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Come (non) parlare di disabilità

10 Marzo 2021 10 min lettura

Come (non) parlare di disabilità

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Da persona disabile ho sempre cercato di studiare i comportamenti che la società assume nei confronti della disabilità, più che altro per cercare di difendermi e poi ne ho fatto oggetto di studio e riflessione. Tra le prime cose che ho imparato c’è il significato di abilismo, che deriva dall’inglese ableism, e ha iniziato a diffondersi alla fine degli anni '80. L’abilismo comprende sia l’esclusione a priori da luoghi o eventi di una persona perché disabile, sia l’insulto pronunciato con parole che richiamano un handicap: sei un mongolo, un ritardato, un handicappato. 

Oggi l’abilismo denota soprattutto l’atteggiamento di idealizzazione positiva verso il disabile. La società attua dei comportamenti di ipertutela, iperprotezione e ipervalutazione nei confronti della persona con disabilità, senza esercitare un’analisi critica e realistica verso le loro capacità o i loro limiti.

Lo ammetto. Se da ragazzina mi ha aiutato a dare un nome al senso di disagio che provavo, oggi  non amo molto il termine abilismo perché troppo abusato e rischia di racchiudere una complessità variegata di atteggiamenti e linguaggio in un’unica parola. Abilismo è però lo spettacolo che ci propina da qualche anno il Festival di Sanremo con la persona disabile di turno. L’anno scorso, l’intervento di Paolo Palumbo, malato di SLA, riportava a una commozione fuori luogo, se l’intento era quello di creare un momento di inclusione pro disabilità. Dagli occhi lucidi e voce smorzata di Amadeus che l’ha presentato, a come si gli è rivolto dopo la performance (“Sei elegantissimo”, gli ha sussurrato, accarezzandogli lievemente un braccio. “Bella lì, dammi un cinque” avrebbe dovuto urlargli, come si fa coi veri rapper), al messaggio dello stesso Palumbo, pieno di luoghi comuni; la forza interiore, mio fratello è un eroe, sacrificio, amore, bellezza, sogni. E personalmente, in quell’occasione, dietro quelle parole sono riuscita a leggerci il senso di colpa atavico del disabile, che non verrà mai e poi mai risolto se si continuerà a pensare a lui come vittima e a chi lo assiste come persona votata al sacrificio

Quest’anno il palco di Sanremo ha ospitato il campione Powerchair Football Donato Grande ed è stato un vero peccato che non sia stata spiegata in maniera adeguata la professionalità di Grande, che ha creato la prima squadra di calcio in Italia, nata nel 2018, e che sta facendo un enorme lavoro per vederla riconosciuta dalla federazione e portare questo sport in tutto il paese. Si è di nuovo scelta la strada del paternalismo e dell’infantilizzazione della persona disabile. Il sogno di Donato Grande, secondo i media, era di palleggiare con Ibrahimovic (che lo ha accontentato, facendogli una virtuale carezza sulla testa “Fai passaggi migliori di quelli della mia squadra”). Si è ritornati su un linguaggio di perenne accondiscendenza in cui il protagonista non è il disabile, ma la persona normodotata che lo accoglie.

I termini utilizzati dallo stesso Amadeus sono completamente errati. Sono anni che associazioni e attivisti disabili si battono per eliminare la frase “portatore di handicap”, per un concetto molto semplice: definisce la persona esclusivamente per la sua disabilità. Per lo stesso motivo è sconsigliata l’espressione “diversamente abile”. "I ragazzi come Donato" è tutt’altro che una frase inclusiva, per non parlare poi di "chi SOFFRE di disabilità".  La disabilità è una condizione di vita, si soffre di reumatismi ad esempio, non certo di disabilità.

Quando Amadeus bacchetta tutti sulle barriere architettoniche ci tiene a sottolineare che è “un argomento che sta molto cuore a me e a Zlatan, che è molto sensibile”. In un mondo ideale, la questione dell’abbattimento delle barriere architettoniche dovrebbe riportare a un senso di rispetto civico collettivo, molto scarso in questo paese, e non alla singola sensibilità dell’individuo. “Ricordiamocelo quando parcheggiamo l’auto all’angolo della strada, bloccando le discese per le sedie a rotelle o occupiamo un posto giallo”. Anche qui, l’intenzione è lodevole. Tuttavia, iniziare la frase con un ricordiamocelo è come dare per scontato che si continuerà a parcheggiare le macchine senza alcuna considerazione per la persona con difficoltà. Dobbiamo, invece, condannare fermamente chi contribuisce a ulteriori barriere architettoniche con un posteggio selvaggio e sconsiderato. Essere in possesso di un parcheggio disabili non è mai fonte di privilegio c’è sempre una dose di sofferenza e fatica dietro. Ad esempio, si dimentica spesso che il tagliando viene rilasciato anche a chi ha gravi malattie o ai loro parenti. Fare richiesta per avere un posto riservato è sovente mortificante; perlomeno, per me lo è stato. Vieni messa a nudo, con domande imbarazzanti. Non solo, avere quel tagliando diventa fonte di stress per i continui soprusi delle altre macchine sullo stallo che ti appartiene e per vigili che non arrivano mai. Il discorso generale sulle barriere architettoniche, inoltre, può riguardare chiunque di noi perché l'accessibilità dipende sempre dalle caratteristiche personali della singola persona. Una scala o un gradino troppo alto può comportare difficoltà alla persona disabile, come all’anziano e al bambino. In quest’ottica, riconoscere le differenze deve basarsi sull’uguaglianza all’accessibilità per tutti, ai luoghi, all’istruzione, alla salute. Per questo motivo, l’argomento dovrebbe “stare a cuore” all’intera società.

In fondo, non è la prima volta che i media ci propongono questo linguaggio semplicistico quando si parla di disabilità. Il “ruolo” del disabile è quello di rassicurare o commuovere il pubblico o il normodotato, che in realtà rimane il vero protagonista. Nel 2019, Ivan Cottini aveva affidato a TPI  un’intervista sfogo contro il modo in cui la televisione presenta il disabile. “Per me è sempre logorante” - affermava Cottini - “che si parli di uguaglianza, di abbattere il muro della diversità e al tempo stesso vedere sempre programmi tv costruiti, creati e basati per persone normali/normodotate, in cui i disabili vengono inseriti in pillole con le loro storie e imprese da supereroi”.

Perché perseverare, nonostante le molte proteste e gli studi approfonditi delle associazioni (qui l’Associazione Outsider contro l’abilismo e l'impegno degli attivisti e delle attiviste disabili e ancora l’intervento di Alice Sodi, Presidente NEUROPECULIAR APS Movimento per la Biodiversità Neurologica sul linguaggio dell’autismo) e degli attivisti disabili (qui ad esempio il post di Witty Wheels, alias di Maria Chiara ed Elena Paolini, e quello di Sofia Righetti), in questa modalità di racconto? 

Nel marzo 2015 un video dell’Association Noémi, nata nel 2010 in Francia, invade le bacheche social di milioni di persone. Si intitola “The Eye of child”, è un progetto che è stato lanciato il 3 dicembre del 2014 nella Giornata Mondiale persone con disabilità. 

Agli occhi di un bambino. Il video inizia con una breve spiegazione. Durante un seminario pedagogico, alcuni bambini accompagnati da genitori vengono condotti in una stanza a vedere un filmato. Tra di loro c’è una piccola parete di legno. Devono riprodurre le smorfie che passano sullo schermo.  Il video scorre; a fare le boccacce sono persone adulte: un paio di donne con lunghi capelli neri, un uomo con la barba e il cappellino, un ragazzo, anche lui con barba e capelli lunghi, un uomo in camicia azzurra. Genitori e figli imitano le boccacce divertiti. Sono carini a vedersi, alcuni si somigliano. Ma poi arriva l’ultima immagine. È una ragazzina disabile che si mette ridendo un dito nel naso. Ha circa 12 anni. I genitori si fermano e, sì, è vero… cambiano sguardo. Guardano la ragazzina con quella che vorrebbe essere commozione, ma forse, in realtà, è semplice imbarazzo. I bambini continuano il loro gioco e fanno le stesse smorfie, incuranti della  sua diversità.

Il video è stato condiviso da  milioni di persone. Nel giugno 2015, la Giuria di Cannes l’ha premiato con l'oro al Lions Health nella categoria Salute e benessere.

Ho discusso animatamente con mia sorella di questo filmato. A lei era piaciuto moltissimo e non riusciva a comprendere il motivo delle mie critiche. A dire la verità, io stessa l’avevo condiviso su Facebook, seppure con poca convinzione. Come sempre succede in questi casi, l’avevo ricevuto via mail più e più volte. È così che si dovrebbe guardare il mondo, con lo sguardo di un bambino, era la frase che accompagnava la missiva. Oppure, questi bambini sono meravigliosi, hanno tanto da insegnarci. Loro hanno tanto da insegnare, e per “loro” si intende i bambini “normali”. Mi sono messa a piangere, mi ha scritto addirittura una collega. Nessuno aveva notato che qualcosa avrebbe potuto essere sbagliato. Un costrutto che nel video è perfetto, certo, ma nella realtà stride. 

Innanzitutto, chi è il vero protagonista del video? Lo sguardo dei bambini, dell’adulto o della ragazzina disabile? Perché se si desidera davvero costruire un video che ampli lo sguardo sulla disabilità, al centro è necessario mettere il disabile stesso. Non di certo l’altro, chi lo guarda. Soprattutto se chi guarda la persona disabile sono bambini che hanno al massimo quattro anni d’età, come quelli coinvolti nel progetto, ancora troppo piccoli per percepire le differenze. Inoltre, i genitori sono lì con i loro figli, calati completamente nel ruolo di genitore e il disabile che arriva, dopo una serie di persone adulte, è una ragazzina, una bambina. Come potrebbe non inibirli? Avrebbero potuto mettere un adulto. Pensateci, probabilmente le reazioni sarebbero state diverse. I genitori avrebbero, probabilmente, gettato uno sguardo alla reazione del proprio figlio, dopodiché avrebbero tranquillamente continuato il gioco. Inserendo una ragazzina, invece, si è puntato sulla tenerezza, sul facile sentimentalismo, sul dolore, su quello che il disabile può donare alla società. Si è deciso di rendere protagonisti la spontaneità dei bambini e l’inevitabile disagio dell’adulto.

Spagna, luglio 2019. Al Resurrection Fest di Viveiro, durante il concerto degli Arch Enemy, il fotografo Daniel Cruz immortala un momento di crowd surfing – surf sulla folla. Io sono in Spagna, in quel momento, e assisto a un’intervista di Cruz al telegiornale. In effetti, lo scatto è bellissimo. Chi viene sollevato è un ragazzo sulla sedia a rotelle, con una grave disabilità. Viene tenuto in alto per tutta la durata dell’esibizione. Il ragazzo – si vedrà dopo nei video che gireranno – balla. Muove corpo, testa e braccia a ritmo di musica. In preda all’entusiasmo e anche  con un pizzico di compiacenza per essere tra le prime a vedere l’immagine, la condivido su Facebook. Due ore dopo, mi pento di averlo fatto. La foto diventa virale in un attimo. Diventa “la foto che commuove il mondo”. Al ragazzo viene dato un nome, Alex. Gli si attribuiscono emozioni positive e innocenti: gioia, felicità, Alex ha vinto una vera sfida.

Ecco alcuni commenti di coloro che hanno condiviso la foto: 

"Cosa siamo noi? Drogati, satanisti, poco di buono... ecco." (pag. Adottare soluzioni punk per sopravvivere 2.0)

"Se vuoi, puoi. La forza di un gesto di umanità" (pag. Fanpage.it)

“Siamo tutti un po’ Alex*” (pag. di un genitore di bimbo disabile)

“La foto che commuove il web” (pag. L’Occhio di Avellino)

Ed ecco un po’ di commenti con cui viene accolta la foto:

"Gli sembra di toccare il cielo con un dito"

"Siete meravigliosi portatelo più in alto possibile fategli vedere che questo ragazzo brilla più di una stella"

"Commovente grazie a tutti quei ragazzi che gli hanno dato gioia, felicità,  speranza di vivere" (speranza di vivere!)

"Bellissimo gesto di amore umiltà perché al mondo anche i disabili hanno una vita soprattutto grande dignità" (anche).

Gli Arch Enemy sono un gruppo dal metal abbastanza duro. Assistere a un loro concerto è una scarica di adrenalina pazzesca. Chi di noi non ha assistito a un concerto e ha urlato e ballato con tutta l’energia che aveva in corpo?  Eppure, non si è minimamente pensato che un ragazzo disabile sollevato durante un’esibizione musicale potesse ballare e dimenarsi al ritmo della musica come chiunque altro. Non si è neanche pensato che a quel ragazzo, se non fosse stato sollevato, la visione sarebbe stata inibita. Certo, il crowd surfing ti fa sentire un dio e sono diversi anni che si fa con persone in carrozzina; ma la foto di Daniel Cruz diventa un pretesto per la costruzione di articoli pregni di bigotto pietismo, come se non ci fosse altro modo di affrontare il tema della disabilità. Si sarebbe potuta aprire una discussione, ad esempio, sull’impossibilità di molti disabili ad assistere a concerti e spettacoli per via delle barriere architettoniche; sul fatto che i posti sulla pedana sono spesso limitati o che le pedane siano posizionate lontanissime dal palco.

La stessa cosa accade con la tragica morte del fiorentino Niccolò Bizzarri, 21 anni, inciampato con la sua sedia a rotelle in una buca mentre si recava all'università. I giornali hanno raccontato questo incidente parlando del ragazzo, sottolineando la forza, la tenacia, quanto fosse un esempio per tutti.  Ci sarebbe dovuta essere una decisa denuncia perché grandi città come Firenze, Roma e Torino stanno cadendo a pezzi, le strade hanno buche ovunque, sono state costruite piste ciclabili un po’ a caso e ciò aumenta le barriere architettoniche per persone disabili, anziani e chiunque abbia un impedimento fisico. Nel caso di Niccolò Bizzarri, si sarebbe dovuto puntare sulla gravissima mancanza del Comune di Firenze, soprattutto perché il ragazzo aveva più volte denunciato l’inaccessibilità ai luoghi che doveva raggiungere.

Sebbene sembrino due avvenimenti completamente diversi, la storia di Niccolò Bizzarri e di Alex “il ragazzo che ha sfidato i pregiudizi” alla fine hanno in comune un’unica parola: abilismo. I disabili vengono definiti eroi, coraggiosi, angeli con un messaggio da portare, da cui c’è tanto da imparare. Sparisce il loro essere “persona” e tutto viene giudicato e definito solo ed unicamente nel perimetro della disabilità. 

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Per entrambi i ragazzi  si è usata questa modalità di linguaggio, che deresponsabilizza il mondo “normodotato” e rende il disabile un supereroe.

È arrivato il momento di pretendere, dunque. E di non accettare più questo continuo racconto pietistico della persona disabile. In un momento in cui si è dato vita ad un (inutile?) Ministero della Disabilità senza portafoglio, la ministra che lo presiede fa questo tipo di dichiarazioni: “Serve di più perché, scusi il sentimentalismo, queste persone devono sentirsi ascoltate, ma soprattutto amate e abbracciate dalla comunità”, noi dobbiamo pretendere che si parli di disabilità con rispetto, preparazione e serietà.

Dobbiamo pretendere un punto di vista collettivo parlarne con consapevolezza, non "parlarne di più".

Foto anteprima "disability" di BhaduriAbhijit sotto licenza CC BY-NC-ND 2.0

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