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I Mondiali in Qatar e il dramma dei lavoratori morti

19 Novembre 2022 9 min lettura

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I Mondiali in Qatar e il dramma dei lavoratori morti

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“Per favore, ora concentriamoci sul calcio”. Dice questo la lettera che la FIFA ha inviato a tutte le 32 nazionali che parteciperanno ai Mondiali in Qatar, resa pubblica da Sky News il 4 novembre. Chi non ha seguito il dibattito attorno a questo appuntamento, potrebbe non trovarci nulla di strano: ai Mondiali di calcio ci si concentra sul calcio. Ma Qatar 2022 è ormai qualcosa di molto lontano da un comune evento sportivo: nei quasi dodici anni trascorsi dall’assegnazione del torneo al paese arabo, di tutto si è parlato, fuorché di sport.

Da un anno e mezzo circa, Qatar 2022 è associato alla morte, e questa non è affatto un’iperbole: nel febbraio 2021, un’inchiesta del Guardian ha rivelato che i lavoratori migranti morti nei cantieri del Mondiale erano almeno 6500. Quelle cifre sono rimbalzate su ogni testata giornalistica del mondo, definendo così un evento che aveva fatto discutere il mondo del calcio fin dal dicembre 2010, e che negli anni successivi era stato circondato da accuse e sospetti di corruzione. Ma una cosa è parlare di soldi e favori, un’altra di migliaia di persone morte nel silenzio.

Il problema dei numeri è che corrono il rischio di diventare mera statistica, e privati del loro contesto non restituiscono l’enormità del problema di Qatar 2022. Una complessità che probabilmente sfugge alla maggior parte del pubblico, soprattutto qua in Italia, paese in cui meno di tutti si è discusso di questo torneo, prima ancora dell’eliminazione della nostra Nazionale a fine marzo scorso. Circostanza che ha offerto la scusa perfetta per ignorare la questione. Cosa significano 6500 morti? Come e perché sono morti? Cosa sta succedendo in Qatar? È a queste domande che il mondo dell’informazione, nel nostro paese, ha fallito a dare risposte chiare ed esaustive.

La storia dietro ai numeri

Si è iniziato a parlarne davvero solamente dopo l’uscita dell’inchiesta nel febbraio 2021, ma in realtà il problema dei lavoratori morti nei cantieri era noto da tempo. Già nel settembre 2013, l’International Trade Union Confederation aveva messo in guardia che il Mondiale avrebbe potuto costare la vita a circa 4000 persone. Due mesi dopo, Amnesty International aveva diffuso un report nel quale denunciava lo sfruttamento dei lavoratori migranti in Qatar. Poi, nel gennaio 2014 il Guardian scriveva che 185 nepalesi erano morti nell’ultimo anno nei cantieri qatarioti. La prima grande inchiesta giornalistica su questo tema risale al maggio 2015 ed è stata condotta dal Washington Post, individuando 1200 operai morti.

Leggendo oggi quell’articolo, lo si vede iniziare con una correzione rispetto al pezzo originale: “Siamo incapaci di verificare quanti morti, se ce ne sono state, sono collegate ai lavori per la Coppa del Mondo”. Un trafiletto che di fatto smentisce e rende inutile tutto quello che viene dopo. Alla sua uscita, l’articolo del Washington Post sollevò grandi polemiche da Doha, e il governo qatariota protestò, definendo l’inchiesta “oltraggiosa”, costringendo il giornale a rettificare. Si tratta di un caso clamoroso di pessimo giornalismo? In verità no, o meglio non proprio. Semplicemente, era – ed è tutt’oggi – impossibile avere dati certi sulle morti avvenute nei cantieri di Qatar 2022, poiché le autorità tenute a controllare non sono affidabili. Secondo le fonti ufficiali del governo qatariota, all’epoca dell’inchiesta del Washington Post non si era verificato alcun decesso nei cantieri dei Mondiali.

I dati dell’inchiesta si rifacevano a un report che conteggiava 964 morti tra cittadini indiani, nepalesi e bengalesi avvenute in Qatar tra il 2012 e il 2013, e attraverso le stime dell’ITUC arrivava a conteggiare una cifra probabile di almeno 1200 morti al momento della pubblicazione dell’articolo. Il governo di Doha, per contro, negava che quelle 964 vittime avessero a che fare con il Mondiale di calcio, imputandole ad altri motivi e circostanze. La stessa cosa venne ripetuta sei anni dopo, davanti ai nuovi e più approfonditi dati pubblicati dal Guardian: per il Qatar, delle 6500 vittime identificate, solo 37 lavoravano nei cantieri del Mondiale, e di queste ultime 34 non erano classificate come morti sul lavoro. Il risultato finale fa 3 morti soltanto. Com’è possibile?

La risposta è nella stessa inchiesta. Prendiamo un esempio: Madhu Bollapally, 43enne lavoratore indiano, è morto a fine 2019, trovato senza vita nel suo appartamento. Le autorità locali hanno registrato il suo caso come “morte per cause naturali”, senza ulteriori spiegazioni. Bollapally lavorava nei cantieri di "Qatar 2022", esposto a turni massacranti spesso sotto il sole cocente, condizioni che avrebbero alla lunga debilitato il suo fisico, fino alla morte. Ma siccome non è deceduto sul lavoro in un chiaro incidente, non è considerato una delle vittime del Mondiale. Così come tutti i lavoratori morti in qualsiasi altro modo in un cantiere in cui non si costruivano stadi, ma strade, hotel o altri edifici che non sono direttamente collegati al torneo, ma che evidentemente vengono costruiti per quel fine.

Quanti sono stati dunque i morti di Qatar 2022: tre o 6500? La verità è appunto che non lo sappiamo con certezza, ma che di sicuro i numeri comunicati dal Comitato organizzatore sono pesantemente sottostimati, tant’è vero che nell’agosto 2021 un nuovo report di Amnesty International ha individuato oltre 15000 stranieri morti in Qatar tra il 2010 e il 2019 per ragioni non meglio specificate.

La vita oltre la morte

Il guaio è che gli innumerevoli lavoratori morti nei cantieri del Mondiale sono solo una parte della storia. Per capire questo aspetto, è necessario fare un passo indietro e parlare della kafala. Si tratta di un sistema antichissimo che regola il diritto del lavoro per gli stranieri nel mondo arabo: l’immigrato che arriva a lavorare in Qatar (ma anche in Arabia Saudita, Oman, Bahrein, Emirati Arabi Uniti, Kuwait) deve rivolgersi a una sorta di garante, o sponsor, il quale però vanta diritti nei suoi confronti, come forma di tutela per la garanzia offerta. Tra questi diritti, c’è la possibilità di controllare gli spostamenti del lavoratore, per assicurarsi che non abbandoni il lavoro senza permesso, e perciò si arriva anche la consegna del passaporto.

Il sistema della kafala è la solida base su cui si regge un’economia di atroce sfruttamento dei lavoratori migranti, che non godono di nessun diritto e sono generalmente equiparati a schiavi. Sono queste persone – per lo più lavoratori sottoqualificati che trovano impiego come operai o addetti alle pulizie, e provengono soprattutto da paesi dell’Asia meridionale, come India, Nepal, Bangladesh, Pakistan, Sri Lanka e Filippine – a costituire la stragrande maggioranza della forza lavoro impiegata in Qatar. Nel 2010, prima che a Doha venisse assegnato il Mondiale, la popolazione totale era di circa 1,7 milioni di persone, mentre oggi è di 2,9 milioni; nel 2017, quando era ancora di 2,7 milioni, si stimava che i lavoratori migranti fossero 2,1 milioni. Il sistema basato sulla kafala è stato definito come una forma di "schiavitù moderna", tra gli altri, da Aidan McQuade, direttore di Anti-Slavery International, sia nel 2013 sia in un dettagliato report dell’ITUC del 2015. Sempre nel 2015, Sharan Burrow, direttrice dell’International Trade Union Confederation, ha definito il Qatar “uno stato schiavista”.

In questi anni, in particolare dietro le pressioni delle ONG, il governo del Qatar ha varato ben due riforme del lavoro, che a detta delle istituzioni locali e della stessa FIFA hanno smantellato il sistema della kafala. Tuttavia, a novembre 2021 Amnesty International denunciava ancora casi di sfruttamento, definendo le riforme solo una facciata che non ha cambiato la sostanza del problema. Nelle scorse settimane, il Guardian ha pubblicato un articolo con i pareri di cinque diversi esperti per mercato del lavoro in Qatar, che hanno spiegato i punti critici che ancora permangono. Pete Pattisson, che da nove anni conduce reportage sullo sfruttamento dei lavoratori in Qatar per il quotidiano britannico, scrive che “l’abolizione della kafala ha funzionato per i primi mesi, ma oggi il sistema è a tutti gli effetti ancora in vigore”.

Una delle grandi innovazioni delle riforme introdotte, per esempio, è l’obbligo dei datori di lavoro di ripagare le tasse d’assunzione dei loro dipendenti: a questo scopo, è stato istituito un apposito fondo. Le autorità qatariote sostengono che dal 2017 a oggi la società di costruzione SAIC, che gestisce i cantieri dello stadio Al-Bayt, abbia già pagato 33 mila dollari per coprire queste spese. In uno dei suoi ultimi articoli, ha raccontato la vita degli operai che hanno costruito lo stadio Al Bayt, nel nord-est del Qatar, dove si giocherà la partita inaugurale dei Mondiali, il prossimo 20 novembre. Dopo una dura giornata di lavoro, vengono riportati ai loro alloggi, una specie di baraccopoli sovraffollata, a 40 minuti d’auto dalla città. Le stanze sono piccole, sporche e senza finestre, ogni posto letto è delimitato da dei teli per avere un po’ di privacy, e tutti gli effetti personali di un lavoratore sono tenuti sotto il letto; “il campo è squallido come tutti quelli che questo giornalista ha visto in nove anni di reportage dal Qatar” scrive Pattisson.

Lo stipendio di 1000 riyal al mese (poco più di 200 euro) è frutto di una delle recenti riforme del governo, che ha stabilito un salario minino. Il problema è che con 1000 riyal la vita in Qatar è praticamente impossibile: per fare un esempio, un menù da McDonald’s qui costa 25 riyal. Da questa cifra bisogna togliere una quota che serve a ripagare i debiti per le tasse d’assunzione, più quello che viene spedito a casa alla famiglia (alcuni raccontano di riuscire a inviare l’equivalente di 180 euro al mese, approfittando del fatto che le spese dell’alloggio, e di cibo e acqua sono coperte dal datore di lavoro). Questo è un altro fattore dell’apartheid dei lavoratori migranti, la cui vita si riduce a lavorare, mangiare e dormire.

Il paradosso è che ricevere questa esigua somma non è un’impresa facile: in questo paese ricchissimo, che ha il sesto PIL al mondo a parità del potere d’acquisto, gli stipendi vengono spesso corrisposti in ritardo. A giugno 2020, Amnesty International ha rivelato che alcuni lavoratori sono rimasti senza stipendio per sette mesi. Chi prova a protestare, lo fa a suo rischio e pericolo: lo scorso agosto, la BBC ha parlato di uno dei rari casi di sciopero contro i mancati pagamenti, che si è concluso con l’arresto dei manifestanti da parte della polizia.

Chi non è d’accordo

Nessuna di queste informazioni è segreta: tutto è stato documentato dalle ONG che si occupano di diritti umani e da diverse testate internazionali, e ciò ha portato lentamente ad avere alcune prese di posizione contro i Mondiali. I primi a protestare sono stati i club di calcio norvegesi, e successivamente la stessa Nazionale. La richiesta di difendere i diritti umani in Qatar si è estesa ai calciatori olandesi, danesi, svedesi, tedeschi e inglesi. A partire dalla scorsa estate e in particolare nell’ultimo mese, i tifosi tedeschi hanno esposto diversi striscioni chiedendo il boicottaggio dei Mondiali durante le partite di campionato. Diversi comuni francesi hanno annunciato che non trasmetteranno le partite della Nazionale né creeranno eventi per i tifosi collegati al torneo. Il sindacato dei calciatori australiano ha diffuso un video in cui diversi iscritti condannano i crimini del regime di Doha.

La lista pare lunga, ma confrontata all’elenco dei 32 paesi partecipanti più tutti gli altri non qualificatisi è purtroppo tragicamente breve. Tra gli assenti figura ovviamente l’Italia, al punto che quando il 6 novembre scorso il gruppo di lavoro UEFA per i diritti umani ha rilasciato un comunicato per rivendicare il merito per i piccoli progressi ottenuti in Qatar, la FIGC non era presente tra i firmatari. Il contributo del nostro paese al dibattito sui diritti umani attorno alla Coppa del Mondo è stato essenzialmente il silenzio, nel migliore dei casi. Altrimenti, abbiamo assistito a episodi sconcertanti, come un articolo pubblicato dall’Ansa il 12 aprile 2021, in cui si riportava che i lavoratori nel paese arabo erano assolutamente tutelati: si trattava, come indicato in cima alla pagina, di un articolo sponsorizzato dall’Ambasciata del Qatar.

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L’unica azione concreta è arrivata a ottobre da una trentina di club dilettantistici, appartenenti alla rete del calcio popolare, che hanno promosso un boicottaggio del Mondiale. A novembre, i tifosi del Pisa hanno esposto uno striscione contro il Mondiale durante una partita di Serie B contro il Cosenza, che è stata la prima azione all’interno del calcio professionistico italiano. Qualche settimana prima, il gruppo Lazio & Libertà – un’associazione di sostenitori della Lazio contro le discriminazioni – aveva provato a portare uno striscione di protesta all’Olimpico per una partita di Serie A, ma la Questura di Roma ha negato l’autorizzazione; e la stessa cosa è avvenuta più di recente a un gruppo di sostenitori del Brescia. Fortunatamente, le cose nel nostro paese sono cambiate proprio nell’ultimo turno di campionato prima della sosta per il Mondiale: sabato 12 novembre, è toccato ai tifosi del Cosenza esporre, di nuovo in B, uno striscione sui diritti umani in Qatar, e nella stessa giornata i sostenitori del Bologna sono stati i primi a farlo durante un match di Serie A, venendo seguiti il giorno dopo da quelli della Roma. Lentamente, anche se tardi, anche in Italia le cose hanno iniziato a muoversi.

Immagine in anteprima: ANSA via Rai News

L'articolo è stato aggiornato per correggere un'imprecisione sul rimborso delle tasse di assunzione.

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