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Non è “il tonfo della DAD”. I dati degli Invalsi dicono (molto) altro

17 Luglio 2021 12 min lettura

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Non è “il tonfo della DAD”. I dati degli Invalsi dicono (molto) altro

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di Elisabetta Tola

Da giorni impazzano titoli e interpretazioni sui dati Invalsi, usciti giovedì mattina. Peccato che titolisti, giornalisti e anche parecchi politici dimostrino, ancora una volta, di non saper leggere con la giusta attenzione i report e le tabelle pubblicate dall’Invalsi, l'Istituto nazionale per la valutazione del sistema educativo di istruzione e di formazione,  e, soprattutto, di non conoscere il concetto di correlazione e di rapporto causa-effetto. 

Questo nella migliore delle ipotesi ci dice che costoro sono afflitti dalla stessa incapacità di comprensione e di analisi attribuita ai giovani studenti testati quest’anno, pur senza aver fatto nemmeno un’ora di DAD durante il proprio passato percorso di studio. Nella peggiore, e assai più probabile, che si tratti delle solite invettive superficiali a tesi, che non hanno dietro alcun approfondimento. Sono chiacchiere e prese di posizione che dimostrano la totale incuranza rispetto alle analisi e ricerche prodotte da anni in ambito pedagogico ma che, ancora peggio, svelano che non ci si è probabilmente presi nemmeno il tempo di seguire, su You Tube, le due ore di diretta in cui i ricercatori dell’Istituto hanno presentato e commentato questi dati, che sono, come è stato più volte ripetuto nel corso della presentazione, aggregati e dunque ancora solo parzialmente informativi

Il fatto grave è che queste smanie commentatrici e questa foga a giungere ad affrettate conclusioni hanno purtroppo un impatto sulle scelte politiche, sulle decisioni reali, sugli investimenti che abbisognerebbero invece di contributi seri, ragionati, di conoscenza e di una passione e interesse genuino nei confronti della scuola. Che dovrebbe essere al centro di qualunque politica del paese e non, come avviene, rimanere sempre in retroguardia.

 

Lo ha anticipato subito Patrizio Bianchi, ministro dell’istruzione, nel momento della presentazione dei dati Invalsi giovedì, al CNR di Roma. “Adesso tutti semplificheranno questi dati in una sola parola, la DAD”. Ma è davvero molto riduttivo, poco corretto e perfino un po’ disonesto, perché il punto è un altro. Perché i dati di quest’anno, disastrosi sì, senza se e senza ma, non sono del tutto inaspettati. Sono senza dubbio un netto peggioramento ma rispetto a una situazione già molto poco soddisfacente, dove pesano da anni disuguaglianze, povertà educative, profonde inadeguatezze. “Non giungiamo a sorpresa a questi dati” ha sottolineato Bianchi, “Avevamo già forti evidenze di differenze e disuguaglianze sia tra il Nord e il Sud, sia nei territori tra aree metropolitane e aree interne.” 

Ci sono seri problemi di discriminazione sociale nel nostro paese. E la pandemia ha agito su questo. Come abbiamo già più volte ripetuto anche qui, su Valigia Blu, questo paese non pone la scuola al suo centro da molto molto tempo. E dunque, quando una crisi incrocia una situazione cronicamente fragile e poco adeguata, sia dal punto di vista infrastrutturale e ancor più da quello culturale, può solo avere un impatto tragico.

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Andiamo con ordine. Cosa misurano (e cosa non misurano) i test Invalsi

Disponibili sul sito dell’Istituto e sul canale YouTube, i dati aggregati e i risultati disponibili fino ad ora sono stati presentati e commentati dalla presidente Invalsi Annamaria Ajello e dal responsabile delle prove nazionali Stefano Ricci. 

Al di là dei giudizi sui test Invalsi, sul loro significato, sul loro utilizzo, sul modo in cui vengono predisposti, prodotti, analizzati, quello che i dati offrono non è un giudizio sulla DAD. Non sono stati messi a punto per misurare l’efficacia della didattica a distanza, né sono adatti per farlo. I test Invalsi, si legge ovunque nel sito, si focalizzano sulla misurazione dell’apprendimento di competenze fondamentali, cioè quelle considerate indispensabili per l’apprendimento scolastico anche delle altre discipline nonché nella vita quotidiana. Le prove sono costruite utilizzando una serie di modelli statistici, aggiornati e modificati in base alla letteratura pedagogica prodotta negli anni ma anche in base alla correzione delle risposte degli anni precedenti che consentono di aggiustare i test in base a dati di realtà. In altre parole, alla correzione automatizzata fatta direttamente da un software in base a un algoritmo si aggiunge quella ‘manuale’ dei ricercatori Invalsi che analizzano anche le risposte ‘sbagliate’ e cercano di capire se possano essere recuperate e accettate espressioni, interpretazioni o locuzioni diverse da quelle inizialmente inserite come risposta esatta nell’algoritmo di correzione o se siano effettivamente da considerare come errori. 

Prodotte in base alle Indicazioni nazionali e le Linee guida del Ministero dell’Istruzione, le prove sostanzialmente hanno come obiettivo la misurazione delle capacità di comprensione e interpretazione di un testo scritto, la comprensione e risoluzione di alcuni problemi matematici e logici fondamentali e la capacità di comprensione e ascolto di un testo in lingua inglese. L’Invalsi non si addentra nella misurazione della sfera di capacità comunicativa dei ragazzi e delle ragazze, in quella relazionale, affettiva e tanto meno nella misurazione degli effetti della dimensione socio-economica-culturale in cui le e gli studenti crescono. 

I numeri delle prove Invalsi 2021 sono riassunti nell’immagine qui sotto. 

Cosa dicono i dati che abbiamo adesso

I risultati aggregati li abbiamo letti ovunque. Sulla scuola primaria, parlano di una tenuta tutto sommato dignitosa rispetto al 2019. Si tratta di risultati simili in tutto il Paese, con un “leggero incremento degli allievi che si trovano nei livelli più alti di risultato” per quanto riguarda i test di italiano, e con un leggero calo del risultato medio complessivo in matematica. In inglese, i risultati sono buoni nel reading e meno nel listening ma anche qui non ci sono crolli e le differenze tra Nord e Sud ci sono ma non sono drammatiche.

Sulla secondaria di I grado, la scuola media, i dati mostrano già un divario molto più significativo rispetto al 2019, ultimo anno in cui sono stati somministrati i test. Si perdono 4 punti percentuali sulle competenze in italiano rispetto a due anni fa. In altre parole, adesso ci sono praticamente 4 studenti su 10 che non arrivano al livello minimo previsto per un ragazzo di terza media. Peggio ancora in matematica dove sono il 45%, quindi 4,5 studenti su 10, che non arrivano ai livelli minimi. Anche in questo caso l’inglese più o meno tiene. Ma è quando arriviamo alla secondaria di II grado che vediamo un vero e proprio tracollo. Qui si sono misurate solo le ultime classi del ciclo, annullando la prova per le classi II. Ma i risultati, comunque li si guardi, sono davvero molto preoccupanti: in italiano si sono persi 9 punti percentuali, arrivando a un 44% di studenti che non raggiunge i livelli minimi; 9 punti persi anche in matematica con il 51% degli studenti, quindi più della metà, che non arriva al livello minimo. Le differenze tra regioni sono marcatissime, con Calabria, Puglia e Abruzzo che raggiungono percentuali altissime di basse competenze. 

I dati necessari, che ancora non ci sono

Il rapporto condiviso da Invalsi in questi giorni ha i dati aggregati per regione e fornisce dunque una fotografia d’insieme dell’andamento complessivo. Ma, ed è forse questo il tema centrale per cui ci sentiamo di dire che il dibattito DAD/nonDAD sia troppo superficiale e poco utile, mancano molti dati essenziali per poter ragionare davvero su cosa abbia o non abbia funzionato in questo anno scolastico così eccezionale e quale sia la causa reale di questo arretramento. 

Intanto, i dati di tutte le scuole e classi, opportunamente anonimizzati, saranno disponibili solo a settembre. Gli ultimi test sono stati completati a giugno e quindi ci vuole del tempo per fare delle analisi più raffinate e puntuali. E allora si potrà capire se ad esempio le scuole che hanno perso più terreno sono quelle effettivamente rimaste chiuse più a lungo, per le scelte differenziate fatte dalle diverse regioni. O quelle che hanno scelto forme di didattica a distanza sostanzialmente a zero interazione, riproponendo le logiche della didattica frontale anche online, senza attivare alcuna modifica dei percorsi proposti, delle metodologie di relazione e collaborazione con gli studenti, dei materiali condivisi, dei compiti assegnati e via dicendo. Che così la didattica digitale non funziona l’hanno capito anche i muri: cambia il mezzo, deve cambiare anche l’approccio. Sappiamo invece che nella stragrande maggioranza dei casi la didattica digitale è stata proposta semplicemente facendo in videocall quello che si faceva in aula. Ma senza l’aula. Un’esperienza improntata alla privazione. 

Sarà dunque interessante, quando i dati ci saranno e saranno puntuali, capire se le scuole che hanno fatto negli anni sperimentazione di integrazione delle metodologie digitali nella propria offerta pedagogica sono riuscite ad attutire il colpo meglio delle altre. Se la DAD in altre parole non sia stata invece la chiave che ha permesso a molte scuole di non abbandonare i propri studenti e di non lasciarli indietro. Se le differenze che rileviamo sono tra approcci scelti da un istituto e un altro o tra tipologie di scuola. Insomma, se non guardiamo ai dati puntuali parliamo di quasi nulla. Perché nell’enorme forbice osservata l’unica cosa che possiamo dire è che il divario si è allargato. Ma non sappiamo se questo sia dovuto all’assenza della scuola o alla proposta inadeguata. Non sappiamo nulla della distribuzione di questi dati all’interno delle scuole o tra scuole o tra tipologie di scuola. Già i primi dati resi disponibili con il rapporto attuale mostrano che, per le scuole superiori, c’è una netta differenza tra la tenuta dei licei e quella delle scuole tecniche e professionali. 

 

Non sappiamo se la DAD, qualsiasi forma di DAD, sia stata comunque in qualche modo meglio dell’assenza totale. Ecco perché arrivare alla correlazione tra perdita di competenze e DAD è davvero molto ingenuo. Per non parlare del voler stabilire un rapporto causa-effetto, un errore concettuale che stupisce vedere applicato in modo così generalizzato.

Perché non possiamo raccontarcela: ci sono anche scuole che hanno fatto molto poco; ci sono insegnanti che sono spariti o hanno proposto percorsi completamente inadeguati alla situazione presente; ci sono classi in cui per mesi alcuni studenti non si sono presentati alle lezioni e non è chiaro se si sia messo in campo qualcosa per recuperarli. Aneddoti? Certo, e molti di noi ne hanno senz’altro un paniere a disposizione e se a parlare per aneddoti e per esperienze personali (come più di un personaggio ha fatto usando i propri spazi pubblici e generalizzando una riflessione sulla scuola a partire dal punto di vista del proprio figlio o figlia) non si va molto lontano, non lo si fa neppure usando uno stralcio di dati che sono utili a capire una cosa sola: la scuola va sostenuta ed è una questione di sistema, non di piccoli interventi strumentali. Gli insegnanti vanno formati, aggiornati, potenziati. E non solo al momento dell’entrata a scuola ma nell’intero corso della vita professionale. Le strutture scolastiche e le capacità di coloro che insegnano devono essere la priorità del paese, non un argomento da toccare quelle due o tre volte l’anno in cui escono dati raccapriccianti come questi. 

Disuguaglianze e dispersione, un binomio tragico

In realtà, oltre ai risultati nei diversi test e alle differenze regionali, il rapporto insiste molto su un altro aspetto. Sul quale, ancora una volta, i dati sono pochi e poco raffinati. Ma essenziali. Il fatto che, in tutte le regioni, gli studenti che registrano la maggiore perdita di competenze sono quelli che provengono da contesti socio-economico-culturali più svantaggiati. Diverse ricerche citate dai ricercatori Invalsi mettono in evidenza l’importantissima funzione perequativa della scuola. E infatti le maggiori perdite si sono evidenziate tra i ragazzi e le ragazze che hanno abilità elevate ma vivono in condizioni di svantaggio socio-economico. Addirittura, si è registrato un divario tra studenti maschi e femmine con le seconde che perdono terreno ancor più dei primi. Insomma, gli studenti bravi ma svantaggiati da un punto di vista socio-economico nel momento in cui hanno smesso di andare a scuola fisicamente hanno perso molto più di quelli più benestanti o comunque in condizioni sociali meno critiche. In altre parole, la scuola funziona come luogo di riequilibrio e riduzione della disuguaglianza, quando c’è. Quando non c’è, perchè non è riuscita a fronteggiare l’emergenza in modo adeguato, ha lasciato indietro le persone più fragili

E dunque il timore fondato è, come indica la presidente Ajello, che l’abbandono scolastico, che era in diminuzione pur rimanendo uno dei più alti a livello europeo, possa risalire. “Di fronte a un evidente aumento della povertà educativa, la scuola da sola non ce la fa.” ha dichiarato Ajello. Sottolineando che oltre all’abbandono vero e proprio preoccupa forse ancora di più quella che viene definita dispersione implicita, e cioè l’aumento della percentuale di studenti che passa attraverso la scuola, salvandosi per il rotto della cuffia anno dopo anno, di fatto acquisendo solo la cosiddetta infarinatura delle conoscenze necessarie senza mai consolidare, approfondire, costruire una vera capacità critica, analitica, di comprensione dei fenomeni. Questi studenti erano circa il 7% nel 2019, e sono ora il 9,5%. Una coorte complessiva di circa 45-46mila persone di 18-19 anni che sono rimasti a scuola ma non ne hanno tratto un grande beneficio in termini formativi. Ma questa è la media nazionale: in realtà, nelle regioni del nord il dato è sotto il 5%, in quelle centrali sale a percentuali più vicine al 10, e in alcune regioni del sud, come Puglia e Calabria, è ben sopra il 20%. Uno studente su cinque. Sommandosi ai ragazzi e ragazze che non lavorano né sono in formazione, la percentuale complessiva di dispersione nazionale (implicita più esplicita, che è di poco superiore al 13%) arriva al 23%, ma anche in questo caso le differenze sono marcate e ad esempio in Calabria, Campania e Sicilia è tra il 35 e il 40%. Quindi una persona su quattro a livello nazionale, ma poco meno di uno su due in alcune regioni.

E infine, il dato che non c’è, è quello relativo alla dispersione implicita in base al contesto socio-economico. In altre parole, quello che ci dice quanto un ambiente svantaggiato influisca nettamente sulla capacità di acquisire competenze di base. Anche in questo caso c’è un aumento chiaro (dal 7,3% al 12%) di dispersione implicita tra i ragazzi con status socio economico più basso e uno meno marcato (da 3,7% a 5%) per quelli meno svantaggiati. Ma rimane fuori una fetta importante (l’11% nel 2019 contro il 17,7% nel 2021) di studenti che sono in dispersione implicita ma dei quali non si conosce lo status socio-economico. E questo, osserva Roberto Ricci nel presentarlo, è un elemento molto importante, perché è noto a chi fa ricerca in questi ambiti che “tende a non fornirti il dato il contesto che maggiormente ne ha bisogno.” In altre parole, è necessario guardare molto attentamente alla composizione di questi numeri per capire quali sono i fattori sociali, economici, culturali che li generano e come si possa e debba intervenire per garantire a quei ragazzi e ragazze il diritto a un’istruzione e a una formazione di qualità al pari dei loro coetanei. 

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E dunque, come vediamo, i dati presentati generano molte domande e danno, per ora, poche certezze. E a volerli utilizzare bene indicano una serie di ulteriori approfondimenti, analisi, ragionamenti sul ruolo della scuola nella vita di chi è in fase formativa e, più in generale, del paese che vogliamo. Ma tutto questo richiede uno sguardo più alto, un tempo più approfondito, una volontà di comprendere e leggere e connettere che vadano molto al di là della semplice correlazione spuria per cui il disastro che vediamo è tutto colpa della DAD. Altrimenti ci accontenteremo di tornare in classe, in presenza, senza DAD, senza aver messo minimamente in discussione i determinanti profondi della crisi della scuola italiana, che sono oramai strutturali e richiedono interventi molto più decisi e tenaci. A partire dalla  formazione continua della classe docente che va messa in condizione, con i mezzi e con le conoscenze adeguate, di fronteggiare situazioni critiche senza dover fare i salti mortali per comprimere in poche settimane e con una direzione incerta il lavoro che avrebbe dovuto esser fatto in decenni. 

Immagine anteprima Tommasopaiano, CC BY-SA 4.0 via Wikimedia Commons

 

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