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Perché il Movimento 5 Stelle fa paura

14 Marzo 2018 9 min lettura

Perché il Movimento 5 Stelle fa paura

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Le reazioni dei media italiani e internazionali al successo elettorale del M5S sono state – e sono tuttora – tendenzialmente esagerate, iperboliche. A volte lo sono in senso positivo, quando associano l’evento a speranze di cambiamento e novità ("Cambia tutto", Il Fatto Quotidiano, 5 marzo). Più spesso però i toni sono apocalittici, come quando almeno i titoli, se non gli articoli per intero, nella loro inevitabile semplificazione costruiscono un nesso negativo fra la vittoria del M5S e il caos, l’ingovernabilità ("Balzo M5S, il governo è un rebus", Corriere della sera, 5 marzo; "Cataclysme électoral en Italie", Le Monde, 6 marzo; "Italy votes for irresponsibility", The Economist, 10 marzo), o quando associano il M5S non solo alla Lega italiana ma alla destra internazionale più estrema, da Trump a Le Pen, come ha fatto più volte il New York Times in questi giorni. Solo in pochi casi i toni allarmistici si placano, come quando i media hanno notato che nel frattempo le borse non sono crollate, i mercati non sono impazziti e persino Confindustria e Marchionne hanno ammesso che «i 5 Stelle non fanno paura». In generale, tuttavia, la preoccupazione resta alta, in Italia e all’estero.

Insomma, pare che i 5 Stelle facciamo paura sempre e comunque, nonostante sporadici tentativi di esorcizzarla. La paura corre sui media e nei partiti, anzitutto, ma si sente anche in strada, fra le persone che non li hanno votati, che sono comunque la maggioranza – ricordiamolo contro ogni iperbole. E c’è paura persino fra quelli che li hanno votati, che nell’attesa di cosa accadrà si tormentano perché sono bravi ragazzi, ma inesperti, perché li ho votati, ma è un salto nel buio, e perché chissà se saranno capaci e chissà mai cosa combineranno. Ma perché tanta paura? Cerchiamo di capire.

L’ombra di Grillo e Casaleggio

Dopo l’ingresso del M5S in Parlamento nel 2013, Grillo ha ripetuto più volte di «voler fare un passo indietro», ma di fatto per cinque anni ha mantenuto il ruolo di «capo politico» ed è stato sempre molto presente. Solo il 23 settembre 2017, nel proclamare Di Maio «candidato premier», ha ceduto formalmente a lui la carica di «capo», ma sempre rassicurando tutti sul fatto che non se ne sarebbe andato e sarebbe rimasto il «papà» del Movimento. Eccolo di nuovo, infatti, a chiudere la campagna 5 Stelle in Piazza del Popolo a Roma il 2 marzo, non a caso scherzando sul suo «esserci e non esserci» e sul «non voler creare qualche sofferenza» presentandosi in piazza.

È proprio l’ombra di Grillo e Casaleggio (Gianroberto prima, Davide poi) dietro al Movimento la prima cosa che ha sempre creato – e ancora crea – inquietudine. Non basta che il 23 gennaio Grillo abbia separato il suo blog da quello del M5S. Né sembra ancora sufficiente che negli ultimi mesi Luigi Di Maio abbia guadagnato sempre più autonomia e visibilità mediatica. Rispetto ad anni di evidente centralità della figura di Grillo, è infatti passato troppo poco tempo perché i riferimenti a lui siano cancellati. Certo oggi sono più rapidi, impliciti e indiretti di prima, ma non per questo meno inquietanti.

La comunicazione implicita e indiretta, infatti, non è mai meno efficace delle dichiarazioni esplicite e dirette, anzi è vero il contrario. Specie se gli impliciti sono negativi. Come l’Otello shakespeariano insegna, l’insinuazione di un sospetto, debitamente dosata e ripetuta, può essere molto più potente e distruttiva di un’affermazione esplicita, perché quest’ultima va fondata e argomentata, può generare un dibattito e può essere confutata, mentre l’insinuazione raggiunge il suo obiettivo lavorando in modo subdolo sull’inconsapevolezza e sulle emozioni – soprattutto ansie e timori – di chi la recepisce. Per questo le frequenti allusioni a influenze misteriose e poco trasparenti della coppia Grillo-Casaleggio non possono che generare preoccupazione sul M5S: chi decide davvero, il giovane o l’anziano? Chi ci guadagna? Chi garantisce la trasparenza delle decisioni? Sono le domande più ricorrenti, sui media ma anche in strada, non solo fra i detrattori del M5S, ma fra i loro stessi simpatizzanti. Che, sebbene legittime, non sempre trovano risposta negli approfondimenti giornalistici del caso, ma più spesso sono alimentate da messaggi vaghi e indiretti.

L’inquietudine dell’ambivalenza

Fin dalla sua fondazione nel 2009, il M5S ha vissuto e prodotto continue ambivalenze e contraddizioni, su cui Grillo ha scherzato spesso, e l’ha fatto fino all’ultimo, in Piazza del Popolo il 2 marzo, quando ha gridato dal palco «siamo il paradosso vivente della politica mondiale». La prima ambivalenza riguarda il suo essere un partito e/o non esserlo. L’art. 4 di quello che si chiamava (non a caso) "Non statuto", diceva chiaramente: "il M5S non è un partito politico né si intende che lo diventi in futuro". Di fatto, però, il M5S siede in Parlamento dal 2013, sta nelle amministrazioni locali dal 2012 (i primi sindaci furono eletti quell’anno) e fa comunicazione politica tutti i giorni, esattamente come gli altri partiti. Cioè faceva tutto questo anche quando non voleva essere chiamato partito.

È vero che oggi il M5S sembra accettare – almeno tacitamente – questa denominazione: il nuovo Statuto (da cui è sparito il «non») pubblicato a fine dicembre 2017 non prende più le distanze dalla parola «partito» (anche se non la usa mai). Inoltre il 2 marzo lo stesso Grillo ha ribaltato il paradosso: «Paradossalmente è successa una cosa straordinaria: noi siamo riusciti a […] azzerare tutti i partiti che si sono sciolti in una specie di diarrea nauseante […] e allora tutti i partiti si sono trasformati in movimenti […] e l’unico partito vero che c’è oggi in Italia siamo noi… [ride] è fantastico!». Ciò nonostante, l’ambivalenza di «partito non partito» resta forte, e lo sarà a maggior ragione se il M5S dovrà adattarsi sempre di più alle regole della nostra democrazia rappresentativa, per cercare di formare un governo (e, se ci riesce, farlo durare).

Fin dall’inizio il M5S si è contrapposto ai partiti tradizionali per ragioni etiche: mentre gli altri coltiverebbero pratiche di scarsa trasparenza e varie forme di immoralità e illegalità, il M5S ambisce a essere eticamente irreprensibile. In questa direzione è sempre andata la protesta del M5S e si è sempre scagliata la satira di Beppe Grillo. Inoltre il Movimento si è dato regole di democrazia diverse dagli altri partiti, perché usa la rete per far votare i/le candidati/e alle varie competizioni elettorali e per approvare programmi e decisioni importanti. Di fatto, però, poi cala dall’alto le nomine, come è accaduto con la lista dei possibili ministri, il che fa parte delle sue continue ambivalenze e contraddizioni. Come cancellare questa diversità costitutiva – e così tanto sbandierata, anche se non sempre praticata – senza snaturare il M5S fino a fargli correre il rischio di sciogliersi a sua volta, come oggi Grillo dice stia accadendo agli altri partiti? Difficile riuscirci, e d’altra parte non sarebbe utile né opportuno farlo.

L’ambivalenza del M5S, infatti, è stata anche (con altri fattori) la sua forza, perché le continue ambiguità, gli andirivieni e le contraddizioni possono respingere molti, ma esercitano anche un grande fascino. Pensiamo al potere di seduzione che hanno le persone affettivamente ambivalenti, che ora ci sono e ora scompaiono, per un po’ ci stanno vicine e un attimo dopo se ne vanno, sempre pronte, però, a compensare il distacco con una contromossa risarcitoria. Insomma, le ambivalenze turbano certamente chi le respinge (e per questo le respinge), ma anche chi se ne sente attratto, il che spiega la trasversalità dell’inquietudine che accompagna il M5S e accomuna i suoi detrattori a molti dei suoi sostenitori ed elettori.

La demonizzazione della Rete

Il M5S ha sempre dato una grande importanza a Internet e alla cultura digitale. Non usa solo la rete per far votare i/le candidati/e e per approvare programmi e decisioni importanti, ma la idealizza con tutto il tecnoentusiasmo possibile, la considera in sé portatrice di sviluppo, progresso e, soprattutto, democrazia diretta, partecipazione e potenziale riavvicinamento dei cittadini – tutti – alla politica. Tralascio gli svarioni grossolani e gli abbagli (spesso ai limiti dell’incredibile) di cui negli anni il M5S ha dato prova nel parlare di e-democracy e nel cercare di praticarla, dall’uso di Meetup.com alla gestione critica e pasticciata dal punto di vista informatico della piattaforma Rousseau, perché non sono questi i problemi che turbano la maggioranza degli italiani, casomai preoccupano chi di reti e tecnologie digitali davvero s’intende.

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Il problema è che in Italia l’accesso a Internet e la cultura digitale sono ancora scarsi, ben più bassi rispetto alla media dei paesi sviluppati. Secondo il report pubblicato da Wearesocial.com nel gennaio 2018, in Italia accede a Internet il 73% della popolazione, meno non solo del 97% in Svezia, 95% in UK, 91% in Germania e 88% negli USA, ma anche dell’86% in Kenya e del 78% in Argentina e Polonia, per menzionare paesi che non ci aspetteremmo di vedere prima di noi. Le cose vanno ancora peggio se si pensa non nei termini del semplice accesso tecnologico a Internet, che si riferisce alla disponibilità fisica delle infrastrutture necessarie, ma nei termini dell’accesso sociale, che comporta avere competenze sufficienti per usare in modo consapevole e non banale il computer, per cercare in rete informazioni in modo approfondito e mirato, per saper controllare le fonti e usarle in modo efficace rispetto agli obiettivi. Poiché, a parità di accesso tecnologico a Internet, le competenze possono essere assai diverse, il divario digitale fra chi è competente e chi no è sempre molto più ampio di quanto riportino gli indicatori mondiali e nazionali basati sulle infrastrutture.

In questo quadro va compresa la tendenza mediatica (e culturale) italiana a rappresentare in modo apocalittico e demonizzante la rete e le tecnologie digitali, come se fossero più foriere di problemi, pericoli e rischi che di vantaggi e opportunità: dall’isolamento sociale degli adolescenti alla dipendenza degli adulti dallo smartphone, dalla perdita della privacy alle "fake news", lo sport preferito di stampa, televisione e radio italiane, quando parlano di tecnologie digitali, è demonizzarle, presentarle come un Babau da cui ben guardarci e proteggere figli, amici e parenti. Come non prendere paura, allora, di fronte a un Movimento che, al contrario, esprime in ogni occasione un tecnoentusiamo esagerato?

Il disgusto per la piazza

In realtà, anche se i media mainstream tendono a concentrarsi, quando parlano del M5S, quasi esclusivamente sul suo uso di Internet e sulle sue criticità in fatto di democrazia diretta, in realtà il segreto del suo successo elettorale, dal più sperduto quartiere di periferia fino al Parlamento, è legato soprattutto alla capacità di rivitalizzare – anche grazie alla Rete, non solo – forme di partecipazione e attivismo sul territorio, nelle piazze e nei quartieri. Grillo e gli attivisti 5 Stelle hanno sempre prestato grande attenzione al contatto faccia a faccia con gli elettori e le elettrici, alla piazza insomma.

Ed è forse questa la paura più grande che corre nella componente più chiusa e autoreferenziale dei politici, giornalisti e intellettuali italiani e internazionali: politici che preferiscono parlare ai circoli che già li votano, più rassicuranti, che camminare per strada o scendere in piazza, per non rischiare contestazioni e proteste; giornalisti che preferiscono prendere informazioni da altri giornalisti e frequentare talk show televisivi, invece di condurre inchieste degne di questo nome; intellettuali che non escono mai dal circuito della convegnistica accademica, e che persino nella vita privata frequentano solo altri accademici o, al massimo, giornalisti ed esponenti dell’editoria (così sarà più facile pubblicare il prossimo articolo o libro). Sono loro, anzitutto, a non capire il M5S, a inquadrarlo in categorie vecchie o stravecchie, paragonandolo addirittura alla Democrazia Cristiana o discutendo se è «di destra» o «di sinistra», mentre il Movimento si ostina a negare la dicotomia (anche questa è un’ambivalenza interessante, perché attrae ma provoca inquietudine). Sono loro a moltiplicare e amplificare le stesse ambiguità e contraddizioni del M5S, senza rendersi conto, peraltro, che così facendo contribuiscono a determinarne il successo trasversale.

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È una élite sempre più incapace non solo di capire e interpretare il M5S – che sarebbe il minimo – ma di vedere chiunque pensi, senta e viva in modo diverso, soprattutto se appartiene alle classi sociali più umili, povere e ignoranti, che dal M5S si sentono (per ora) rappresentate. Questi signori nei confronti della piazza non provano solo paura, ma disprezzo e addirittura disgusto (anche se il linguaggio politically correct mai glielo farebbe ammettere), perché in piazza, nelle strade, nelle periferie ci sono esseri umani veri, in carne e ossa, quelli che ti guardano in faccia, ti spintonano e magari, non sia mai, possono pure chiederti qualcosa.

Qui i nostri articoli sul Movimento 5 Stelle, Grillo, Casaleggio e Luigi Di Maio.

Foto in anteprima via Money.it

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