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Eutanasia legale: “Sono malata di sclerosi multipla grave. Voglio ancora vivere, ma voglio anche sapere di poter morire”

26 Luglio 2021 10 min lettura

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Eutanasia legale: “Sono malata di sclerosi multipla grave. Voglio ancora vivere, ma voglio anche sapere di poter morire”

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di Laura Santi

Da anni si è chiesto ai politici di fare una legge sul fine vita, ma ogni tentativo di discuterne in Parlamento, fino a oggi, è sempre stato affossato. E con essa viene affossata la possibilità a una persona capace di intendere e volere di decidere di porre fine, in determinate condizioni, alle proprie sofferenze.

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Sono malata di sclerosi multipla grave, ce l’ho da 25 anni, all’inizio era lieve, mi ha consentito di vivere, lavorare, viaggiare, avere progetti, sposarmi. Ho continuato a vivere anche quando la malattia si è fatta più tosta, i farmaci più aggressivi e le ricadute più dannose per il sistema nervoso. 

La sclerosi multipla è una malattia neurodegenerativa, ha esiti molto diversi ma è quel tipo di malattie che quando progrediscono ci possono volere anche anni, ma non lasciano scampo. Solo per dire, nel 2016 ho perso il cammino e sono passata nel giro di soli 10 mesi dal bastone al deambulatore, alla sedia a rotelle. Poi la malattia ha iniziato a correre, a mordere, è diventata progressiva. E sulla carrozzina ci sono andata sempre più fissa, non mi sono alzata quasi più. Ma soprattutto si sono aggiunti molti altri sintomi. Alla paralisi, al disturbo funzionale, per esempio, si è aggiunta una spasticità che mi dà cloni, spasmi, dolori, movimenti inconsulti e che allevio appena con la cannabis terapeutica. 

Quando uso il termine “progressione”, chi mi ascolta o legge i post sul mio blog reagisce dicendo: “Dai, non parlare così”. Come se fosse uno spauracchio emotivo. Come se le persone avessero paura di certi termini o li rigettassero. Eppure la progressione nelle patologie neurodegenerative – e non solo – è oggettività clinica, parametro osservabile, misurabile. Per farvi capire, pian piano se ne vanno via tutti i piccoli gesti quotidiani: tenere un oggetto in mano, aprire la zip di un portafoglio, ma non solo, girarmi da un fianco all'altro sul letto, farmi il bidet, abbassarmi e alzarmi le mutande, essere lavata, vestita, sollevata, movimentata, grattarmi in un punto lontano fuori portata dalle mie mani, sporgermi dalla poltrona dove sono seduta per afferrare un oggetto senza rotolare sul pavimento, perché mi manca il tronco, pettinarmi quando le braccia non ce la fanno più ad alzarsi… ormai le mie assistenti hanno rimpiazzato i miei arti.

Più di tutto quanto, forse anche più della disabilità motoria, della spasticità, dell'incontinenza doppia, dei dolori, degli spasmi, c’è la "fatica centrale", che non è quella di tutti, comunemente intesa. È un sintomo bastardo, subdolo, che mi colpisce tutti i giorni e per 4 o 5 ore, a volte fino a sera: mi impedisce di stare dritta, sentire i suoni, interagire, prendere in mano uno spazzolino da denti. Devo essere portata subito a letto. Devo stare distesa in silenzio e in penombra. Per questa fatica non ci sono farmaci, ci sarebbero un paio di molecole ma causano epilessia e io da 20 anni sono anche epilettica. Come dire… il carico da undici.

E poi c’è la qualità della vita. Da anni ho smesso di lavorare per la fatica, sempre più sono diventata un soggetto da assistere continuativamente. Tutto questo potrebbe pure andarmi bene se la malattia si fermasse qui, ma la malattia ha deciso di non fermarsi. Per esempio, tra sei mesi io sarò diversa da come sono ora, così come oggi non faccio più i gesti, i movimenti che facevo sei mesi fa. 

Ho chiamato il mio blog “La vita possibile”. Come sa chi mi segue e legge, amo e rispetto la vita. Io, a oggi, voglio ancora vivere, ma voglio anche sapere di poter morire, se e quando le cose peggioreranno e diventeranno non sopportabili.

So bene che non è facile parlare di eutanasia legale all’indomani della tragedia della pandemia. Si rischia di urtare tante sensibilità in una fase storica che ha visto tanti lutti, con un tasso di emotività collettiva molto alto. So bene che è difficile fare certe discussioni sia in pubblico che in privato, ma ci sono realtà che esistono, e gridano ascolto. 

Sono centinaia le persone per cui questa non è più vita, non possono porre fine alle loro sofferenze in Italia e non possono accedere all'eutanasia all'estero. Alcuni comunque chiedono all’associazione Luca Coscioni di essere accompagnati in Svizzera per l’eutanasia legale, tanti altri – non ce lo nascondiamo – si organizzano clandestinamente, si attrezzano con quello che il caso, la disperazione, i mezzi artigianali o contatti ‘fortunati’ consentono. Quante volte si sente nel lessico comune il termine “medico compiacente”? Come fosse una realtà normale. E può essere non solo un medico, ma un operatore, un assistente, un familiare (altrettanto disperato, a volte più del malato stesso). La verità nuda è questa, ed è bene capirla una volta per tutte: l’eutanasia in Italia già esiste ed è sempre esistita, e da sempre si pratica. Solo che è clandestina, illegale. Sono disposti, i contrari, a riconoscere questa realtà? Se sì – e mi auguro, sarebbe ipocrisia totale misconoscerla – visto che sono contrari, hanno degli strumenti tecnici da suggerire per impedirla?

Migliaia soffrono, in silenzio, segregati, ogni maledetto giorno che passa. In mancanza di una legge e con la sola giurisprudenza a disposizione (la cosiddetta sentenza Cappato del 2019, il caso Dj Fabo) i malati oggi si appellano ad essa (i malati che rientrano nei requisiti stabiliti dalla Cassazione, quindi non tutti, poi ci torno). Bisogna però sapere – pure io l’ho scoperto da poco, con la formazione per gli attivisti del referendum, e non mi ha fatto piacere… – che dal 2019 a oggi di fatto nessuna libertà si è dischiusa, perché la sentenza Cappato non è mai stata presa in considerazione da sanità e territorio, per i malati che ne hanno fatto richiesta. Il solo, recentissimo caso del tribunale di Ancona per Mario, paziente tetraplegico, è stato una notizia enorme e una svolta giurisprudenziale. Ma solo oggi, dopo ben due anni. I malati continuano a soffrire e, senza una legge, continueranno a soffrire: perché i tempi della giustizia italiana sono maledettamente lenti. Passeranno sempre mesi o più spesso anni, prima che un malato riesca a far applicare una sentenza (se gli va bene). E nel frattempo, quanto tempo di sofferenza è passato?

E anche volendo uscire dalla clandestinità, anche attraversando mesi o anni di sofferenza, a oggi soltanto i malati che rientrano nella fattispecie prevista dalla sentenza Cappato, cioè quelli “dipendenti da trattamenti di sostegno vitale” (più o meno quello che una volta si definiva essere attaccati a una macchina), possono sperare di veder riconosciuto il diritto alla morte assistita. E gli altri? Tutte le persone con patologie o disabilità gravissime – si pensi agli oncologici o alle persone affette da neurodegenerative, ma è solo un esempio che mi viene più facile perché ci rientro – sono escluse dallo stesso identico diritto.

La raccolta firme per il referendum sull’eutanasia legale promossa dall'Associazione Luca Coscioni e altre associazioni e movimenti vuole far sì che l’eutanasia legale (attiva) costituisca un reato solo “se il fatto è commesso contro una persona incapace o contro una persona il cui consenso sia stato estorto con violenza, minaccia o contro un minore di diciotto anni” (abrogazione parziale dell'articolo 579 del codice penale, il cosiddetto "omicidio del consenziente"). L’obiettivo è colmare un vuoto normativo e avere sul fine vita, dopo decenni di inerzia e silenzio totale, una legge ad hoc. Già in passato, con 140mila firme, l’associazione ha depositato una proposta di legge di iniziativa popolare, un nulla di fatto. A maggio è stato presentato nelle Commissioni Giustizia e Affari sociali della Camera un testo base sulle "Disposizioni in materia di morte volontaria medicalmente assistita", che però, secondo sempre l’Associazione Luca Coscioni, si limiterebbe a trasporre in legge la decisione della Corte costituzionale sul “processo Cappato”. Ma non basta perché quelle discriminazioni, i "trattamenti di sostegno" di cui sopra, rimangono. 

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Una legge non aprirebbe nessun “far west” come alcuni detrattori temono, piuttosto fisserebbe regole precise, parametri e, soprattutto, responsabilità. Non lascerebbe nessuno allo sbaraglio anzi, proteggerebbe non solo il malato, ma soprattutto chi la effettua (eticamente e giuridicamente). Non costringerebbe nessuno che non vuole ad attuarla. Un diritto in più non toglierebbe nulla a chi non lo vuole. 

Che una legge sull’eutanasia legale sia una legge di libertà, di libertà e autodeterminazione, penso sia chiaro a tutti. Libertà è un concetto trasversale, che mette d’accordo tutti, almeno a parole. Ma autodeterminazione e disponibilità della propria vita (possibilità di disporne) un po’ meno, perché qui si incontrano e scontrano fede, ideologia, politica.

Ho letto materiali e convegni, e ho appreso che in Italia esiste un Comitato Nazionale di Bioetica che non è del tutto ostile al concetto, anzi che ha al suo interno posizioni molto divergenti e aperture importanti al riguardo. E la classe medica? Che in altre epoche, neppure troppo lontane, era tutta quanta contro, poggiandosi sul principio della tutela prioritaria della vita? Io stessa ‘parlo bene’, ma me lo sono chiesta spesso cosa farei se fossi dall’altra parte, cioè medico, e mica è facile la risposta. È un’assunzione di responsabilità immensa: anche per questo non si può più attendere per concepire una legge che regolamenti l’eutanasia legale. Dal 2013 lo caldeggia in una sentenza, finora inascoltata, pure la Corte Costituzionale. Da troppi anni aspettiamo una legge. Al punto che siamo arrivati a chiederla noi come cittadini, con il referendum.

Da persona gravemente malata e in progressione mi piace pensare non che un giorno morirò per mano mia, ma che un giorno avrò la libertà di poterlo, solo poterlo, spero…, fare. Per quel momento lì io spero di non essere costretta a muovermi clandestinamente, a spendere migliaia di euro per una pratica che, sapete, non è gratuita in Svizzera, a espatriare e a far rischiare una condanna penale a chi mi accompagna, alla persona che mi ama, per esempio. Avere diritto all’eutanasia legale mi consentirebbe di vivere meglio anche la mia stessa malattia giorno per giorno... Io me la giocherei, perché avrei la serenità in qualunque momento di poterlo fare, come anche di non farlo.

Io oggi firmo per il referendum per l'eutanasia legale (qui la pagina del referendum) perché voglio essere libera di decidere sulla mia vita, perché di chi è la mia vita, se non mia. Vi chiedo di fermarvi a riflettere, possibilmente senza pregiudizi, di avere empatia, di non rifuggire certe realtà, di non rifuggire l’idea della morte. Firmate per un referendum che porti finalmente in Parlamento una legge sul fine vita, che disciplini l’eutanasia legale, che fissi parametri certi anche per gli scettici. La società civile è pronta ormai e lo si vede dalle file ai banchetti. Altri paesi in Europa hanno compiuto questo passo, non restiamo come al solito indietro. E soprattutto: non voltiamoci dall’altra parte.

Suicidio assistito, Laura Santi diffida il governo e presenta una denuncia nei confronti dell’Ausl Umbria 1 per omissione di atti d’ufficio: «Dopo un anno, la mia richiesta di accesso al suicidio assistito è ancora ferma»

Aggiornamento 7 giugno 2023: Laura Santi è una donna di 48 anni, affetta da una forma progressiva e avanzata di sclerosi multipla. Il 20 aprile 2022 ha deciso di presentare all’azienda sanitaria competente la richiesta per l’accesso alla verifica delle proprie condizioni ai sensi della sentenza costituzionale n. 242/2019, ovvero per accedere al cosiddetto suicidio assistito. A novembre la commissione medica aveva verificato le sue condizioni, ma da allora la relazione è ancora incompleta e manca il parere del Comitato Etico. 

“È impressionante sapere che aspetto da oltre un anno la risposta della AUSL alla mia richiesta di verifica delle condizioni per poter accedere all’aiuto medico alla morte volontaria. Per le persone malate che soffrono si tratta di un tempo infinito. Le mie condizioni al momento mi permettono di poter aspettare: io voglio vivere adesso, ma voglio avere la la possibilità di essere libera di scegliere di dire basta se la sofferenza dovuta alla malattia dovesse prendere il sopravvento sulla mia – e solo mia – idea di vita. Vorrei sapere che quella porta c’è, esiste, e se voglio, posso decidere di aprirla, quando voglio. Una consapevolezza che, sono convinta, farebbe vivere molto più serenamente la mia malattia e quella di tanti altri pazienti con patologie ancora più gravi”, racconta Laura Santi sul sito dell’Associazione Coscioni di cui è anche consigliera generale. 

Il 31 maggio Laura Santi ha depositato una denuncia nei confronti della Ausl Umbria 1 per omissione di atti d’ufficio e ha diffidato il governo chiedendo «di intervenire per porre fine a un silenzio che dura ormai da più di un anno e che vede parte del suo stallo nell’assetto organizzativo dei comitati etici». La Procura di Perugia ha iscritto un fascicolo a carico di ignoti dopo la denuncia. 

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L’Ausl ha replicato che l’assenza di una norma legislativa nazionale sul suicidio assistito impedisce di soddisfare le richieste di Laura Santi «in un quadro di serena tutela anche degli operatori sanitari» e che «il ministero della Salute, con una nota del 3 gennaio, ha precisato che sono in corso approfondimenti all’esito dei quali sarà valutato l’inserimento del tema del suicidio medicalmente assistito all’interno di uno specifico provvedimento normativo in fase di studio».

Non è di questo parere l’Associazione Coscioni, per la quale “la sentenza della Corte costituzionale ha assegnato ai comitati etici la funzione di esprimere un parere per garantire la tutela delle situazioni di vulnerabilità”. Un esempio da questo punto di vista è quanto accaduto in altre regioni, per esempio nelle Marche, dove il comitato etico dell’agenzia locale sanitaria ha autorizzato il suicidio assistito di un paziente tetraplegico, immobilizzato da 10 anni e in condizioni irreversibili, che da oltre un anno aveva chiesto all’azienda ospedaliera marchigiana che venissero verificate le sue condizioni di salute per poter accedere legalmente al suicidio assistito.

Immagine anteprima: Laura Santi

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