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All’interno della Russia iniziano a intravedersi le prime crepe

29 Settembre 2022 8 min lettura

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All’interno della Russia iniziano a intravedersi le prime crepe

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Le giornate successive alla mobilitazione parziale in Russia non sono state all’insegna della tranquillità, e hanno riservato una serie di reazioni, probabilmente sottovalutate, alle convocazioni presso i comandi locali delle forze armate. Le manifestazioni a Mosca e a San Pietroburgo, la cui partecipazione in termini di numeri è difficile da stabilire per le modalità della repressione, in questo senso sono state meno significative delle dimostrazioni spontanee in alcune regioni del paese, soprattutto in Daghestan e in Jacuzia, dove vi sono stati scontri di piazza. Un elemento nuovo, la cui portata è ancora tutta da valutare e da vedere nel suo sviluppo successivo, che rompe anche con il tradizionale svolgimento delle proteste dell’ultimo decennio in Russia, contrassegnate da arresti immediati e sgomberi istantanei degli assembramenti e da tentativi di riunirsi nuovamente per poter manifestare.

Questo tipo di dinamica si è ripetuta negli appuntamenti convocati in varie città russe il 21 e poi il 24 settembre, dove si sono avuti rispettivamente 1376 e 847 fermi, per un totale complessivo di 2402 al 26: spesso convalidati in arresti e portati in tribunale, i manifestanti sono stati in molti casi sottoposti a violenze di vario tipo, di cui la più feroce è stato lo stupro ai danni del giovane poeta Artem Kamardin. La colpa di Kamardin è stata aver partecipato a una lettura di poesie vicino al monumento a Vladimir Majakovskij nella piazza Trjumfal’naja, evento iniziato nella Mosca del disgelo a fine anni Cinquanta e dal 2009 ripreso dai poeti urbani della capitale con un appuntamento ogni ultima domenica del mese. A far scatenare la violenza degli agenti nei confronti di Kamardin è stata una frase, “Viva la Rus’ kieviana, Novorossija facci un pompino”, costretto a scusarsi ripreso da uno smartphone (il video è stato pubblicato sul canale Telegram “112”, vicino agli ambienti della polizia) e poi violentato con un manubrio per pesi. La registrazione dello stupro è stata mostrata alla ragazza del poeta, anche lei attivista contro la guerra, Anastasia Popova, seviziata e minacciata di violenza sessuale durante il fermo da cinque poliziotti. A Kavardin e ad altri due poeti, Egor Shtovbe e Nikolai Dajneko, son stati dati due mesi di arresti preventivi. Anche altri manifestanti condotti nei commissariati sabato scorso hanno denunciato maltrattamenti e umiliazioni di vario genere, con allusioni nemmeno troppo implicite a stupri e molestie d’ogni tipo. Una modalità d’azione all’insegna dell’operazione speciale, rafforzato dal placet già dato da Putin la scorsa primavera, quando aveva definito gli oppositori dei traditori della nazione,  сhe il popolo russo avrebbe “sputato fuori dalla propria bocca come si fa con i moscerini”.

La mobilitazione parziale ha immediatamente mostrato numerosi problemi, a causa delle convocazioni inviate, in molti casi, violando quanto promesso dal ministro della Difesa Sergei Shoigu sul coinvolgimento esclusivo di chi aveva già servito nell’esercito o era nelle categorie considerate di particolare interesse militare (personale medico e altre specializzazioni, in questo caso anche le donne sono obbligate ad andare sotto le armi). Il primo scaglione della mobilitazione, secondo il piano presentato il 21 settembre, doveva coinvolgere i riservisti fino ai 35 anni, con l’esclusione di una serie di fasce, dai padri di 3 e più figli fino agli invalidi, oltre a studenti e a chi non aveva nessun tipo d’esperienza pregressa: in realtà i voenkomaty, ovvero gli uffici di reclutamento, si son resi responsabili di una serie di violazioni, stigmatizzate anche dai governatori. In Jacuzia il capo della repubblica, Ajsen Nikolaev, ha denunciato pubblicamente l’arruolamento di genitori di famiglie numerose, chiedendo il ritorno a casa dei mobilitati per errore, una richiesta seguita alle mobilitazioni in numerosi centri della regione, dove a essere protagoniste sono state le donne, che il 25 settembre a Jakutsk hanno dato vita alla danza tradizionale, l’osuochaj, circondando la polizia e rivendicando il rilascio dei propri uomini. Nella regione di Belgorod a ricevere il richiamo alle armi son stati studenti e persone affette da malattie croniche, mentre nella siberiana Tomsk la cartolina è arrivata ad alcuni cinquantenni, suscitando il malcontento e la pressione sulle amministrazioni regionali. In un caso, a Magadan, capitale della remota Kolyma, un tempo patria di numerosi gulag, il governatore Sergei Nosov ha chiesto le dimissioni dell’ufficiale a capo dell’ufficio regionale. Persino i volti noti della propaganda ufficiale del Cremlino, Vladimir Solovyov e Margarita Simonyan, hanno chiesto pene severe (Solovyov ha invocato la fucilazione) per i responsabili del caos, un tentativo di rispondere alle critiche e alla rabbia di un segmento significativo della popolazione.

Le proteste più forti si sono avute in Daghestan, in testa alla tetra classifica dei caduti nella guerra in Ucraina, 306 al 23 settembre. Si sono avuti blocchi stradali nel distretto di Babajurt durante il primo giorno di mobilitazione speciale, giovedì scorso, e a Endirej, villaggio vicino al centro di Chasavjurt, un raduno spontaneo è stato disperso a colpi d’arma da fuoco sparati in aria dagli agenti. Nella capitale della repubblica autonoma, Machačkala, domenica e lunedì vi sono stati assembramenti e cortei con scontri tra manifestanti e polizia. L’intensità della contestazione ha portato ad alcuni cambiamenti alla testa delle forze dell’ordine daghestane, ma senza grossi passi indietro da parte delle autorità locali, a differenza di quanto visto in altre realtà. La seconda regione per numero di morti (276) in guerra, la Buriazia, anch’essa repubblica autonoma abitata da una nazionalità non-russa, non ha avuto proteste in strada, ma circa 3.800 cittadini hanno deciso di varcare la frontiera con la Mongolia per sottrarsi alla mobilitazione. Un numero forse piccolo se rapportato ai circa 980.000 abitanti della regione, ma che fanno parte di una dinamica ben più ampia a livello federale. I dati provenienti da alcuni dei paesi confinanti con la Russia sembrerebbero essere impietosi: al 27 settembre, 98.000 sono entrati in Kazakistan, 53.000 in Georgia, 43.000 in Finlandia, secondo quanto raccolto da Meduza basandosi sui rapporti resi noti dai posti di frontiera. Il Kazakistan è al primo posto perché tra Mosca e Astana esiste un accordo sull’ingresso nei paesi con il passaporto interno, documento d’identificazione in possesso di ogni cittadino, quindi non vi sono problemi di visto, e condividono 7591 km di confine.

Vi è un forte spirito di solidarietà e accoglienza nei confronti dei rifugiati, con iniziative prese dalle autorità locali e da gente comune, come ad Ural’sk, a 100 km dal confine occidentale del paese, dove il Cinema Park ha offerto alloggio per la notte a più di 200 persone per far fronte all’enorme afflusso di russi in città. Il paese è usato come base per raggiungere altre destinazioni in aereo (dal Kazakistan vi sono collegamenti in tutto il mondo), ma c’è chi resta (circa 20.000, secondo le stime ufficiali), rassicurato dalle dichiarazioni del ministero degli Interni, intenzionato a non consegnare a Mosca i “disertori”, come già vengono definiti dalla propaganda del Cremlino. Il presidente kazako Kasym-Jomart Tokayev ha chiesto al proprio popolo di aiutare i fuggiaschi e ha incaricato il governo di garantire ogni tipo d’assistenza, definendo l’emergenza come una “questione politica e morale”. In Georgia la situazione è più complessa, al varco di Verchnij Lars la fila delle auto ha raggiunto dalle 30 alle 40 ore d’attesa per passare il confine, e molti lasciano la macchina lungo il ciglio della strada, mentre altri varcano la frontiera a piedi, in monopattino o in bicicletta. L’amministrazione dell’Ossezia del Nord si trova sotto pressione perché Verchnij Lars è l’unico posto di frontiera aperto, con i confini azeri chiusi fino al primo novembre per le misure anti-Covid adottate da Baku, e ha iniziato a impiegare la polizia per dissuadere ulteriori viaggiatori desiderosi di lasciare per sempre il paese, un divieto facilmente eludibile attravero la richiesta di mazzette da parte delle pattuglie in strada. Un migliaio di persone da una settimana aspetta il proprio turno, e il ministero della Difesa ha annunciato l’apertura di un punto mobile per consegnare le cartoline da cui si fugge a chi si trova in coda, e nella giornata di lunedì unità dell’FSB accompagnate da automezzi militari si son disposte ai lati della strada d’accesso al varco.

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Non si hanno dati su quanti russi abbiano lasciato il paese in aereo, diretti verso Istanbul, Erevan o Baku. Novaja Gazeta-Evropa ha ripreso le parole di una propria fonte dell’Amministrazione presidenziale, secondo cui vi erano state circa 261.000 partenze dal 21 al 24 settembre, dato preso con un certo scetticismo dalla testata, ma se si sommano le cifre raccolte da Meduza si arriva a 197.800 uscite. Comprare un biglietto aereo solo andata da Mosca a Erevan per i primi giorni d’ottobre costa attorno ai 3-4000 euro, quando fino al 21 settembre il prezzo era attorno ai 100-150, e i posti per altre destinazioni per le date più vicine sono terminati.  Le richieste per i jet privati sono aumentate esponenzialmente, da 50 al giorno si è passati a 5000, nonostante si arrivi a 28000-30000 euro a persona. A rendere la situazione ancor più critica è la chiusura de facto della frontiera con l’Estonia e la Lettonia, dove anche a chi ha doppio passaporto o è familiare di un cittadino europeo viene negato l’ingresso, a cui potrebbe aggiungersi presto un giro di vite negli ingressi da parte finlandese, come già trapelato da Helsinki. Nonostante le dichiarazioni della Commissione Europea e della Germania sull’accoglienza per chi scappa dalla mobilitazione parziale, non è chiaro come tecnicamente questa possa essere resa reale, se Polonia, Lettonia, Lituania ed Estonia hanno già reso noto di non voler permettere l’ingresso dei russi in fuga nei propri paesi.

A una settimana dalla proclamazione della mobilitazione e all’indomani dei referendum tenuti nelle regioni occupate da Mosca, il cui risultato era scontato, all’interno della Russia iniziano a intravedersi le prime crepe nella narrazione di un potere in grado di gestire senza problemi ogni tipo di situazione. Alcuni eventi, non coordinati ma significativi, come gli incendi appiccati a uffici militari e amministrativi, 50 dall’inizio della guerra di cui 18 dal 21 al 28 settembre, testimoniano un cambio di percezione in una parte della popolazione; vi è stata una sparatoria lunedì 26, nella regione di Irkutsk, iniziata da un mobilitato che ha aperto il fuoco sul comandante locale, ricoverato in gravi condizioni. Il giornalista Andrei Pertsev, attento osservatore di quel che si muove all’interno del Cremlino, ha riferito di come non vi sia fretta a Mosca nell’annettere ufficialmente i territori dopo lo svolgimento delle operazioni di voto, perché si avrebbe paura di fornire ulteriori elementi di irritazione nella società, un’ipotesi che però cozza con la presenza dei capi delle amministrazioni separatiste nella capitale russa nella serata di mercoledì. La stabilità, mantra enunciato come una delle ragioni fondanti della lunga permanenza alla presidenza di Putin, appare un lontano ricordo in queste settimane.

Immagine in anteprima: kremlin.ru, via Wikimedia Commons

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