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La lettera dei 150 intellettuali contro la “cancel culture” è fuori dalla realtà

12 Luglio 2020 14 min lettura

La lettera dei 150 intellettuali contro la “cancel culture” è fuori dalla realtà

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Martedì 7 luglio, sul sito della prestigiosa rivista americana Harper’s magazine, è apparsa una lettera firmata da circa 150 intellettuali – tra cui accademici, giornalisti e scrittori. Il testo, dal titolo "Una lettera sulla giustizia e il dibattito aperto" (qui la traduzione), denuncia un clima ostile nei confronti del “libero scambio di idee e informazioni”, dominato da "un’intolleranza per le opinioni diverse, l’abitudine alla gogna pubblica e all’ostracismo, e la tendenza a risolvere complesse questioni politiche con una vincolante certezza morale". La lettera termina con un appello a "preservare la possibilità di essere in disaccordo in buona fede, senza timore di catastrofiche conseguenze professionali", e si rivolge ad ampio spettro al campo politico progressista. O, quanto meno, a chi non si riconosce apertamente nella presidenza Trump:

Le forze illiberali si stanno rafforzando in tutto il mondo e hanno un potente alleato in Donald Trump, che rappresenta un pericolo reale per la democrazia. Ma la resistenza non deve irrigidirsi fino ad abbracciare dogmatismo e coercizione - che i demagoghi di destra stanno già sfruttando. L’inclusione democratica che vogliamo può essere raggiunta solo se parliamo a voce alta contro il clima di intolleranza che sta montando in entrambi gli schieramenti.

La lettera è stata letta come un appello contro la “cancel culture”, ovvero quella forma di boicottaggio promossa online con cui ci si dissocia da aziende o celebrità che hanno manifestato comportamenti controversi od oltraggiosi. Come per la campagna #MuteRKelly, nata per togliere il sostegno economico al cantante R-Kelly e farlo incriminare per abusi sessuali. L’espressione "cancel culture" non compare nella lettera (ma si punta l'indice contro "l'ostracismo e la pubblica umiliazione"), anche perché “cancel culture” sta diventando un frame cavalcato dalla destra, in particolare quella americana, che la applica in pratica a qualunque forma di protesta che passi per l'attivismo o abbia un qualche elemento di denuncia.

Una tendenza che si è vista anche di recente, come risposta al movimento di Black Lives Matter. Nell’impossibilità di arginare l’ondata antirazzista, la destra americana ha cercato soprattutto di deviarne l’impatto o agitare le acque. Mentre il discorso di Trump per il 4 luglio (Festa dell'Indipendenza), ai piedi del Monte Rushmore, ha citato la “cancel culture” per meglio veicolare la criminalizzazione del dissenso politico. Ne cito alcuni passi:

Una delle loro armi è la cultura della cancellazione, che fa perdere il lavoro alle persone, umilia chi dissente e pretende totale sottomissione da chi non è d’accordo. Questa è la vera definizione di totalitarismo, ed è completamente aliena alla nostra cultura e ai nostri valori e non ha alcun posto negli Stati Uniti d’America. Questo attacco alla nostra libertà, alla nostra magnifica libertà va fermato, e sarà fermato molto velocemente. [...] Nelle nostre scuole, nelle nostre redazioni, persino nei consigli di amministrazione delle aziende, c’è ora un fascismo di estrema sinistra che pretende assoluta obbedienza. Chi non parla il suo linguaggio, non pratica i suoi rituali o non recita i suoi mantra ne segue i comandamenti viene censurato, ostracizzato, messo all’indice, perseguitato e punito. Questa rivoluzione culturale della sinistra è progettata per sovvertire la Rivoluzione Americana. [...] Per renderlo possibile, sono determinati a buttare giù ogni statua, simbolo o memoria della tradizione di questo paese.

Uno dei principali promotori della lettera, l’editorialista di Harper’s Thomas Chatterton Williams, ha dichiarato al New York Times che la tempistica di pubblicazione è stata uno dei fattori presi in considerazione. “Non volevamo che la lettera sembrasse una risposta a quelle proteste che crediamo siano una risposta ai vergognosi abusi della polizia”. Dopo vari giorni di copertura mediatica possiamo dire che l’intento di non farsi strumentalizzare è fallito. A meno che non si voglia sposare l’interpretazione che ne ha dato Richard Kim, direttore esecutivo dell’Huffington Post che si è rifiutato di firmare la lettera, reputandola una boriosa trollata.

A volerla prendere sul serio, è invece un’iniziativa infelice a partire proprio dalla tempistica, considerato anche che la lettera uscirà nell’edizione cartacea di Harper’s di ottobre, il mese prima delle presidenziali, nonché Black History Month (la ricorrenza del "mese della storia dei neri"). Inoltre il tono allusivo dei suoi autori – sempre Williams ha spiegato al NYT che la lettera è frutto del lavoro collettivo di circa 20 persone – è sembrato a molti doloso. Restare vaghi significa non prendersi fino in fondo la responsabilità dei propri intenti, tenere un piede nel Rubicone senza varcarlo. Le espressioni più generiche o astratte presenti nel testo possono poi sembrare dei sottintesi che occultano posizioni più radicali. Così la presenza di firme controverse, come Jessie Singal o Joanne Rowling, entrambi accusati in passato di transfobia, non ha certo aiutato la ricezione del messaggio. Come non ha giovato la loro ipocrisia nel gestire chi, dopo la pubblicazione, ha ritirato la propria firma dalla lettera. È il caso di Jennifer Finney Boylan, scrittrice e donna trans, che ha dichiarato di non aver saputo prima chi fosse presente tra i firmatari e di essere convinta che fosse una lettera contro l'online shaming, beccandosi gli sfottò bulleschi di Singal e Rowling.

L’eco della lettera, visto anche il numero e l’autorevolezza dei firmatari – tra gli altri figurano Noam Chomsky, la già citata Rowling, Margareth Atwood e Salman Rushdie – ha alimentato fin da subito un dibattito molto acceso ed esteso, che ha visto importanti voci sollevarsi nel criticare l’iniziativa, sia sulle testate tradizionali, come il Guardian, sia su piattaforme come Twitter. E qui già bisognerebbe muovere una critica alla lettera e a tutti quelli che sollevano gli scudi attorno a essa: si banalizzano concetti come dissenso e libertà di espressione, criminalizzando il boicottaggio come forma di protesta.

Dal punto di vista dei contenuti, il primo effetto della lettera è quello di ingabbiare l’attivismo – soprattutto digitale – nello stereotipo della folla inferocita, o dell'arrabbiato. Viene perciò da chiedere: le critiche all’iniziativa, via Twitter o attraverso altre piattaforme online vanno considerate “cancel culture”, pure se arrivano da persone che, in materia di libertà di espressione, ne sanno più dei firmatari stessi? La piattaforma connota il messaggio più del messaggio stesso o dell’emittente? Chi decide di disdire l’abbonamento ad Harper’s per protesta esprime un suo diritto di consumatore, o di semplice persona con delle idee politiche, oppure manifesta una forma di censura? Nell'ultimo caso, è censorio disdire l’abbonamento in sé o l’accompagnare la disdetta con una dichiarazione pubblica? Sono domande centrali, perché se consideriamo la “cancel culture” un pericoloso fenomeno, allora diventa più ammissibile l’idea di limitare il boicottaggio per legge. Oppure dobbiamo considerare la campagna #StopHateforProfit una forma di “cancel culture” diretta contro Facebook e Mark Zuckerberg.

Sulla banalizzazione del concetto di libertà di espressione è interessante la posizione di Jillian York, attivista della Electronic Frontier Foundation, per cui dirige il progetto Onlinecensorship.org. In un thread su Twitter, York ha elencato alcuni dei temi centrali, nel panorama internazionale odierno, sulla libertà di espressione, facendo notare come siano assenti nella lettera di Harper’s. O facendo notare come alcuni dei firmatari si siano contraddistinti per un’azione tesa a limitare la libertà di espressione in quegli ambiti. Dice York:

Come attivista della libertà di espressione, quello che mi colpisce di più dei firmatari è che nessuno di loro ha mai detto nulla su quelli che ritengo essere alcuni dei temi più urgenti da affrontare in questi tempi:

  • La soppressione sistematica (sempre online) di qualunque voce considerata dal Dipartimento di Stato “terrorista”, senza alcun giusto processo, danneggiando così gravemente ambiti come la satira, il dissenso e la storia. Nessun commento dei firmatari a riguardo;
  • La soppressione delle voci palestinesi da parte dei campus universitari, delle piattaforme online e del governo israeliano. Non solo pochi tra i firmatari ne hanno parlato, ma alcuni si sono espressi a favore;
  • L’iniquità di trattamento sulle piattaforme social delle voci LGBTQ+, di sex worker o di chiunque sia legato a tematiche sessuali. Non solo pochi tra i firmatari ne hanno parlato, ma alcuni di loro hanno sostenuto una legge per sopprimerle.

Per chi ha firmato la lettera di Harper’s, il diritto di esprimere odio è più importante di ogni altro discorso, e questo è ciò che mi disgusta maggiormente.
Altri ambiti su cui non ho visto commenti da parte della cricca di Harper’s [a eccezione di Chomsky, come segnalato da alcuni commenti al thread - NdA]:

  • Il giro di vite del governo egiziano contro i dissidenti;
  • La sistematica cancellazione della storia siriana su YouTube;
  • L’illegittimo ricorso all’Espionage Act contro Julian Assange.

Un altro aspetto controverso riguarda i casi portati a mo' di esempio nella lettera, dove si legge:

Direttori sono licenziati per aver sostenuto articoli controversi, libri sono ritirati per le accuse di inautenticità, ai giornalisti è vietato scrivere su alcuni argomenti; i professori sono indagati per la menzione di opere letterarie in classe; un ricercatore è licenziato per aver fatto circolare uno studio accademico; e i vertici delle organizzazioni sono rimossi per quelli che a volte sono solo dei goffi errori.

Sono messi per l’appunto in modo generico, eppure si riferiscono a episodi specifici, che gli addetti naturalmente possono dedurre, ma il grande pubblico magari no. È un modo mistificatorio di evocare una caccia alle streghe, rendendo difficile valutare la realtà effettiva del pericolo, la portata delle persecuzioni dogmatiche. Questo aspetto è stato criticato e analizzato in dettaglio da una controlettera pubblicata venerdì su The Objective, firmata da alcuni giornalisti di colore, accademici e professionisti – alcuni sono rimasti anonimi per evitare possibili ritorsioni lavorative (nella controlettera, tra le varie critiche, si fa notare qualche opacità nel modo in cui Harper’s ha comunicato l’iniziativa ai potenziali firmatari).

Il primo caso menzionato riguarda James Bennet, l’editor della sezione commenti del New York Times. Bennet si è dimesso a giugno (non licenziato), dopo che una rivolta pubblica da parte di molti collaboratori e redattori della stessa testata aveva puntato l’indice contro la decisione di pubblicare l’articolo del senatore Repubblicano Tom Cotton. Nell’articolo erano presenti molte inesattezze, ma soprattutto si invitava a mandare l’esercito contro i manifestanti di Black Lives Matter.

Leggi anche >> Cosa succede se il New York Times pubblica un “commento fascista”

Resta da capire perché se un giornalista di colore del New York Times dichiara pubblicamente di sentirsi in pericolo, per un articolo pieno di informazioni false che incita all’odio razziale, sta danneggiando la libertà di parola, mentre se un giornalista della stessa testata firma la lettera di Harper’s sta agendo anche per il bene del primo. Come resta da capire perché un attivista di Black Lives Matter abbonato al New York Times debba continuare a pagare una testata dove in pratica si esorta a sparargli contro, in un articolo che l’editor della sezione nemmeno ha letto prima di decidere per la pubblicazione (lo stesso editore del New York Times ha parlato di una "significativa frattura nei nostri processi di revisione degli articoli"). Il “libero scambio di idee e informazioni” si fonda sulla costrizione a restare abbonati?

Quanto ai libri ritirati per inautenticità, il riferimento potrebbe essere ad American dirt, libro di Jeanine Cummins molto attaccato per la sua stereotipata rappresentazione dei messicani. Ma allora le autrici messicane che hanno criticato il libro, come Myriam Gurba o Esmeralda Bermudez, sono delle inquisitrici digitali o hanno esercitato un diritto? Le stroncature vanno limitate? Il libro in ogni caso non è stato ritirato, sebbene a gennaio i tour promozionali siano stati sospesi per tutelare l’incolumità dell’autrice. Fatto grave che ovviamente è giusto condannare, ma proprio per questo andava denunciato in modo esplicito. È stato invece ritirato prima della pubblicazione il libro di Naomi Wolf, Outrages, a causa delle grossolane imprecisioni presenti.

Ma parlando di libri osteggiati, se vogliamo avere un parametro di riferimento di pressioni indebite, almeno per gli Stati Uniti, basta guardare all’American Library Association, che pubblica ogni anno una lista dei 10 libri più contestati, in modo da informare correttamente sullo stato della censura nelle biblioteche o nelle scuole. Si tratta di libri che per le loro tematiche sono osteggiati da associazioni, o di cui è chiesto con varie forme di protesta il ritiro. Come ricordato – ancora su Twitter – dalla giornalista di Vox Katelyn Burns, nel 2019 il libro più censurato è stato George, la storia di una giovane ragazza trans. Dei primi 10, ben 7 sono censurati perché presentano tematiche LGBTQ+. Tra i libri più contestati sono presenti anche Il racconto dell’ancella di Margareth Atwood (per “profanità e per eccesso di volgarità e riferimenti sessuali") e la Saga di Harry Potter di JK Rowling (per i “riferimenti alla magia e alla stregoneria”). A quanto pare negli USA esiste un politicamente corretto conservatore e cristiano, ed è molto bravo a cancellare testi. Chi l’avrebbe mai detto, eh?

Il terzo caso cui si fa riferimento nella lettera di Harper’s è talmente vago da non poter essere rintracciabile, e considerando quanto e come si espone un giornalista che denuncia pubblicamente censure su articoli, il restare vaghi appare ancora una volta meschino, proprio perché proviene da chi può permettersi di fare nomi e cognomi. Inoltre, come fa notare la controlettera di The Objective “ai giornalisti di colore è impedito da decenni di scrivere su certi argomenti, a causa di una percepita mancanza di ‘obiettività’”. Quanto ai professori indagati, gli unici due casi divenuti popolari in tempi recenti sono quelli di Laurie Sheck, che ancora insegna, e di Lawrence Rosen, che ha cancellato il proprio corso pur avendo il pieno sostegno dell'Università di Princeton, dove è professore emerito dal 2017. Il quinto caso, il ricercatore licenziato per aver fatto circolare uno studio, può persino essere considerato una mezza bufala, o una distorsione. Come spiegato da Thomas Chatterton Williams al New York Times, si tratterebbe di David Shor, e il condizionale è d’obbligo perché non c’è nessun commento ufficiale sui motivi del suo licenziamento.

Ultimo caso è quello dei capi di organizzazioni rimossi per “quelli che a volte sono solo goffi errori”. Ancora Williams menziona tra i motivi che l’hanno spinto a creare l’iniziativa per Harper’s le dimissioni di protesta che hanno coinvolto National Book Critics Circle e la Poetry Foundation. Ma nel primo caso le dimissioni sono arrivate dopo che l’ex presidente e membro del direttivo Carlin Romano ha dichiarato – in uno scambio di mail reso pubblico su Twitter – di “aver visto molti più bianchi aiutare scrittori neri che neri aiutare scrittori bianchi”, nell’opporsi alla proposta di sostenere con l’associazione il movimento Black Lives Matter. Mentre il presidente della Poetry Foundation e il direttore del suo CDA si sono dimessi lo scorso giugno perché contestati da 30 poeti che hanno scritto una lettera aperta, criticando l’appoggio generico e formale dell’associazione alle proteste, e chiedendo oltre alle dimissioni del presidente degli impegni concreti, vista anche l’enorme disponibilità economica della Fondazione. Ora perché delle persone di colore dovrebbero sentirsi danneggiate dalla lettera di quei poeti, e tutelate da Harper’s?

Vediamo come, passati in rassegna i casi di streghe bruciate dalla folla inferocita, la lettera di Harper’s non solo si poggia su casi non esplicitati, ma probabilmente gli autori li hanno in parte persino distorti in modo strumentale o mendace. Ma c’è un ultimo punto che va preso in considerazione, a beneficio non soltanto di chi vuole farsi un’opinione sull’episodio specifico, ma in generale ogni qual volta si parla di libertà di espressione, di “politicamente corretto” e di “cultura della cancellazione”, facendo finta che gli ultimi due siano i mali della nostra epoca e che la prima sia un diritto illimitato. Cito dalla lettera:

Le cattive idee vanno sconfitte smascherandole, argomentando e attraverso la persuasione, non cercando di silenziare o sperando che se ne vadano via.

Questa retorica sulle cattive idee da sconfiggere a parole è anti-empirica: le vittime della brutalità poliziesca, per esempio, non sono morte perché scarse a spiegarsi. Così come le persone uccise dai suprematisti – che esistono grazie alle risorse, alle piattaforme e agli spazi che sono loro resi disponibili per la propaganda e il proselitismo – non sono morte per scarsità di argomenti. Pensare che discorsi pubblici e azioni siano binari paralleli è completamente irreale. Può permettersi "il mercato delle idee" solo chi ha garantita l’incolumità o una relativa sicurezza. Inoltre questa retorica di principio sulla libertà di espressione nega l’esistenza dell’intolleranza costitutiva.

L’intolleranza costitutiva, infatti, è quel grado di intolleranza che caratterizza una società e che, in un dato momento, noi sappiamo rendere talune opinioni o argomenti sconvenienti – o persino illegali. C’è un motivo se, per esempio in Italia, nessun politico si sogna di paragonare gli ebrei ai topi, o suggerisce di spazzarli via, o censirli, mentre tutto sommato è accettabile dire lo stesso dei rom. Questo perché a prescindere dalle leggi in vigore l’antisemitismo è meno tollerato dell’antiziganismo. Prendete ovunque nel mondo un paladino della libertà di espressione senza se e senza ma, uno strenuo eroe che si erge contro la “dittatura del politicamente corretto” e restate in attesa. Prima o poi lo vedrete applaudire al licenziamento di questo o quell’insegnante, o di un altro professionista che ha proferito opinioni viste come vergognose secondo la scala di valori di quel paladino. Chi auspica una libertà di espressione illimitata non lo fa mai fino in fondo, ma all'occorenza sa quando girarsi dall'altra parte; se lo facesse fino in fondo dovrebbe promuovere attivamente l’abolizione di reati quali diffamazione, calunnia o istigazione a delinquere.

Se ritorniamo sulle sponde americane e alle “cattive idee” della lettera di Harper’s, vediamo come l’intolleranza costitutiva si è vista in anni recenti proprio nella composita galassia dell’estrema destra americana, quella di siti come Breitbart, che flirtano senza problemi con i suprematisti bianchi. In quell’ecosistema l'incitamento all'odio e l'oltraggio sono spesso coperti dalla cappa retorica della “provocazione”, dei richiami al Primo Emendamento o della sfida al "politicamente corretto" e così via. Ma anche i più oltraggiosi e offensivi troll di quella galassia conoscono la censura da parte di chi, fino a un attimo prima, li esaltava tenendoli in palmo di mano. Milo Yiannopoulos, per esempio, è stato costretto a licenziarsi da redattore di Breitbart dopo aver dichiarato in un’intervista che i rapporti tra i ragazzi 13enni e gli adulti si possono considerare consenzienti. Katie McHugh nel 2017 era un astro nascente di Breitbart, molto attiva su Twitter nell'offendere i musulmani. Eppure è stata licenziata proprio quando, dopo l’attentato di Londra del giugno di quell'anno, in un tweet ha dichiarato “Non ci sarebbero attacchi terroristici né vittime in Gran Bretagna se i musulmani non ci vivessero”.

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Nel mondo in cui vivono i firmatari della lettera di Harper’s quei licenziamenti sono stati ingiusti, le polemiche per quell’intervista e quel tweet avrebbero dovuto lasciare il passo a precise confutazioni, a dibattiti pubblici come “Sesso coi 13 anni: pedofilia o amore consensuale?” o “Musulmani: possiamo farne a meno?”. Insomma, la libertà di espressione così come viene intesa dalla lettera di Harper's è una questione di potere, non un diritto. E quel potere sembra di colpo spaventato dal fatto che una certa comfort zone sia messa in discussione. Ma fuori da quella comfort zone – o alle sue estreme periferie – si è sempre vissuto così, anche nelle civilissime democrazie occidentali; si è sempre sfidato qualche limite nel reclamare spazi fisici, o legittimità per le proprie idee, per la propria condizione. Come scritto da Billy Bragg sul Guardian:

Molti tra quelli che hanno firmato la lettera sono autorità culturali di lunga data che, nel passato, avevano da temere solo la disapprovazione dei loro pari. I social media hanno fatto scoppiare la loro bolla, così ora chiunque con un account Twitter può sfidarne l'opinione. La lettera è la loro richiesta per una zona protetta.

Perciò l’unica e più sintetica risposta che si può dare ai 150 della lettera di Harper's è “benvenuti nel XXI secolo”.

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