche sovietiche? Che ne dite [lituani] di restituire Klaipėda? Iniziamo tutti a dividere l’Europa di nuovo”. 

In effetti da diversi anni la disinformazione russa ha come bersaglio l’integrità territoriale dei tre paesi baltici, secondo modalità già viste a ridosso della prima e della seconda aggressione russa all’Ucraina, rispettivamente nel febbraio 2014 e 2022. Ad esempio il porto di Klaipėda, importante centro lituano, è stato più volte descritto dalla propaganda di Mosca come “un dono di Stalin” alla Lituania dopo la guerra mondiale (sino al Trattato di Versailles Klaipėda si chiamava Memel, e apparteneva al Reich tedesco). 

Alcuni analisti, giornalisti e persino il danese Anders Fogh Rasmussen, ex Segretario generale della NATO, hanno avvertito che prima o poi Mosca potrebbe essere tentata di recuperare Narva, città estone a maggioranza russofona al confine con la Russia. L’eventualità appare in realtà molto improbabile, almeno nel breve termine, però è vero che nel 2022 i media estoni hanno riferito l’esistenza di piani d’emergenza da parte delle autorità nel caso i russi avessero provocato un abbassamento del livello delle acque del fiume Narva, utilizzate per raffreddare le centrali a combustione della regione. Il revisionismo geografico di Putin non riguarda solo i baltici: nel 2023 ha definito i territori occidentali della Polonia, sino al 1945 tedeschi, “un regalo di Stalin” (trascurando di dire che il dittatore di origine georgiana attribuì all’URSS vasti territori polacchi).

È noto l’uso (geo)politico e imperiale della storia da parte del regime putiniano, funzionale a legittimare e anzi razionalizzare azioni revisioniste e neoimperialiste. La manipolazione del passato funziona bene quando si tratta dei baltici, della Polonia e dell’Ucraina anche perché a volte può incunearsi nelle crepe di una “memoria divisa”. Un esempio è ciò che accadde nel 2007, quando le autorità estoni decisero di spostare il Soldato di bronzo (monumento sovietico ai soldati dell’Armata rossa, liberatori di Tallinn e vincitori dei nazifascisti) dal centro della capitale a un cimitero militare. La statua non godeva di un favore unanime, dato che gli estoni – come si è visto sopra – non hanno mai visto nei soldati dell’Armata rossa dei “liberatori”, però la rilocazione bastò a scatenare la disinformazione russa (che accusò gli estoni non solo di voler distruggere la statua, ma anche le tombe degli eroici caduti sovietici). La minoranza russofona dell’Estonia, indignata, si mobilitò, e alla fine si verificarono violenze, saccheggi, arresti di massa e persino un decesso. Simultaneamente l’Estonia fu investita da devastanti attacchi hacker, provenienti da indirizzi IP russi, che durarono per molti giorni. 

Ovviamente il regime putiniano si erge da tempo (con significativa improntitudine) a paladino delle minoranze russofone nei paesi baltici, in particolare in Estonia e Lettonia. Mosca accusa i piccoli vicini di trattare chi è madrelingua russo in modo “disumano”. Benché sia vero che, specialmente negli ultimi anni, le autorità hanno posto dei limiti ai diritti in primis linguistici delle minoranze, è falso che in Estonia, Lituania o Lettonia viga una sorta di apartheid contro i russofoni. In Lettonia per esempio una parte di loro non ha ancora la cittadinanza, ma per acquisirla basta superare un esame di conoscenza della cultura e della lingua lettoni. Come ha ricordato lo scrittore Jānis Joņevs nell’articolo “Sì, no, forse”, apparso nel 2023 sulla rivista The Passenger (Iperborea), “i non cittadini lettoni godono di tutta la protezione e del sostegno da parte dello stato, soltanto non possono partecipare alle elezioni”. In ogni caso per anni il primo partito del Saeima, il parlamento monocamerale lettone, è stato il Saskaņa (Armonia), forza di centrosinistra (sempre all’opposizione) molto votata dai russofoni; oggi a raccogliere i voti di coloro che parlano russo è invece il giovane partito di centrodestra Stabilitātei (Per la stabilità). 

La maggior parte dei russofoni è composta da leali cittadini (o residenti) delle tre repubbliche, e hanno condannato l’invasione dell’Ucraina. Tuttavia, Mosca non esita a cercare di weaponizzare le minoranze, e paradossalmente è questo soprattutto a mettere a rischio il futuro dei “fratelli” d’oltreconfine. Ha destato scandalo, qualche settimana fa, l’apertura di un’indagine da parte dell’Europarlamento su un suo membro, la lettone Tatjana Ždanoka, accusata di essere una spia dell’FSB russo. E nelle cancellerie europee (o almeno in alcune) si teme che un’eventuale aggressione russa a un paese baltico possa avere inizio da un lato con un massiccio attacco hacker, in grado di bloccare le banche, i trasporti, le telecomunicazioni ecc., dall’altro con un’insurrezione di presunti gruppi secessionisti russofoni, come già visto in Ucraina.

A contribuire a un ulteriore deterioramento dei rapporti con il Cremlino è stata poi la volontà dei baltici di affrancarsi dall’energia russa. Per l’economia di Mosca l’export di greggio e soprattutto di gas è essenziale: senza, il PIL crollerebbe. Come hanno confermato a Valigia Blu un paio di politici nordici, alla Russia non è piaciuto minimamente il fatto che a Klaipėda sia attivo dal 2014 un terminal galleggiante per l’import di gas liquido naturale (LNG, nell’acronimo in lingua inglese); nel gennaio del 2023 la struttura ha ricevuto il primo carico di LNG dagli Stati Uniti. Varsavia ha deciso di seguire l’esempio di Vilnius, e nel 2016 è stato inaugurato il terminal di Świnoujście, nella Pomerania occidentale: nel 2023 il maggior fornitore di LNG sono stati gli USA, seguiti dal Qatar.  

Tuttavia, a spingere i polacchi e i baltici a cambiare totalmente la loro posizione nei confronti di Mosca è stata l’aggressione del 2014 all’Ucraina. Numerosi ricercatori, politici, esperti di cose militari, giornalisti, imprenditori, analisti e semplici cittadini hanno ripetuto per anni la stessa cosa a chi scrive: dopo l’invasione della Crimea tutto è cambiato. Quell’evento ha destabilizzato profondamente l’Europa baltica, in un modo inimmaginabile per uno spagnolo o un italiano. Lituani, estoni, polacchi e lettoni (così come svedesi, finlandesi, danesi e pure norvegesi, che confinano con ben tre paesi bagnati dal Baltico) hanno compreso una volta per tutte che il regime putiniano era deciso a tradurre la retorica sciovinista, aggressiva e anti-occidentale in realtà, e che l’invasione russa della Georgia nel 2008 non rappresentava un intervento isolato, ma l’inizio di un’escalation. Il neoimperialismo di Mosca era una realtà, il regime putiniano aveva un programma di trasformazione del continente a lungo termine. 

La reazione delle ex colonie

Si consideri la dottrina militare estone. Ancora segnata dal trauma del 1940, quando cedette alle richieste di Mosca, rinunciando a combattere e rendendo possibile una rapida annessione (con le immani conseguenze sociali e demografiche già accennate), oggi Tallinn ha un unico imperativo: rispondere subito con la forza militare  a ogni azione militare russa. Ciò che in Europa del sud e dell’ovest è letto come un atteggiamento aggressivo e poco conciliante con Mosca (o addirittura guerrafondaio), per gli estoni, i lituani, i lettoni e i polacchi è solo una lezione della storia ben appresa, e una corretta interpretazione della vera natura del regime putiniano. 

Per i baltici e i polacchi una delle cifre del regime putiniano è un’insaziabile libido dominandi. Una vittoria russa in Ucraina condurrebbe inevitabilmente a un’altra invasione. Per citare una recente dichiarazione della prima ministra estone Kaja Kallas, “[S]e la Russia vincerà, ci saranno complicazioni per la sicurezza globale, perché se l’aggressione paga da qualche parte, sarà un invito a usarla altrove”. In un intervento su Politico.eu il presidente estone Alar Karis ha ricordato che “un cartellone recentemente innalzato ad Ivangorod, appena oltre il confine dell’Estonia con la Russia, recita: Granitsy Rossii nigde ne zakanchivayetsya, i confini della Russia sono infiniti”. 

Per il politico estone la Russia misura il proprio successo usando “le metriche imperialiste dell’espansione territoriale e della forza militare”. L’invasione russa dell’Ucraina non è stata una sorpresa per Tallinn, perché “la Russia si impadronisce di tutto ciò che viene lasciato incustodito”. Ancora, “[n]on ha senso chiedersi quale paese potrebbe essere il prossimo ad essere attaccato perché, come la storia ha ripetutamente dimostrato, se ne avesse la possibilità, tutta l’Europa potrebbe essere la prossima”.

Il pessimismo baltico è collegato anche alla crisi di fiducia generata dal rischio di una nuova presidenza di Donald Trump, con la sua virulenta demagogia anti-atlantica e isolazionista e la sua fascinazione per la “democrazia sovrana” russa, e dalle troppe cautele di Bruxelles, Berlino e (sino a pochissimo tempo fa) Parigi. A Tallinn come a Varsavia, a Vilnius come a Riga non solo non c’è più alcuna fiducia nei confronti di Mosca, ma è diminuita anche la fiducia verso i partner dell’Europa dell’ovest, e si è iniziata a incrinare persino quella sorta di fede laica verso gli Stati Uniti.

Nessuno nella regione vuole correre il rischio di tornare a essere colonia di Mosca. A Varsavia in molti ricordano quello che scriveva a Churchill il generale Władysław Sikorski, primo ministro del governo polacco in esilio, nel 1943: “Tutti i polacchi […] pongono una fiducia quasi mistica nella Gran Bretagna e nella sua leadership”. Si sa come andò a finire: nonostante il contributo significativo dei polacchi alla sconfitta del nazifascismo (specie alla liberazione dell’Italia), la Polonia fu abbandonata alla mercé di Stalin. 

La convinzione di essere dalla parte giusta della storia, di comprendere le mosse della Russia molto meglio degli europei dell’ovest e del sud, ha sortito varie conseguenze. Prima di tutto ha generato un sostegno massiccio all’Ucraina. Si consideri la Polonia, ad esempio. Oltre ad accogliere con generosità i profughi ucraini, che nel complesso si sono ben integrati nella società polacca, tra il gennaio 2022 e 2024 Varsavia ha fornito aiuti militari a Kyïv per ben tre miliardi di euro: più dell’Italia (0,7 miliardi) e della Francia (0,6), e in proporzione più del Regno Unito (9,1). Ancora più degno di nota è il fatto che l’Estonia e la Lituania hanno contribuito, rispettivamente con 0,9 e 0,8 miliardi, non solo in termini relativi ma persino in valore assoluto più dell’Italia (e della Francia), pur avendo economie enormemente più piccole; la Lettonia, con 0,4 miliardi di euro, ha superato la Spagna (0,3), paese da quaranta milioni di abitanti con un’economia molto dinamica. 

I polacchi e i baltici hanno dato fondo alle loro risorse diplomatiche per cercare di convincere i partner europei più titubanti a sostenere senza se e senza ma l’Ucraina, ad esempio, al vertice NATO di Vilnius, tenutosi nel luglio del 2023. E le visite dei leader della regione negli Stati Uniti non servono solo a incontrare politici e funzionari apicali di Washington, ma anche a sensibilizzare alla causa ucraina gli elettori statunitensi di origine centro- ed esteuropea (è il caso ad esempio del passaggio di Landsbergis in Pennsylvania, dove c’è la Little Lithuania). 

I polacchi e i baltici sanno bene che una sconfitta dell’Ucraina potrebbe preludere, nel medio termine, a un’aggressione russa contro l’Estonia, la Lettonia o la Lituania. Quest’ultimo paese è collegato alla Polonia, e al resto della UE, solo attraverso il Suvalkų koridorius, il corridoio di Suwałki, stretto tra Kaliningrad e la Bielorussia: se i russi e/o i bielorussi occupassero l’area le tre repubbliche baltiche sarebbero isolate via terra dal resto del continente. Nessuno a Riga o Varsavia teme un’aggressione russa tra pochi mesi (la stessa rappresentante statunitense alla NATO, Julianne Smith, ha di recente dichiarato che un attacco russo non è imminente), però che cosa potrebbe accadere nel 2027 o nel 2028, ad esempio con Trump alla Casa Bianca e/o il Pentagono focalizzato su una possibile invasione cinese di Taiwan? «I prossimi due anni saranno decisivi – ha detto in una recentissima intervista a cinque quotidiani europei, inclusa La Repubblica, il primo ministro polacco Donald Tusk –. Se non riusciremo a sostenere l’Ucraina con attrezzature e munizioni sufficienti, se perderà, nessuno in Europa potrà sentirsi al sicuro». 

Geografia e demografia non aiutano i baltici. Estoni, lettoni e lituani sono consci che i loro paesi non hanno certo l’estensione dell’Ucraina (l’Estonia per esempio è poco più grande di Veneto e Lombardia messe insieme), e che non possono mobilitare un numero paragonabile di uomini (e donne). Tuttavia, le tre repubbliche si stanno preparando da tempo ad affrontare un attacco russo. Hanno puntato sull’innovazione militare (ad esempio, ha sede in Estonia la Milrem Robotics, celebre per il suo drone terrestre da combattimento THeMIS), hanno rafforzato le loro capacità nel dominio sempre più cruciale dello cyberspazio, e a gennaio hanno deciso di cooperare per approntare misure efficienti di contromobilità (per esempio fortificazioni, barriere fisiche e sistemi avanzati di sorveglianza) lungo i confini con la Russia, allo scopo di ostacolare e rallentare un’ipotetica invasione. Già oggi dedicano alla difesa budget significativi, ma contano di arrivare a investire il 3% del PIL nel 2025, a costo di aumentare le tasse: una percentuale ben oltre la soglia minima del 2% concordata nel 2014 dai capi di stato e di governo dei paesi NATO.  

Vogliono più NATO e più Unione Europea per sconfiggere il “bluff russo”. Vogliono che i tedeschi, gli spagnoli e gli italiani prendano davvero sul serio la minaccia russa. Il presidente lettone Edgars Rinkēvičs, per esempio, ha recentemente dichiarato al Financial Times che i paesi europei devono tornare a livelli di spesa militare “da Guerra fredda”, e che occorre una seria discussione a proposito della leva. Nel già citato intervento del presidente estone Karis si legge che è indispensabile rafforzare l’architettura della sicurezza della UE all’interno della NATO, incrementare gli investimenti in difesa, aumentare le capacità dell’industria militare e rafforzare le forze armate europee.

La Polonia, da parte sua, sta diventando un pilastro della nuova architettura della sicurezza europea. Il riarmo polacco procede spedito, grazie a investimenti in difesa pari al 4% del PIL: la politica, per quanto polarizzata, è piuttosto compatta a riguardo, e l’ossessione di Putin per la Polonia (evidente nell’intervista al giornalista statunitense Tucker Carlson, nel corso della quale il presidente russo ha menzionato il paese centroeuropeo almeno una ventina di volte) contribuisce ad alimentare le antiche paure dei cittadini polacchi. Varsavia si è mossa tempestivamente: nel 2021, ad esempio, confermava l’acquisto di 250 carri armati statunitensi M1A2 Abrams, e nel 2022 ordinava altri 116 tanks (usati), per compensare i 240 T-72 donati all’Ucraina aggredita. 

I polacchi perseguono il riarmo (a febbraio il ministro della difesa ha sottolineato la necessità per la Polonia di prepararsi in fretta alla minaccia di una guerra con la Russia) e anche loro si aspettano che gli Stati dell’Europa dell’ovest e del sud, Italia inclusa, facciano di più. A loro parere, se l’intera UE li imitasse la capacità di deterrenza europea ne uscirebbe grandemente rafforzata, e soprattutto l’Ucraina vincerebbe la guerra, grazie a cospicui invii di munizioni, armi ecc. (gli estoni hanno calcolato che se ogni paese UE contribuisse con lo 0,25% del PIL alla causa ucraina nei prossimi anni Kyïv vincerebbe la guerra). Nella già citata intervista, Tusk è stato chiaro: poiché per l’Europa sta arrivando “l’era prebellica”, il 2% del PIL per la difesa “deve essere considerato un must. Non capisco chi lo mette in discussione”. 

L’emergere della Polonia come nuova potenza militare (terrestre) del continente, con un ruolo di primo piano nel fianco Est della NATO, potrebbe comportare per Varsavia anche rilevanti vantaggi. Darebbe nuovo slancio al manifatturiero locale, che in questi anni si è sviluppato soprattutto grazie al traino dell’economia tedesca, a sua volta alimentata dall’abbondanza di energia russa a costi contenuti. Potrebbe in parte compensare anche un calo degli investimenti dall’estero, che tenderanno probabilmente a concentrarsi nelle regioni occidentali, più lontane dai confini con l’Ucraina, la Bielorussia, la Lituania e l’oblast di Kaliningrad. 

Il riarmo è poi destinato a far crescere il peso politico di Varsavia a Bruxelles, Washington, Londra, Berlino e Parigi, anche perché esso significa ulteriori acquisti di armamenti, un’allettante opportunità per i produttori statunitensi, francesi, tedeschi ecc. Al di là delle foto di Tusk con il presidente francese Macron e il cancelliere tedesco Scholz durante il recente vertice del Triangolo di Weimar a Berlino, la Polonia è sempre più attiva, ed esercita con efficacia quella che il linguaggio arrotondato della diplomazia statunitense definirebbe “leadership”.

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Per esempio, Varsavia ha aderito alla cosiddetta Schengen militare (un accordo con i Paesi Bassi e con la Germania per il transito rapido di carri armati e truppe attraverso un corridoio militare ad hoc), e per bocca del presidente Duda ha assicurato che è pronta a difendere ogni centimetro quadrato di territorio NATO, incluso quello lituano. Non si sa se le parole di Duda abbiano placato il nervosismo di pezzi della classe politica baltica, in aumento dopo le recenti vittorie russe in Ucraina. Di certo hanno sortito scarso effetto sul presidente lettone Rinkēvičs, che in un recente post su X ha scritto Russia delenda est, la Russia deve essere distrutta (aveva peraltro già scritto qualcosa del genere nel febbraio 2023). 

La frase, senz’altro improvvida (specie considerando che Rinkēvičs è stato a lungo ministro degli esteri), ha scandalizzato e spaventato molti. Non saranno però dichiarazioni del genere a provocare un allargamento della guerra, checché ne dicano certi commentatori italiani. D’altra parte non solo tutti i giorni la propaganda e la politica russe attaccano i paesi occidentali “satanici”, minacciando morte e distruzione nucleare, ma Mosca non perde alcuna occasione per tentare di intimidire polacchi e baltici: si pensi solo alle continue violazioni del loro spazio aereo, incluso il recente episodio del missile russo nei cieli polacchi. Sinora però sembra che abbiano spaventato più i politici dell’Europa dell’ovest e del sud che quelli della regione baltica. 

Immagine in anteprima via president.gov.ua

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