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Le proteste in Libia tra crisi economica e sociale e lotte di potere irrisolte

14 Luglio 2022 8 min lettura

Le proteste in Libia tra crisi economica e sociale e lotte di potere irrisolte

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Un paese diviso. Una frattura che da anni non riesce a ricomporsi. La violenza che ha accompagnato l’uscita di scena di Gheddafi (nel 2011) negli anni non si è esaurita. Tutt’altro. Nelle ultime settimane una serie di proteste è scoppiata nelle strade di diverse città della Libia. E stavolta non si tratta solo di rivendicare il potere e la gestione delle ricchezze. Per strada sono scesi i cittadini, che lamentano l’aumento del costo della vita e la difficoltà crescente a far fronte alle necessità basilari. Una situazione che oggi fa i conti con l’emergenza globale ma che in questo paese così lacerato è l’ovvio e devastante effetto di anni di conflitto interno. 

In un report dello scorso anno era stata calcolata una perdita economica potenziale (a partire dagli anni successivi al 2011) pari a 783,2 miliardi di dinari libici (circa 158 miliardi di euro). Tutti i settori dell’economia sono stati colpiti dall’instabilità politica. Quelli macroeconomici legati per esempio agli investimenti come quelli della produzione interna, a cominciare dai settori delle costruzioni e dell’agricoltura. Insomma la cosiddetta transizione si sta rivelando un disastro e a distanza di pochi mesi ha senso definire quella libicauna tempesta perfetta scatenata sia dai nuovi azzardi politici sia da un'eredità di lotte di potere irrisolte”. Una tempesta in cui tentativi di approvare il bilancio dello Stato, di allocazione di risorse e di ricostruzione di tutto quello che negli anni di guerra civile è andato distrutto (infrastrutture in primis) non trovano una concreta disposizione ma sono oggetto di ricatti e di improbabili accordi tra le forze in campo. 

Ma vediamo quali sono gli azzardi politici e le irrisolte lotte di potere. In Libia non c’è un governo, ce ne sono due. Quello istituito a marzo dello scorso anno, con sede nazionale a Tripoli, nato da un processo politico guidato dalle Nazioni Unite. Si tratta di un governo di transizione - a capo il primo ministro Abdelhamid Dbeibah - che avrebbe avuto lo scopo di porre fine ad oltre dieci anni di caos e di condurre alle elezioni, nel dicembre 2021. Il caos purtroppo permane e le elezioni sono state rinviate. Prima a gennaio di quest’anno (anche queste saltate) e ora, chissà… L’altro governo ha sede a Tobruk ed è guidato dal premier designato dal Parlamento libico (House of Representatives), Fathi Bashagha, che più di una volta ha provato con le sue milizie ad assaltare la sede di governo nella capitale e prenderne possesso. Ex ministro degli Interni nel governo riconosciuto dall’ONU (a dimostrazione di come cambia in fretta lo scacchiere in questo Paese) Bashagha è fortemente sostenuto dal maresciallo della Cirenaica Khalifa Haftar, a capo del Libyan National Army (LNA), per anni braccio destro di Gheddafi e poi – dopo essere stato messo da parte – sostenitore della rivolta per la sua destituzione. Un governo ad Ovest, l’altro ad Est: perfetta sintesi della divisione netta (quella frattura che tarda a ricomporsi) del paese. Uno scisma che risale al 2014, con la seconda guerra civile, appena tre anni dopo la violenta caduta di Gheddafi (la prima era stata quella del 2011, appunto, combattuta tra le forze leali a Gheddafi e i gruppi ribelli che volevano destituirlo). 

Ad alimentare tale divisione, a nutrirla e di fatto a rendere tutta la situazione altamente complessa e frammentata, sono le alleanze che nel corso degli anni si sono costituite intorno ai protagonisti principali della storia libica del dopo-Gheddafi. Dbeibah, noto per il suo sostegno ai Fratelli Musulmani e l’amicizia con la Turchia può contare su quest’ultima, naturalmente sulla NATO ma anche su combattenti siriani inviati dal presidente turco Erdogan. Questo avveniva già nel 2020 quando si trattava di sostenere il Governo di Accordo Nazionale (GNA) – quello riconosciuto dall’ONU e nato nel 2016 sotto la guida di Fayez al-Sarraj. Un sostegno che si è automaticamente esteso al Governo di Unità Nazionale (GNU) istituito lo scorso anno e che avrebbe dovuto mettere insieme le due anime politiche e amministrative del Paese. Cosa al momento fallita. Le dimissioni di al-Sarraj e il conseguente passaggio di potere a Dbeibah non hanno ricucito affatto le tensioni. Anzi. Oltretutto, l’annuncio di quelle dimissioni non furono accolte di buon grado dal presidente turco, cosa che diede adito a una serie di speculazioni. Tra le ipotesi del disappunto di Ankara la possibile messa a rischio di accordi economici tra i due paesi – tra cui lo sfruttamento di giacimenti di petrolio e il controllo di scali marittimi – nel caso di una nuova leadership successiva ad al-Sarraj. Pericolo che sembrerebbe scongiurato visto che il sostegno turco – insieme a quello italiano – è stato recentemente ribadito. 

Ma anche il “governo di Tobruk” che ha il braccio forte in Khalifa Haftar ha i suoi fedeli alleati: Emirati Arabi Uniti, Qatar, il confinante Egitto, in modo più o meno segreto la criticata Francia e la Russia. E qui entrano in gioco i mercenari di Wagner, qui schierati come in molti altri Paesi africani. Ma, quelli che una volta si chiamavano soldati di ventura, sono in forza da una parte e dall’altra. Del resto non potrebbe essere altrimenti, la frammentazione del paese si estende anche alle forze militari e la lealtà è una merce da acquistare in denaro. Se Erdogan ha potuto “aiutare” il governo di Tripoli con migliaia di combattenti (e tanti volontari/mercenari) siriani, Haftar può contare su quelli provenienti da diversi Stati: Chad e Sudan comprese le milizie del Darfur. E perfino quelli forniti da Blackwater, la compagnia di sicurezza privata fondata da Erik Prince, ex navy seals, amico di Donald Trump e accusato di aver aggirato l’embargo degli USA alla vendita delle armi in Libia. In questi anni, poi, in particolare Egitto ed Emirati hanno inviato alla LNA aerei, elicotteri militari e altri armamenti. Insomma, la Libia ha un problema con i mercenari. Ma anche con le milizie islamiche – e anche in questo caso entra in gioco la frammentazione tipica della Libia. Queste operano secondo le divisioni ideologiche ma anche geografiche alleandosi e sostenendo una o l’altra parte. 

Dicevamo dei mercenari. Il loro uso non solo sfrutta la disperazione di giovani senza lavoro e futuro ma porta alla commercializzazione del conflitto, cosa che naturalmente finisce per destabilizzare ancora di più il territorio ma anche di peggiorare e moltiplicare le ragioni del conflitto. Per cosa si combatte, per quale autorità? Insomma, fina da subito, il conflitto libico si caratterizza per essere “il primo conflitto totalmente privatizzato della storia moderna”. Uno stato di cose che non ha fatto che aumentare la paura e le violenze sui cittadini. Parla chiaro l’ultimo report di una missione del Consiglio dei Diritti Umani dell’ONU. Violazioni contro migranti, rifugiati, richiedenti asilo, ma anche contro la società civile libica: attivisti, donne impegnate in politica, giornalisti. Crimini – tra questi torture, minacce, stupri, detenzioni arbitrarie – perpetuati in un clima di assoluta impunità. E Amnesty International ha denunciato di tali crimini e impunità la stessa Stability Support Authority (SSA), una milizia creata su decreto del Governo di Tripoli lo scorso anno e comandata da Abdel Ghani al-Kikli, noto come “Gheniwa”, nominato nonostante la ben documentata storia di crimini e altre gravi violazioni dei diritti umani commesse dalle milizie sotto il suo comando. La SSA è tra l’altro “impegnata” nelle operazioni di intercettazione di migranti e rifugiati e del loro trasferimento nei terribili centri di detenzione del Paese. 

Ma torniamo alla situazione di stallo politico. Le due parti – i due governi del paese – non riescono a trovare alcun punto di incontro, meno che mai sulla nuova Costituzione la cui bozza è stata approvata nel 2017 e ancora di più oggi Fathi Bashagha ritiene che la compagine sostenuta dall’ONU debba terminare un mandato voluto in vista di elezioni che alla fine non si è riusciti ad organizzare. Dal canto suo Dbeibah dichiara che lascerà il suo posto solo a un successore democraticamente eletto. Bashagha, comunque, non sembra avere una così forte autorità come il suo ruolo dovrebbe suggerire. A lui ci si riferisce addirittura come l’“utile idiota” di Aguila Saleh, capo di Stato dal 2014 al 2016, di Haftar e persino del suo rivale, Dbeibah. E qui arriviamo a quella che molti analisti descrivono come la base dei problemi della Libia, la sua élite. Quell’élite che, da una parte e dall’altra reclama a gran voce (e con violenza) autorità e che negli anni ha generato il disgusto degli stessi cittadini che vorrebbe governare. È il gioco di generare divisione pur di mantenere un potere acquisito (anche) dalla corruzione e dalla volontà di accaparrarsi il controllo delle risorse del paese. 

Le violenze degli ultimi giorni sono la dimostrazione di come tale situazione di stallo potrebbe innescare ulteriori scontri su più larga scala e porre fine alla relativa pace che era stata avviata da un processo di riconciliazione e alla speranza concentrata nella Berlin Road Map dell’ONU che implica lo smantellamento e la rinuncia di quelle istituzioni militari e gruppi armati causa del conflitto e il ritorno alla politica vera. E invece, ancora una volta mezzi militari armati sono entrati nella capitale provocando scontri e paura tra la popolazione. Altre proteste si sono verificate sia nei pressi del Parlamento a Tripoli (con tentativo di assalto da parte della popolazione) sia a Tobruk. Segno della stanchezza dei cittadini che denunciano le violenze delle milizie armate, chiedono di abbassare il prezzo del pane e di garantire il servizio elettrico. 

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A esacerbare la situazione economica è stata la chiusura degli impianti petroliferi nell’Est del paese da parte dei sostenitori del governo di Bashagha nel tentativo di fare pressione sul governo di Dbeibah affinché si dimetta. Un danno pari a 60 milioni di dollari al giorno e con la produzione scesa dell’85%. Una situazione – quella economica e legata alla sicurezza – che colpisce fortemente la popolazione libica. Secondo l’ONU, oltre 800.000 persone – su una popolazione di 7 milioni di abitanti hanno bisogno di assistenza umanitaria. Un effetto delle divisioni politiche e dell’assenza di un bilancio approvato e che quindi possa essere utilizzato per il miglioramento delle infrastrutture e servizi primari, come acqua, sanità ed educazione. 

Per non parlare della condizione dei migranti. Il Displacement Tracking Matrix (DTM) dello IOM ne conta (dati aprile 2022) 649.788 appartenenti a 41 diverse nazionalità. Una tendenza che torna in aumento dopo il calo del 2020 e in parte del 2021 per la pandemia. Persone che non sono esseri umani. Non per coloro che li tengono in lager che (questi sì) non hanno mai smesso di funzionare a pieno regime. Campi di detenzione dove migliaia di persone vivono in condizioni disumane mentre aspettano che le milizie, l'Unione Europea e le Nazioni Unite decidano il loro destino. Ufficialmente amministrati dal governo libico, in realtà sono le milizie a controllarli. Lo racconta bene – con testimonianze e immagini dirette – il documentario di Sara Creta, Libya: No escaper from hell. I migranti: una fonte di guadagno certa per miliziani e gente senza scrupoli per cui la tortura e la detenzione sono mezzi per estorcere denaro a chi vorrebbe tentare di arrivare in Europa. Perché l’inferno libico – questo paese diviso, fratturato, complicato - avrebbe dovuto rappresentare soltanto una tappa, non l’inizio di un incubo. 

Immagine in anteprima: Frame video Guardian via YouTube

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