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Il terremoto in Marocco e le inondazioni in Libia: la devastazione e i risvolti politici dei soccorsi e degli aiuti

19 Settembre 2023 9 min lettura

Il terremoto in Marocco e le inondazioni in Libia: la devastazione e i risvolti politici dei soccorsi e degli aiuti

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Una tragedia. E poi un’altra. In due paesi del Nord Africa che da circa due settimane stanno facendo i conti con la devastazione, con il dolore, con ricordi terribili fissati negli occhi dei sopravvissuti. E, come sempre accade in questi casi, con l’incertezza del domani. Ma vediamo qual è la portata degli eventi naturali che – a pochi giorni l’uno dall’altro - si sono abbattuti su Marocco e Libia. Il percorso dei soccorsi e degli aiuti. E quali sono i risvolti politici che sono emersi a seguito di questi disastri.

Il terremoto in Marocco

Non sono nuovi, i monti dell’Atlante, agli eventi sismici. Quello dell’8 settembre – quasi 7 gradi della scala Richter – non è certo il primo che nel tempo ha colpito quell’area. Ma sicuramente il più devastante dal secolo scorso e dopo quello del 1960, che toccò soprattutto Agadir e fece circa 15.000 vittime. 

La catena montuosa, che separa il deserto del Sahara dall‘Oceano Atlantico, ha milioni di anni e la sua forma attuale è attribuibile alla collisione del continente africano con la penisola iberica. Questo movimento avrebbe generato anche l’ultimo evento sismico. Gli scienziati ricordano che la maggior attività sismica si è sempre verificata a nord-est, più vicina al confine della placca tra Africa ed Europa. “Tuttavia questoha affermato David Rothery, professore di Geoscienze planetarie presso la Open University – si è verificato a circa 500 km a sud del confine tra la placca tettonica africana e la placca eurasiatica, ma è stato comunque una conseguenza della collisione verso nord dell'Africa con l'Eurasia in un luogo dove le montagne dell'Alto Atlante vengono spinte verso l'alto”. 

A provocare un numero così alto di morti – ad oggi si parla di quasi 3.000 persone, almeno il doppio i feriti – non è stata solo l’intensità del sisma ma la difficoltà di raggiungere aree così magiche dal punto di vista naturalistico ma così impervie e, per molti tratti, inospitali. E poi gli edifici, realizzati in mattoni e terra battuta, alla maniera “artigianale”, certo senza alcuna forma di prevenzione e di difesa dalle calamità naturali, ma solo come luoghi di riparo. Soprattutto in quei villaggi berberi così amati dai tour operatori e dai turisti e che ora stanno sopportando più di tutti questo disastro. 

Per molte ore si è scavato con le mani. La lentezza dei soccorsi è stata un dramma nel dramma. Nei giorni sono montate le critiche nei confronti delle istituzioni marocchine, ma soprattutto nei confronti del re, Mohammed VI. Il Marocco, ricordiamo, è una monarchia costituzionale. E mentre la stampa estera, fin da subito evidenziava l’assenza del sovrano – che in quei giorni si sarebbe trovato nella sua dimora parigina - il relativo ritardo nei soccorsi e la mancanza di coordinamento, i media locali scrivevano della donazione personale del re di 100 milioni di dollari (nel 2015 Forbes lo inserì nella lista dei miliardari africani) e lo ritraevano mentre partecipava a un meeting interministeriale per lavorare a un piano di reinsediamento degli sfollati e di aiuti finanziari per la ricostruzione. Altri siti riportavano – a quattro giorni dal sisma - la visita del monarca a un ospedale, mentre bacia un ragazzo ferito e dona il sangue. Un messaggio chiaro: il re c’è, prende decisioni ed è pienamente solidale e coinvolto con la sua popolazione ferita e ancora spaventata. 

Il Financial Times ricorda che, nei 24 anni del suo regno, il Marocco si è distinto come uno dei paesi più stabili del mondo arabo e per i sostanziosi investimenti nelle infrastrutture. Ma si tratta di grossi investimenti, mentre in questo caso c’è da dare soccorso e sostegno alle migliaia di persone, scampate al disastro, che vivono perlopiù in situazioni di precarietà sociale ed economica. Troppi i bambini colpiti, almeno 100.000, secondo l’ONU. E le scuole: sarebbero 530 le istituzioni scolastiche danneggiate a vari livelli. Inoltre, secondo Reliefweb, l’evento sismico e quello che ne conseguirà, finirà per esacerbare le disparità di genere. 

E poi ci sono le critiche (o polemiche) per la gestione degli aiuti dai paesi esteri. Già resi complicati dalla difficoltà di raggiungere luoghi difficilmente accessibili e spesso isolati, questi aiuti sono anche stati “selezionati”, secondo alcuni commentatori, seguendo criteri di natura tecnica e geopolitica. I criteri di natura tecnica – è stata questa la spiegazione data dalle istituzioni marocchine – riguardano la qualità delle competenze rapidamente dispiegabili sul territorio colpito dal sisma e la necessità di non creare ulteriori disagi e confusione laddove oggi c’è bisogno del massimo coordinamento. Ma considerati i paesi di cui fin da subito sono stati  “accettati” gli interventi – Gran Bretagna, Spagna, Qatar e Emirati Arabi Uniti – le motivazioni sarebbero più che altro legate a vicinanze e strategie politiche. 

In particolare, si è molto parlato delle relazioni tra Marocco e Francia. Una delle questioni aperte tra i due paesi è, per esempio, la posizione della Francia rispetto alla richiesta di riconoscere la sovranità del Marocco sul Sahara occidentale. A spegnere i fuochi è stato il Presidente francese, Emmanuel Macron. Noi ci siamo - ha detto - e siamo pronti ad offrire aiuti umanitari ma, ha aggiunto: "Spetta ovviamente a Sua Maestà il Re e al governo del Marocco, in piena sovranità, organizzare gli aiuti internazionali”. Un concetto, quello della sovranità del paese, che ha sue istituzioni, esercito, mezzi e sistemi di soccorso, ribadito più volte. Mentre, dietro la decisione di non ricorrere all’Algeria come base o flusso per gli aiuti, potrebbero esserci il suo appoggio al movimento indipendentista del Sahara Occidentale, il Polisario, e la serie di dispute in corso da molti anni. 

Ma mentre si discuteva su questo e su quello, erano i volontari – sia quelli più vicini all’area del sisma, sia quelli da zone più lontane del paese – che si davano da fare. Persone comuni, amici, parenti, che superando le difficoltà di spostamenti hanno cercato fin dalle prime ore del disastro di portare soccorso. Le loro braccia, prima di tutto, ma anche beni di prima necessità. Aiuti concreti e solidarietà immediata. 

Nel frattempo, si stanno cominciando ad allestire i primi campi, a cominciare dalle aree intorno a Marrakesh, i cui cittadini seppur anch’essi colpiti, si sono rimboccati le maniche da subito. Qui, come sulla catena dell’Atlante, si vive soprattutto di turismo. Nei primi quattro mesi dell’anno si erano contati già 2,9 milioni di visitatori. Una vera e propria campagna di raccolta fondi e di azioni sul campo sta ora coinvolgendo tour operator locali e ONG proprio perché il paesi non si fermi. Ed è ai turisti che ci si appella ora. Tornate - dicono - noi siamo già pronti ad accogliervi. “Non è solo vitale per il Marocco, ma anche un messaggio di speranza”.

La tempesta Daniel e il crollo delle dighe in Libia

A sole 72 ore dal terremoto in Marocco, anche la Libia è stata travolta da un disastro. E quella data, l’11 settembre, sarà ricordata anche in questo paese come un giorno nefasto. La tempesta Daniel, che aveva colpito la Libia il giorno prima, ha provocato il crollo di due dighe e queste, a catena, inondazioni simili a tsunami. Derna, la città costiera nord orientale più colpita, è un campo di fango, detriti, macerie, desolazione. 

È una città assai nota, Derna. Per la sua opposizione a Gheddafi prima, e poi perché considerata sede di militanti islamici. Oggi questa città di circa 90.000 abitanti conta le vittime della tragedia: 11.300 al momento, e migliaia di dispersi, ma in realtà ci vorranno giorni e giorni, forse settimane per comprendere davvero la portata del disastro. In termini di vite umane, e poi per tutto quanto occorrerà per la ricostruzione. Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità i distretti colpiti coinvolgono almeno 1.5 milioni di persone mentre molti ospedali non sono più funzionanti. L’organismo dell’ONU, inoltre, sta allertando chi opera sul campo di non seppellire i morti in fosse comuni perché il rischio di malattie e contaminazione della acque è molto alto. 

Quel che fa più rabbia oggi è la prevedibilità (e previsione) di quanto accaduto. Infatti, non solo un recente rapporto delle Nazioni Unite aveva mostrato l’aumento dell’intensità e della frequenza di eventi meteorologici estremi (qui un'analisi del sito britannico Carbon Brief sul ruolo del cambiamento climatico sulla tempesta che ha colpito la Libia), la maggiore esposizione del paese a inondazioni e tempeste, la desertificazione del territorio in stretta correlazione all’aumento delle temperature globali che hanno reso il Mediterraneo un hotspot del cambiamento climatico, ma erano stati lanciati allarmi sullo stato delle due dighe crollate, Jaza – quella che ha devastato Derna – e Qattara, più vicino a Bengazi. 

Il Centro meteorologico nazionale ha assicurato di aver allertato, tramite e-mail, le autorità governative e i media e di aver annunciato lo stato di emergenza nelle province orientali del paese. Fatto sta che migliaia di persone, strade, edifici, sono stati letteralmente travolti. Investiti da una furia persino più violenta di quanto si fosse previsto. Drammatiche le testimonianze dei sopravvissuti che hanno raccontato di interi quartieri cancellati, di corpi sparsi ovunque o trasportati in mare aperto. 

Appena lo scorso anno ricercatori della Omar Al-Mukhtar University avevano pubblicato un saggio in cui si analizzava lo stato delle due dighe e si affermava la necessità di una manutenzione. “Esiste – questo l’avvertimento – un alto potenziale di rischio inondazioni”. Parole profetiche, ma gettate al vento. 

Oggi la risposta del perché non si siano ascoltate le grida di allarme degli esperti, è affidata a una indagine interna. Così come si dovrà stabilire che fine abbiano fatto fondi – si parla di 2,3 milioni di dollari – che già dieci anni fa erano stati assegnati per i lavori sulle dighe. In questi giorni, si stanno affollando notizie completamente discordanti tra chi conferma il malfunzionamento delle pompe delle dighe, le autorità che sostengono che le dighe fossero in ottimo stato e chi avverte che altre potrebbero collassare

Di certo c’è che dal 2011 il paese non ha pace. La caduta di Gheddafi, se aveva dato l’impressione di liberare il paese da un dittatore al potere dal 1969, in realtà lo aveva gettato nel caos. Cosa già visibile pochi anni dopo. Oggi, questo paese ricco di petrolio, ma povero di opportunità per la sua popolazione (in termini di accesso a sanità, educazione, lavoro), rimane diviso e frammentato. Una frammentazione che non ha aiutato certo né a concentrarsi sulla crescita del paese o sul deterioramento delle sue infrastrutture, né ad affrontare questa emergenza. 

Dal 2014 la Libia è di fatto divisa tra due governi rivali, uno ad est, l’altro ad ovest, ognuno dei quali sostenuto da altri paesi, e con numerose milizie armate che si contendono spazi di potere e di azione. Il governo riconosciuto a livello internazionale è quello che ha sede a Tripoli ed è guidato dal primo ministro Abdul Hamid Dbeibah che avrebbe dovuto stare al governo di Unità nazionale fino alle elezioni del 2021 che però sono state rinviate. A Tobruk, invece, il primo ministro rivale, Ossama Hamad, guida l’amministrazione orientale, sostenuta dal potente comandante militare Khalifa Hiftar. 

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Nei primi giorni del disastro, in molti – a livello interno e tra la comunità internazionale – avevano fatto notare quanto pesasse questa divisione nell’affrontare l’emergenza e le operazioni di soccorso. In pratica, ci si sta muovendo separatamente, anche se c’è chi parla di un principio di cooperazione che vede impegnate le agenzie governative di tutto il paese. 

Intanto, è in atto un’altra tragedia, ancora fuori dai riflettori e riguarda il destino dei migranti presenti nelle aree colpite dall’uragano e poi dalle inondazioni. Si stima la presenza di oltre 700.000 rifugiati e migranti, anche se tracciarli al momento è assai difficile. Rifugiati e migranti provenienti non solo dall’Africa sub-sahariana. Per il momento, le autorità libiche hanno confermato la morte di 145 egiziani, di cui 74 lavoratori immigrati. Hanno perso la vita nel disastro anche decine di siriani, ma il loro numero potrebbe arrivare almeno a 150. Ed è probabile che molti non avranno mai un nome. Negli occhi dei sopravvissuti – che siano libici o migranti - rimane lo shock. Anche a questo, lo stress post traumatico, si dovrebbe far fronte. Ma, all’interno della tragedia e di quello che ancora porterà, questo rimane purtroppo un dettaglio. 

Immagine in anteprima: frame video Geopop via YouTube

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