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Le voci di giovani attivisti della diaspora palestinese che lottano per il proprio popolo

16 Giugno 2021 10 min lettura

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Le voci di giovani attivisti della diaspora palestinese che lottano per il proprio popolo

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di Anna Toniolo

Dopo l'escalation militare durata 11 giorni tra Israele e Hamas sulla Striscia di Gaza, che ha portato alla morte di più di 250 palestinesi e 13 israeliani, si è giunti a un accordo mediato dall'Egitto.  Ma il cessate il fuoco temporaneo non ha posto fine al regime di apartheid e occupazione di Israele nei confronti del popolo palestinese, né ha impedito la possibilità di futuri attacchi israeliani, poiché la questione palestinese è più viva che mai. 

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La narrazione mediatica dell’ultima escalation di violenza tra Israele e Palestina ha focalizzato l’attenzione soprattutto sullo scontro tra Israele e Hamas, lasciando nell’ombra una serie di attori che, invece, è fondamentale considerare per comprendere le dinamiche degli scontri e delle azioni volte alla sopravvivenza messe in atto dalla popolazione palestinese. Tra questi non si può non considerare l’azione di uomini e donne della cosiddetta diaspora palestinese che in molti paesi del mondo lottano ogni giorno per conservare l'identità di un popolo oppresso e per fare pressione sulla classe politica dei paesi di nuova appartenenza. 

Sin dal 1948, anno della fondazione di Israele, i palestinesi sono stati costretti all’esodo e uno dei paradossi alla base della questione palestinese è rappresentato dal fatto che la creazione di Israele era intesa a creare un “posto sicuro” per la diaspora ebraica di tutto il mondo, ma questa ha segnato l’immediata diaspora della popolazione palestinese stessa. La Nakba, o catastrofe, del 1948 ha creato quella che oggi è l’emergenza profughi più duratura al mondo, con l’allestimento di campi in Cisgiordania, nella Striscia di Gaza, in Libano, in Giordania e in Siria che accoglievano, e tutt’ora accolgono, i palestinesi espulsi dal proprio luogo d’origine. Negli anni, infatti, i campi sono diventati permanenti e man mano che le famiglie si espandono, i campi sono soggetti a sovrappopolamento e sovraffollamento.

Secondo l'Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l'occupazione dei rifugiati palestinesi nel Vicino Oriente (UNRWA) i rifugiati palestinesi registrati in Libano sono circa 475mila. Vari governi libanesi hanno definito i palestinesi come stranieri, rifugiati o apolidi, anche se molti sono nati in Libano, come Melad Amir Salameh, giovane palestinese figlio della diaspora e nato nel campo di Nahr al-Bared.

Melad è un attivista e volontario all’interno della comunità palestinese che lotta ogni giorno per mantenere vive l’identità e la cultura palestinese all’interno della sua comunità d’appartenenza. “Vivere in Libano come rifugiato palestinese non è facile” racconta a Valigia Blu, “non ci sono documenti d’identità per noi e non possiamo svolgere numerosi lavori [39 professioni sono vietate ai rifugiati palestinesi, ndr] e questo ha delle gravi conseguenze sia a livello economico, sia a livello educativo in quanto molti giovani rinunciano a studiare perché sono consapevoli del fatto che poi non avranno speranze nel mondo del lavoro”. L’esclusione dalla società libanese dei palestinesi è molto forte e, continua Melad, “quando andavo a scuola e dicevo che ero palestinese i miei compagni mi chiedevano se superassi il confine ogni giorno per andare a scuola, rimanendo sorpresi quando dicevo che vivevo in uno dei campi creati per i rifugiati palestinesi in Libano. La discriminazione è forte e non possedere la cittadinanza del paese in cui sei nato è frustrante. Ormai i campi sono villaggi, non sono più un ammasso di tende, ma l’accesso è limitato, sembra di vivere in una prigione”. Nonostante le difficoltà Melad Amir Salameh continua a lottare per il suo popolo attraverso l’attivismo e il volontariato: “Lottare per mantenere la nostra identità è fondamentale, attraverso la cultura e le tradizioni, perché il nostro popolo non si estingua e per dimostrare la nostra solidarietà con chi ancora vive nei territori palestinesi”. “Io ho paura di emigrare altrove” continua Melad, “perché ho paura di contribuire al dissolvimento della cultura e dell’identità palestinese. Per questo voglio restare vicino alla mia comunità in Libano, per proteggere i nostri ideali e le nostre generazioni”. 

Questa lotta ha portato molti attivisti e attiviste della diaspora a organizzare azioni concrete per fare pressione a livello nazionale e internazionale per il riconoscimento della Palestina e soprattutto per migliorare le condizioni dei palestinesi che vivono in Libano. “Una delle azioni più importanti sotto questo punto di vista, è l’organizzazione di manifestazioni davanti all’ambasciata americana a Beirut per chiedere che la comunità internazionale, e gli Stati Uniti in particolare, riconoscano il regime di occupazione sotto il quale vive la popolazione palestinese. In queste occasioni la tensione è molto alta perché, come ho spiegato, la situazione nel paese non è facile e la presenza palestinese non è ben accetta. Un altro modo attraverso il quale avanziamo la lotta e le nostre richieste nel dibattito pubblico è attraverso i social media, dove cerchiamo di diffondere il nostro messaggio per rendere partecipe l’opinione pubblica in modo consapevole. E soprattutto facciamo appello al boicottaggio, al disinvestimento e alle sanzioni come strumento per costringere Israele a porre fine alle violenze e all’occupazione delle terre palestinesi”. 

Attraverso le sue azioni la diaspora non è fondamentale solo in Libano o nella regione mediorientale, ma nel corso degli anni i palestinesi si sono stanziati in moltissimi paesi del mondo, dove avanzano richieste e cercano di diffondere la loro lotta alla sopravvivenza. In particolare la questione identitaria è ciò che spinge i e le palestinesi che si sono stanziati altrove a continuare la propria lotta contro l’occupazione israeliana sui territori palestinesi. 

Amir Toumie è un attivista politico e sociale appartenente alla comunità palestinese in Israele, emigrato a Chicago, negli Stati Uniti, per motivi di studio, intervistato per Valigia Blu. “La comunità palestinese a Chicago è significativa” racconta Amir, “e da quando mi sono trasferito mi sono unito al gruppo di advocacy Students for Justice in Palestine dell’Università di Chicago, il cui obiettivo è quello di battersi per la giustizia in Palestina”. Attraverso il suo attivismo Amir ha partecipato all’organizzazione di tre grandi proteste nella città di Chicago organizzate negli ultimi quattro mesi e che hanno visto la partecipazione di migliaia di persone. “Il numero dei palestinesi, degli arabi e, soprattutto, degli americani che sostengono la causa” spiega Amir “sta aumentando negli Stati Uniti proprio grazie all’attivismo dei palestinesi americani” che, nonostante la distanza dal loro paese d’origine, non smettono di lottare per il proprio popolo. “Per i palestinesi che vivono negli Stati Uniti è importante dimostrare la volontà di continuare a lottare per la Palestina, ma soprattutto è fondamentale fare pressione sul governo statunitense perché questo agisca in supporto dei diritti umani e della democrazia. Valori che gli Stati Uniti inseriscono come baluardi nella lista dei loro principi fondamentali, ma che quando si tratta di Palestina scompaiono”. Per questo motivo uno dei ruoli fondamentali della diaspora palestinese è quello di chiedere giustizia per il popolo palestinese e chiedere al governo degli Stati Uniti di fare di più per i palestinesi in generale. Ad esempio, Rashida Tlaib, la prima donna palestinese-americana eletta al Congresso nel 2018, il 14 maggio ha tenuto un discorso al Congresso in cui ha criticato il presidente Joe Biden e altri funzionari per alcune dichiarazioni che secondo lei non riconoscevano “l’umanità palestinese”. 

Per quanto riguarda le azioni concrete portate avanti dalla diaspora, Amir Toumie sostiene che i giovani attivisti palestinesi credono in un modello diverso di resistenza rispetto al solo e unico coinvolgimento nella politica. “L’azione principale attraverso la quale avanzare richieste e chiedere il riconoscimento dell’occupazione israeliana è rappresentata dalle proteste nelle strade e dall’educazione alla solidarietà sociale e al boicottaggio della potenza occupante in ogni modo”. 

A questo proposito Zarefah Baroud, Digital Media Associate dell’associazione American Muslim for Palestine, sostiene che i palestinesi che vivono in diaspora abbiano un ruolo essenziale per quanto riguarda l’influenza nei confronti dei governi e dell’opinione pubblica. La missione dell’organizzazione di attivisti di cui fa parte è di educare il pubblico americano sulla Palestina, attraverso la creazione e la diffusione di materiali educativi credibili e il coinvolgimento con i media regionali e nazionali. “In particolare, quello a cui io e molti attivisti e studiosi abbiamo iniziato a dare priorità è il recupero della narrativa attraverso la decolonizzazione del vocabolario e del discorso in generale, insistendo su un linguaggio che ci rappresenti autenticamente come palestinesi. Come possiamo aspettarci di liberare la nostra terra e la nostra gente se non siamo in grado di liberare le nostra lingua?”.

Zarefah Baroud ci spiega come l’organizzazione di cui fa parte agisca nel dibattito pubblico, evidenziando come le loro azioni si concentrino principalmente sulla sensibilizzazione e su azioni di pressione sul Congresso. “Questa azione consiste in una comunicazione costante con alcuni membri del Congresso, cercando di costruire relazioni con loro e battendoci per sostenere una legislazione specifica nei confronti della questione palestinese. Come attivisti e attiviste molte volte ci offriamo come risorse per aiutare nella preparazione di iniziative legislative e se queste iniziative falliscono, allora siamo coinvolti in azioni di pressione politica soprattutto perché vogliamo che le leggi degli Stati Uniti sostengano i diritti umani, e riconoscere l’oppressione e l’occupazione vissuta dal popolo palestinese significa riconoscere i diritti umani”. Zarefah Baroud e la sua organizzazione chiedono la fine dell’occupazione israeliana delle terre palestinesi, il diritto al ritorno per i rifugiati palestinesi, la fine della costruzione di insediamenti israeliani e la fine dell'assedio israeliano a Gaza, facendo pressione dall’interno sul contesto politico americano appellandosi, appunto, ai diritti umani e al diritto internazionale e americano. 

Durante l’ultima escalation di violenza a Gerusalemme Est e poi sulla Striscia di Gaza, il ruolo della diaspora è stato fondamentale nell’organizzare proteste e dimostrazioni, come sottolinea Zarefah, le quali sono state un segno di unità tra i palestinesi che vivono in moltissimi paesi del mondo e che lavorano “non solo per educare se stessi, ma anche le persone attorno a loro, riguardo la storia della causa palestinese. E questo è importantissimo perché è proprio l’opinione pubblica che influenza la politica soprattutto attraverso le elezioni”. “Le nostre battaglie sono alimentate dalla resistenza del nostro popolo nei territori palestinesi e noi, che viviamo negli Stati Uniti, abbiamo un’enorme responsabilità in quanto dobbiamo usare il privilegio di vivere in uno stato democratico per continuare a dare voce alla lotta del nostro popolo, anche se siamo geograficamente molto lontani”, conclude. 

Ogni persona intervistata sottolinea il fatto che gli e le attiviste della diaspora lottano da anni per cercare di far emergere la causa palestinese e sensibilizzare le varie comunità in cui vivono. La violenza militare a cui abbiamo assistito nelle ultime settimane tra Israele e Palestina ha mobilitato moltissime persone in diversi paesi del mondo, e questo è dovuto anche e soprattutto al lavoro continuo dei palestinesi che vivono fuori dal loro paese d’origine. “È assolutamente innegabile che ci sia un supporto crescente alla causa palestinese da parte delle persone”, sostiene Mohammed Alrazaq, originario di Gerusalemme e che ora vive in Scozia e che racconta come cittadini e cittadine scozzesi siano sempre più solidali con la lotta del popolo palestinese. “Questo è dovuto al fatto che l’informazione sta cambiando. Prima i media mainstream controllavano l’informazione alla quale le persone avevano accesso, orientando l’opinione pubblica. Oggi i social media e i modi alternativi di comunicazione permettono alle persone di approcciarsi alla causa in modo più diretto” e questo avviene anche, e soprattutto, grazie ai e alle giovani palestinesi che diffondono notizie approfondite e accurate su ciò che succede all’interno dei territori occupati.  

“La lotta non è solo quella che avviene sul territorio palestinese” continua Mohammed “e non riguarda solo la terra e lo Stato, ma riguarda l’identità culturale. E questo dimostra che il progetto di Israele sui territori palestinesi non è volto solamente a colonizzare la terra, ma vuole eliminare l’identità di un popolo. È per questo motivo che noi continuiamo a lottare dentro e fuori i nostri territori. Per difendere la nostra identità e ogni singolo aspetto di essa”. 

Una lotta che non è per niente facile, che vede giovani e adulti impegnarsi per sostenere il proprio popolo, ma che spesso si ritrova inerme di fronte alle violenze che questo subisce. Karim El Sadi, membro di Giovani Palestinesi d’Italia, una realtà associativa composta dalle nuove generazioni di palestinesi, racconta che appartenere alla diaspora e quindi vivere lontani dalla propria terra d’origine ha conseguenze soprattutto emotive: “Noi che siamo in diaspora soffriamo moltissimo a vedere le nostre famiglie, i nostri fratelli e le nostre sorelle, morire a causa di questo sistema segregazionista e di apartheid. La comunità internazionale continua a parlare di pace, ma non può esserci pace fino a che non ci sarà giustizia. E se c’è una palese violazione dei diritti umani non può esserci giustizia”.

Anche per questa sofferenza il ruolo dei e delle palestinesi in Italia è quello di agire e sensibilizzare l’opinione pubblica e la classe politica rispetto alla questione palestinese. Nello specifico, l’organizzazione di cui fa parte Karim El Sadi, riporta le istanze del popolo palestinese attraverso manifestazioni pubbliche, attività di sensibilizzazione e donazioni che vengono raccolte e portate in Palestina. A questo proposito El Sadi racconta come abbiano da poco terminato una raccolta fondi col fine di comprare del materiale necessario ad affrontare l’emergenza sanitaria nell’ospedale di Azzun, città palestinese nel Governatorato di Qalqilya nella Cisgiordania settentrionale.

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“Queste azioni sono fondamentali”, spiega Karim El Sadi, “perché i palestinesi che si trovano in Cisgiordania vivono oltre che la pandemia, anche un regime di apartheid sanitaria perché Israele non permette un accesso egualitario alle cure alla popolazione palestinese”. Azioni che sono fondamentali per sensibilizzare l’opinione pubblica e dare spazio alle loro istanze nel dibattito pubblico e politico. “È necessario creare comunità e creare unione, per chiedere con forza che vengano ascoltate le esigenze del nostro popolo. Ma la nostra sofferenza deriva anche dal fatto che i palestinesi fuori dal proprio territorio d’origine sono i più dimenticati. Tutti noi dovremmo avere il diritto di tornare nel nostro paese d’origine, e dovremmo avere il diritto di tornarci come cittadini, non come turisti! Mio padre, che è nato lì, dopo tre mesi deve lasciare la Palestina perché gli scade il visto. La Palestina deve essere libera e per esserlo ha bisogno anche di tutti i palestinesi che sono stati costretti a scappare”. 

Il 27 maggio il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite ha deciso di avviare un’indagine internazionale sugli abusi sistemici israeliani commessi nei territori palestinesi occupati e all’interno di Israele. La risoluzione chiede la creazione di una Commissione d’inchiesta permanente per monitorare e riferire le violazioni dei diritti umani commessi in Israele e nei territori palestinesi. Questo potrebbe essere un primo passo per il riconoscimento della lotta portata avanti dal popolo palestinese, anche se non sicuramente sufficiente. I e le palestinesi che vivono fuori dai propri territori continueranno la loro lotta per sensibilizzare la comunità internazionale verso l’ammissione della violenza israeliana, ma fino ad ora possiamo dire che qualche passo avanti l’hanno sicuramente compiuto e dimenticare queste persone significherebbe dimenticare una parte fondamentale della questione palestinese stessa. 

Immagine in anteprima in licenza creative commons CC BY 2.0, via Wikimedia Commons

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