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Evan Gershkovich, il giornalista americano che amava la Russia ed è rimasto “vittima” del delirio autoritario di Putin

19 Aprile 2023 7 min lettura

Evan Gershkovich, il giornalista americano che amava la Russia ed è rimasto “vittima” del delirio autoritario di Putin

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Non ci sono state sorprese durante l’udienza di appello in un’aula del tribunale di Mosca che avrebbe segnato il futuro, almeno a breve termine, del giornalista del Wall Street Journal, Evan Gershkovich. La seduta si è tenuta, come previsto, a porte chiuse, ma secondo la legge russa la decisione finale della corte doveva essere comunicata in pubblico: il giornalista rimarrà in custodia cautelare come minimo fino al 29 maggio.

Gershkovich è stato arrestato lo scorso 29 marzo con l’accusa di spionaggio dal Servizio di Sicurezza Federale russo, l’FSB. Il reporter del Wall Street Journal è il primo giornalista americano arrestato in Russia dai tempi della Guerra Fredda. Nel 1986 il corrispondente dello U.S. News & World Report Nicholas Daniloff, di origini russe come Gershkovich, venne arrestato con lo stesso capo d’accusa, per essere poi rilasciato dopo quasi tre settimane in uno scambio di prigionieri (l’arresto di Daniloff fu una risposta verso quello, avvenuto negli Stati Uniti poche settimane prima, del fisico sovietico Zakharov). 

Come fu per Daniloff, Gershkovich è stato trasportato nella prigione di Lefortovo, dove le autorità russe generalmente detengono le persone accusate di spionaggio e tradimento di Stato. Lefortovo è una struttura progettata per rendere l’isolamento straziante: è il centro delle grandi purghe staliniane degli anni ’30, e le scritte dei prigionieri sui muri delle celle sono rimaste intatte. Quasi come un monito per i nuovi arrivati.

Le circostanze dell’arresto di Gershkovich sono ormai note. Mentre si trovava al ristorante Bukowski Grill di Ekaterinburg, il giornalista americano è stato portato via di forza, con la testa coperta da un maglione secondo alcuni testimoni oculari, da uomini in vestiti borghesi. 

Dalle testimonianze raccolte da Meduza dal pubblicista locale Yaroslav Shirshikov, fixer di Gershkovich durante il suo viaggio negli Urali, il giornalista del WSJ stava lavorando su un’inchiesta sul gruppo Wagner, probabilmente in merito al reclutamento nelle carceri di detenute donna per la guerra in Ucraina.

Nello stesso articolo di Meduza, un giornalista occidentale citato in forma anonima sostiene come Gershkovich abbia visitato in precedenza la vicina cittadina di Nižnij Tagil, dove ha sede il complesso di industria militare Uralvagonzavod. Si tratta della fabbrica con la maggior produzione di carri armati al mondo, fondata nel 1936 da Stalin durante il secondo piano quinquennale di industrializzazione sovietica.

È probabilmente quest’ultimo l’escamotage formale attraverso il quale i russi accusano Evan Gershkovich di essere una spia per conto degli americani, alla ricerca di informazioni d’intelligence sullo stato delle forze armate russe. 

Un’accusa che in Russia può costare fino a vent’anni di reclusione, secondo l’articolo 276 del Codice penale. I processi a carico di potenziali spie sono segreti e condotti generalmente in tempi brevi, nonostante i media russi non abbiano finora fatto trapelare nulla sulle tempistiche del processo a Gershkovich. 

Fra le cose certe, è che questi processi si concludono molto spesso con una condanna. Lo scorso settembre il giornalista russo Ivan Safronov è stato condannato a 22 anni di carcere per aver passato informazioni all’intelligence della Repubblica Ceca, in quello che è considerato come l’ennesimo processo farsa verso i giornalisti russi.

La Russia non ha fornito prove per l’arresto di Gershkovich, mentre i suoi alti funzionari rifiutano di entrare nel merito della questione parlando in modo generico di averlo colto con le «mani nel sacco». Le dichiarazioni stesse, fornite dallo speaker del presidente Dmitrij Peskov e dalla portavoce del ministero degli esteri Maria Zakharova, rendono lampante come siano i russi in primis a voler politicizzare il caso di Gershkovich. Secondo fonti di Bloomberg, sarebbe stato Putin stesso ad autorizzare l’arresto del reporter.

Peraltro, è dal 1996 che la legge americana proibisce alla CIA di reclutare giornalisti in incognito. Il dipartimento di Stato USA ha già designato il caso come una «detenzione ingiusta», qualifica formale che tratteggia Evan Gershkovich come vittima di un ostaggio politico, fornendo margini di manovra e poteri rafforzati al governo per trattare la sua liberazione. 

Mentre una campagna internazionale è stata lanciata per chiederne la scarcerazione, sono diversi i motivi dietro quello che si profila essere un vero e proprio sequestro di persona di natura statale sono diversi, e vale la pena affrontarli separatamente.

A partire dal precedente recente di Brittney Griner, la politica del Cremlino in relazione allo scambio di prigionieri con l’Occidente sembra essere piuttosto chiara. La cestista statunitense, arrestata pochi giorni prima dell’invasione in Ucraina in possesso di poche gocce d’olio di hashish, è stata al centro di dieci mesi di trattative che l’hanno portata ad essere scambiata con il «mercante di morte» Viktor Bout, fra i trafficanti d’armi più influenti al mondo. Una plusvalenza che sembra aver ingolosito gli appetiti del regime di Mosca.

È la tesi dell’ex ambasciatore statunitense in Russia John Sullivan, secondo cui il Cremlino «si aspetta molto in cambio di qualcuno che considerano una spia». Ciò rende una potenziale trattativa ancor più complessa rispetto al caso Griner. Inoltre, «Mosca non discuterà nessuno scambio fino a quando non ne deciderà la condanna», sostiene il diplomatico. 

L’ultima incriminazione per spionaggio verso un cittadino americano non lascia ben sperare. L’ex marine Paul Whelan è stato condannato, ed è tuttora detenuto a Lefortovo, un anno e mezzo in seguito all’arresto. È tuttavia probabile che il Cremlino voglia capitalizzare Gershkovich in tempi più rapidi, forse coinvolgendolo in un doppio scambio proprio insieme a Whelan. 

Whelan era infatti compreso nella trattativa Griner-Bout, ma il suo nome è saltato dopo che i russi hanno voluto includere nello scambio l’agente del FSB Vadim Krasikov. Quest’ultimo sta scontando un ergastolo in Germania per l’omicidio di Zelimkhan Khangoshvili, comandante dell’esercito ceceno e georgiano ucciso dalla spia russo nel 2019 nel centro di Berlino. I tedeschi avrebbero però rifiutato l’estradizione di Krasikov negli Stati Uniti per permetterne lo scambio con Mosca.

La teoria prevalente fra gli analisti statunitensi è che i russi vogliano utilizzare Gershkovich come pedina per riottenere Sergey Cherkasov, un agente di intelligence russo che nello scorso anno aveva tentato di infiltrarsi come stagista nella Corte Penale Internazionale tramite un’identità brasiliana falsa. In seguito all’indagine del Fbi Cherkasov è stato accusato dal dipartimento di Giustizia statunitense di spionaggio e frode, un’accusa simile a quella di Gershkovich.

Sono stati tirati in ballo nomi di altre spie russe sotto arresto in Occidente, catapultando il giornalista americano di origini russe al centro di un subdolo gioco geopolitico. È tragicamente ironico come Gershkovich sia finito in una prigione del FSB, quarant’anni dopo la fuga dalla Russia della sua famiglia durante l’ultima ondata migratoria ebraica. E soprattutto, nota l’editor del WSJ Deborah Ball, come Gershkovich sia diventato vittima della stessa repressione putiniana che aveva così brillantemente descritto nei suoi articoli.

Secondo Tatiana Stanovaya, analista del Carnegie Russia Eurasia Center, è la copertura della guerra in Ucraina ad aver attirato l’attenzione delle autorità russe su Gershkovich. Per Reporters Without Borders, l’arresto è pure un pretesto per intimidire tutti quei giornalisti occidentali che stanno continuando, sul campo in Russia, ad investigare qualsiasi aspetto attinente all’invasione militare. Un’ulteriore evidenza, se necessario, della crescente brutalità del regime putiniano, che fino ad oggi sembrava riservata ai soli giornalisti russi in relazione alle cosiddette «fake news» contro l’esercito.

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Joshua Yaffa ha scritto un articolo commovente per il New Yorker sull’arresto del suo amico Evan. «In questi anni, abbiamo imparato che la Russia è un posto che può sorprenderti e deluderti, e in ogni caso attira la tua attenzione. Eppure, non avrei mai potuto immaginare che tutti quei sentimenti si sarebbero scontrati con una storia del genere, una storia che vorrei non aver mai dovuto scrivere».

Con la cultura russa Evan Gershkovich aveva sempre conservato un rapporto intenso, nonostante fosse nato e cresciuto a New York. A casa si parlava russo, e si mantenevano alcuni riti e tradizioni della madrepatria. Durante i suoi soggiorni nel paese non veniva chiamato Evan, bensì Vanya.

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Ha iniziato a raccontare la Russia tra il 2016 e il 2017, e in breve tempo ha cominciato a farlo sul campo, con estrema curiosità e precisione, come reporter del giornale indipendente Moscow Times. È andato nei luoghi di alcuni disastri ambientali, come quando ha dormito per giorni in una tenda in Jacuzia per raccontare gli incendi boschivi che devastarono la regione nel 2021, o per raccontare la scomparsa dei salmoni nel fiume Amur. Ha vissuto in Russia durante il terribile impatto che la pandemia ha avuto sul paese, svelandone i lati oscuri sotterrati dal governo.

Proprio da quel momento ha cominciato ad assistere alla definitiva stretta sulla libertà messa in atto da Putin alla vigilia dell’invasione in Ucraina, compiendo un progetto di repressione lungo più di un decennio. Gershkovich era probabilmente consapevole che quel paese che tanto amava, avrebbe potuto tradirlo per la qualità del suo lavoro. Portandolo così nell’abisso di quel mondo russo, per dirla con Milan Kundera, «che ci strega e ci attira quando è lontano, e rivela tutta la sua terribile estraneità non appena ci serra da vicino». Evan Gershkovich, però, nemmeno in isolamento ci pensa a perdere la speranza per cambiarlo, quel mondo.

Immagine in anteprima via Twitter

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