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Lavoro e disabilità: perché le parole della Ministra Stefani mi preoccupano

13 Luglio 2021 7 min lettura

Lavoro e disabilità: perché le parole della Ministra Stefani mi preoccupano

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Nelle sue ultime interviste e nel suo intervento al Festival del Lavoro dello scorso aprile, la Ministra per le Disabilità, Erika Stefani, ha insistito sul tema del lavoro per le persone con disabilità. Un argomento fondamentale su cui occorre impegnarsi, perché il lavoro è una componente che permette ai disabili di rieducarsi, formarsi e vivere le relazioni e che permette loro di fare veramente parte della società.

Secondo la Ministra, “servono figure competenti, dotate di metodo e strumenti. Occorre dunque introdurre anche nel nostro paese quella 'cultura del disability management' che, credo, proprio a partire dai centri per l’impiego, potrebbe risultare di estrema utilità nel favorire una effettiva inclusione lavorativa delle persone con disabilità. Sono inoltre convinta che siano molteplici gli ambiti dove l’azione e la cultura del disability manager potrebbero trovare applicazione, e tutti in grado di favorire una diffusione di valori e comportamenti orientati all’inclusione”. Inoltre, afferma che “il futuro del nostro paese dovrà essere 'disability friendly'”.

Vorrei chiedere alla Ministra di spiegare bene cosa intenda esattamente per "disability friendly" e quando dice: "Oggi un'azienda definita 'green', per aver adottato criteri specifici, è ritenuta più appetibile e più performante. Dobbiamo attuare una vera rivoluzione culturale che incentivi le aziende a distinguersi anche sotto il profilo di inclusione e accessibilità, creando occasioni di lavoro per le persone con disabilità".

Vorrei chiederle se con queste affermazioni si tenga conto del fatto che in Italia c’è la Legge 68/1999 per cui un'azienda con un minimo di 15 dipendenti ne deve assumere almeno uno con disabilità. Una legge che, tra l’altro, in questi 22 anni di vita non ha mai messo in atto il Decreto Legislativo 151/2015 per cui dovevano essere attuate le Linee Guida per il Collocamento Mirato per i lavoratori disabili e sulla creazione di una banca dati nazionale.

Vorrei anche chiedere se ci si accorga che con la frase “creare opportunità/lavoro per le persone disabili” non si tenga minimamente conto del fatto che  le disabilità sono molteplici e diverse e il “creare lavoro per” non vuol dire inclusività. Per niente. E infine, una domanda, il problema è normativo o culturale? Forse entrambe le cose.

L’argomento lavoro/disabilità mi sta molto a cuore e certe affermazioni di Erika Stefani mi spaventano perché nella mia esperienza lavorativa ci sono tutte le dinamiche che accompagnano la vita di una persona disabile nel mondo del lavoro. Sono stata assunta tramite ufficio di collocamento delle categorie protette vent’anni fa, in un’azienda neonata nel mondo della finanza. Ho dovuto faticare parecchio per far comprendere le mie capacità e, alla fine, ho avuto lavori di grandi responsabilità, sempre eseguiti con precisione e snellezza perché questo è il mio modo di lavorare, un po’ sabaudo, forse, ma non solo. Nel mondo del lavoro, una persona disabile deve dimostrare sempre qualcosa in più rispetto agli altri, è sempre messa alla prova, costantemente sotto stress. La mia preoccupazione principale, ad esempio, è sempre stata quella di non essere esclusa dalla possibilità di vedere e svolgere nuove attività. E, forse, nei primi anni questo obiettivo l’avevo raggiunto. Non sono mai arrivati i premi perché, come mi disse un volta un responsabile, "tu usufruisci della Legge 104, come fai a pretendere un livello?" Questa Legge 104, che diventa ogni anno di più una sorta di privilegio e non un diritto del lavoratore con disabilità e/o malattia, una sorta di divertente presa in giro (qui cos’è la Legge 104). Spesso non si coglie la gravità di un’affermazione, soprattutto in un mondo in cui vi è un’idea diffusa  che chi usufruisce di un proprio diritto tolga qualcosa a qualcun altro. 

Dopo molti anni, la mia prima azienda ha subìto una prima fusione, che io ho percepito come un vantaggio. I sindacati si erano battuti per premiare i lavorati ignorati per 15 anni e tutti, anche io, abbiamo avuto un livello. Il nuovo capo e la nuova responsabile mi hanno dato un ruolo preciso che tranquillizzava loro e me che mi sentivo parte integrante del gruppo di lavoro. Ad oggi, non so quanto ci fosse di vero. Voler essere gratificati per le proprie competenze non deve mai diventare una battaglia quotidiana. Per sentirmi valorizzata, io ho introiettato e accettato l’abilismo nei miei confronti.

Funziona sempre per quel senso di colpa atavico che, in un ambito lavorativo, si traduce in ansia da prestazione. La persona disabile si sente in dovere di dimostrarsi grata quando le si dà un minimo di riconoscimento. Il mio capo aveva nei miei confronti un atteggiamento abilista che si può riassumere in due parole: stima eccessiva. Sotto quasi ogni aspetto, sicuramente quello culturale, personale e caratteriale; quasi mai lavorativo. Accettare il suo abilismo è stato, per me, sperare di essere riconosciuta a livello professionale. Non penso mi importasse veramente essergli simpatica. Il mio interesse era che mi vedesse per le mie competenze. Non è mai successo, ma per questo suo atteggiamento fintamente aperto io mi sono sentita in dovere di ringraziarlo.

Con la nuova fusione, mi è stato dato un ruolo farlocco di “referente di back office”. Farlocco perché, in pratica, sono diventata la referente di me stessa. Farlocco perché in un ufficio in cui il principale mezzo di comunicazione era il telefono e avendo io difficoltà nel linguaggio, la mia figura fondamentalmente non serviva a nulla. Farlocco perché era stato creato per me e ciò che mi competeva era schiacciare un tasto. Al solo scopo di  essere coinvolta maggiormente nell’attività dell’ufficio, mi sono proposta per un ruolo ancora vacante e di maggiore responsabilità. La risposta ricevuta è stata “sarebbe stato bello poter rompere gli schemi, ma certa gente avrebbe potuto inorridire all’idea”.

Partiamo da qui. La risorsa disabile era un valore aggiunto all’ufficio e a se stessa finché rimaneva nel posto che si era pensato per lei. Ecco perché ritengo il creare lavoro per disabili sia una frase molto pericolosa, perché si rischia di relegare il disabile in un angolo, di escluderlo, di non sfruttare al meglio le sue facoltà e competenze. Infatti, nel momento in cui la risorsa ha chiesto di più, è diventata improvvisamente un problema. Come lo si risolve?  Nel mio caso, una volta che ci si è resi conto del danno, si è cercato di recuperare in modi diversi e non certo per far stare meglio me. Sono state fatte telefonate salvifiche in mia presenza, dove si pretendeva che la mia figura fosse valorizzata con lavori più “seri” (e dimostrando di non capire, così, il mio discorso sull’inclusione). Sono stati fatti gesti personali, rispondendo a richieste effettuate mesi prima e lasciate, fino a quel momento, cadere nell’oblio. Si è puntato sul mio senso di colpa: l’ho chiesto per te, l’ho fatto per te e tu mi fai sentire inadeguato. Alla fine,  sono stata ignorata, ogni tanto mi si chiedeva un semplice “come va?” e si è atteso che la rabbia passasse. Più o meno questo è un meccanismo che in vent’anni di lavoro si è ciclicamente ripetuto. Un atteggiamento paternalista, se vogliamo chiamarlo in questo modo, che nega al disabile il diritto di difendersi. In molte occasioni, sono stata esclusa a priori, la mia presenza o meno a certe riunioni o richieste di straordinario è stata decisa senza chiamarmi in causa con un’unica scusa: l’ho fatto per te. Funziona così in generale, tuttavia nell’ambiente lavorativo diventa tutto più ricattatorio. Come si sarebbe potuto reagire? Suppongo, con la comunicazione adulta e trasparente, che ci sarebbe stata solo in caso di rapporto alla pari da prima, non impregnato di abilismo, se non si fosse fatta prevalere una falsificazione degli atteggiamenti emotivi (falsa disinvoltura, ad esempio, falso interesse nei miei confronti, falso entusiasmo), che io avvertivo e preferivo ignorare, questa risposta non ci sarebbe stata.

Leggi anche >> Come (non) parlare di disabilità

Il dialogo tra lavoratori disabili e aziende è complicato e spesso molto doloroso. 

Le aziende sono obbligate alle assunzioni delle persone con disabilità per la vigente Legge 68/1999. Spesso le assumono con periodo di prova di tre mesi e poi le lasciano a casa con la scusa che questa prova non è stata superata. In questo modo si evita di pagare le multe. Oppure si fa loro mobbing e le si costringe ad andarsene (qui una testimonianza).

Nel nostro paese, il pregiudizio negativo sulle persone con disabilità è ancora altissimo. I dirigenti mantengono un linguaggio e un comportamento che vanno sempre a ribadire la correttezza della loro condotta sia nel rispetto delle norme sul collocamento obbligatorio dei disabili  e sia nei confronti del disabile stesso. Ciò su cui puntano è la fase emotiva, gettando sulla persona una sorta di colpa: usano un ascolto passivo e ne attribuiscono alla persona disabile la responsabilità, perché è lui / lei a usare un diverso linguaggio rispetto al resto della comunità.

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È indubbio che serva una rivoluzione culturale e normativa dei Servizi per il Collocamento Disabili attraverso un’ adeguata formazione. Bisogna far attuare il Decreto Legislativo 151/2015, trovare una linea comune tra Stato e Regioni. Dall’entrata in vigore della Legge 68/1999, sono diminuite  le risorse economiche disponibili e sono aumentate le persone disabili in attesa di un’occupazione. Tuttavia, è necessario invertire il paradigma della Ministra Stefani e pensare che questa rivoluzione culturale dev’essere fatta soprattutto per le persone e non per le aziende, persone disabili che, ricordiamolo sempre, sono soggetti aventi diritti, non oggetti. 

Banalmente, l’azienda avrebbe un grandissimo vantaggio a fare leva su una risorsa disabile, a individuarne i meriti e valorizzarne la capacità. Basterebbe attivare un ascolto attivo e una presa di coscienza dei propri limiti con il dipendente disabile. Il vantaggio sarebbe di entrambi, del benessere del lavoratore disabile e di tutta la comunità e dell’immagine dell’azienda.

Immagine in anteprima: jzo, CC BY-SA 2.0, via Wikimedia Commons

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