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Aleksandr Dugin e Daria Dugina, padre e figlia sacerdoti di un impero metafisico da costruire sul sangue di un paese

22 Agosto 2022 15 min lettura

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Aleksandr Dugin e Daria Dugina, padre e figlia sacerdoti di un impero metafisico da costruire sul sangue di un paese

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L’esplosione della jeep su cui si trovava al volante Daria Dugina, ventinovenne giornalista, attivista d’estrema destra e figlia del celebre pensatore Aleksandr, è un fatto nuovo, importante, nelle cronache di guerra di questi mesi. L’assassinio di Dugina non può essere analizzato a latere del conflitto in Ucraina, e il ruolo del padre, figura di rilievo dell’ultradestra russa e internazionale, è tra le ipotesi avanzate sul movente. Prima però di mettere in fila quali elementi sono emersi nelle 24 ore successive all’omicidio, è opportuno ricostruire i percorsi di Aleksandr Dugin e di sua figlia, sia per fornire un quadro delle loro idee, sia per far chiarezza su alcuni miti sorti intorno alla figura dell’intellettuale russo.

Dal neofascismo all’impero: il neo-eurasismo di Dugin, tra miti e realtà

Aleksandr Dugin nasce nel 1962 a Mosca, nella famiglia del tenente generale Gelij Dugin, ufficiale del GRU, il servizio di spionaggio dell’Esercito sovietico, ma la sua giovinezza si caratterizza per la ribellione agli ideali comunisti. A 18 anni il giovane Dugin incontra Gejdar Djemal, membro del circolo Južinskij, ritrovo informale di giovani e meno giovani interessati alla letteratura esoterica, all’occultismo, e con un’attrazione sempre più forte per l’esperienza dei fascismi europei. Il circolo era stato messo su dallo scrittore Jurij Mamleev a metà anni Sessanta ed era chiamato Južinskij dalla strada in cui si trovava l’appartamento, nome che resta anche quando nel 1968 l’edificio viene abbattuto. Mamleev emigra nel 1974, e il gruppo, radunatosi attorno a Djemal e al poeta Evgenij Golovin, vira in maniera ancor più decisa verso destra: alle discussioni e alle letture dei libri di René Guenon e Georges Gurdijeff (fino all’inizio degli anni Settanta la letteratura esoterica pubblicata in Occidente era accessibile nelle biblioteche di Mosca) si aggiunge l’interesse per Julius Evola e per Armin Mohler, figure di spicco dell’estrema destra europea del dopoguerra. Golovin e Djemal, a cavallo tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli Ottanta, ribattezzano il circolo con il nome di Ordine nero delle SS, e gli scritti degli autori fascisti e neofascisti iniziano a circolare e a essere tradotti in russo dagli aderenti al circolo. È proprio Dugin, nel 1981, a firmare la traduzione dal tedesco di L’imperialismo pagano, apparsa in samizdat, anche se probabilmente si trattava di un lavoro collettivo, e segna l’inizio di una lunga serie di curatele e traduzioni dei testi di Evola, le cui idee ancora oggi costituiscono uno dei principali nuclei del pensiero duginiano.

Con l’avvento della Perestroika e la progressiva revoca delle restrizioni alla libertà d’associazione, il circolo (o Ordine che dir si voglia) di fatto cessa le proprie attività, e Dugin entra a far parte di Pamjat’ (Memoria), prima formazione ultranazionalista ad apparire pubblicamente nella tarda Unione Sovietica, con un’agenda veementemente antisemita e conservatrice. Quando nel 1988 il giovane attivista entra a far parte del Consiglio centrale dell’associazione, essa era già dilaniata da una serie di divisioni, e Dugin viene espulso pochi mesi dopo con l’accusa di propaganda nazista e di satanismo, probabilmente in riferimento alle sue attività nel circolo Južinskij. L’apertura di fatto delle frontiere consente a Dugin di viaggiare nei paesi dell’Europa occidentale più volte tra il 1989 e il 1993, mentre l’Unione Sovietica vive i suoi ultimi anni, stabilendo contatti fondamentali con i principali esponenti del neofascismo e del tradizionalismo europei. Probabilmente a presentare il non ancora trentenne camerata sovietico in Europa è Mamleev attraverso Golovin, e si tratta di personaggi importanti per lo sviluppo delle sue idee: in questi anni Dugin incontra il belga Robert Steuckers, riferimento di spicco dell’intelligencija neofascista in Belgio e in Francia, a cui deve la scoperta della geopolitica e il termine “nazional-bolscevismo”; il francese Alain de Benoist, fondatore del GRECE, il Groupement de recherche et d'études pour la civilisation européenne, alle origini della Nouvelle Droite e infine Claudio Mutti, figura seminale per la cultura del neofascismo italiano dagli anni Sessanta in poi, e Maurizio Murelli con il gruppo attorno alla rivista Orion. Alcuni di questi legami durano ancora oggi, ultima testimonianza sono le parole commosse di Murelli nel ricordare Daria Dugina, e hanno permesso la costruzione del personaggio di Dugin in Europa occidentale. 

I rapporti intellettuali e ideologici con l’intelligencija d’estrema destra, diventati ancor più frequenti con la caduta dell’Unione Sovietica, hanno avuto fasi alterne, con la prima, coincidente con i viaggi di Dugin in Italia, Francia, Belgio e Spagna e le visite dei camerati nella Russia post-sovietica, che ha visto la traduzione e la pubblicazione delle opere dell’attivista nelle principali lingue europee, a cui è corrisposto un lavoro febbrile di immissione nello scenario politico russo delle parole d’ordine, dei programmi e delle idee del neofascismo europeo. In questo periodo la collaborazione con Aleksandr Prochanov, altro esponente di rilievo dell’estrema destra russa, direttore del giornale Den’ (poi dal 1993 noto come Zavtra), ha permesso l’organizzazione di conferenze, congressi e simposi a Mosca dove sono intervenuti, oltre ai summenzionati esponenti, figure come Jean-François Thiriart, già collaborazionista belga artefice negli anni Sessanta della Jeune Europe, organizzazione continentale con sedi in vari paesi (in Italia era la Giovane Europa), e Carlo Terracciano, altro intellettuale di punta di Orion. Gli incontri danno vita a una serie di pubblicazioni, come l’almanacco Milyj Angel’ (Angelo soave) e la rivista Elementy (Elementi), dove a saggi sull’esoterismo si alternano testi sul tradizionalismo integrale e analisi geopolitiche, e ancora prima il lancio del giornale Giperboreja (Iperborea), iniziativa durata lo spazio di un numero, perché ispirata all’omonima testata Hiperbòrea del Gruppo Thule, organizzazione neonazista spagnola. Nel primo numero di Giperboreja, il cui direttore era Hans Zivers, pseudonimo adottato da Dugin per le sue canzoni (qui il suo album, registrato negli anni Ottanta, dal titolo Krovavyj navet, L’accusa del sangue), l’editoriale si concludeva, dopo una descrizione tenebrosa della Russia rivoluzionaria e sovietica, con l’auspicio di un futuro dove “le nuove forze del Nord” trionferanno, il cui “onore è fedeltà”, e si incoraggiava ad “alzare il braccio teso verso i cieli neri della notte apocalittica urlando: salutiamo la vittoria!”. I contatti con l’estrema destra iberica, uno dei veicoli attraverso cui il pensiero duginiano entra in contatto con il patrimonio ideologico nazista, gli consentono di stringere rapporti con Leon Degrelle, leader dei rexisti belgi, organizzatore e capo della Legione Vallone (poi 28a divisione SS Wallonie) nell’Operazione Barbarossa, scappato nella Spagna franchista per sottrarsi alla giustizia belga, da dove continuò le sue attività. Dugin intervista Degrelle a fine 1993, poco prima della sua morte, e un estratto verrà pubblicato nel 2000 sulla rivista Elementy.

I contatti internazionali non sono però tutto per Dugin: nel 1993, dopo aver tentato, senza grandi fortune, di emergere come ideologo di una sintesi tra nostalgici dell’Unione Sovietica ed estrema destra di vari orientamenti, si ritrova con Eduard Limonov nel Partito nazional-bolscevico, della cui denominazione è debitore di Steuckers. I rapporti con lo scrittore, rientrato in Russia da poco, inizialmente sono buoni: la fama di Limonov come autore controcorrente, le sue avventure nei teatri di guerra di metà anni Novanta, lo rendono un idolo forse poco politico ma assai contro-culturale tra i giovani; quest’aura permette di attrarre anche alcuni protagonisti della scena musicale dell’epoca, come il frontman del gruppo punk Graždanskaja Oborona Egor Letov e Sergej Kurechin, artista d’avanguardia. Sarà quest’ultimo a essere tra gli organizzatori della campagna elettorale di Dugin, candidato in un collegio a San Pietroburgo per le elezioni alla Duma nel 1995, con un comizio finale dove il candidato, Limonov e Kurechin commemorano l’occultista britannico Aleister Crowley. Ma la dimensione alternativa a Dugin va stretta, e il carisma dello scrittore rendeva impossibile una suddivisione dei compiti tra i due: se, come scrive Fabrizio Fenghi nel suo lavoro sul Partito nazional-bolscevico It will be fun and terrifying: Nationalism and protest in post-Soviet Russia, il progetto iniziale tendeva a voler creare una nuova intelligencija, alternativa al liberalismo in salsa occidentale e con un’estetica tendente a combinare aspetti sovietici e nazisti, per il traduttore di Evola la politica ha un’accezione elitista fino in fondo. Dugin voleva ispirare e indirizzare il potere, non creare realtà alternative e considerate poco o nulla in grado di incidere politicamente. 

Già tra il 1992 e il 1993 il nome di Dugin appare in televisione, come ideatore e conduttore di una trasmissione dal nome eloquente, Tajny veka (I misteri del secolo), e una sua creazione è la serie Mistika Rejcha (La mistica del Reich). Ovviamente, si tratta della Germania nazista e dell’occultismo delle SS, spiegato da Dugin mentre getta sul tavolo delle carte con le rune delle varie divisioni, facendo riferimento a non meglio specificati documenti ritrovati nell’Archivio centrale del Kgb. A esser protagonista delle trasmissioni duginiane è l’Ahnenerbe, istituzione sotto il controllo di Heinrich Himmler devota a ricerche pseudo-scientifiche sulle razze, sul ruolo degli ariani nell’edificazione delle civiltà classiche e pratiche occultiste di varia natura. Lo pseudonimo adottato dal conduttore per le sue canzoni, Zivers, è un omaggio nemmeno tanto implicito al direttore esecutivo dell’Ahnenerbe, Wolfram Sievers. La costruzione dell’immagine di ricercatore, depositario di una sapienza ancestrale e misteriosa, a cui coniuga lo studio della geopolitica e delle relazioni internazionali, consente a Dugin di iniziare ad entrare in alcuni ambienti del potere russo, accreditandosi come esperto, anche se nel 1981 venne espulso dall’Istituto dell’aviazione di Mosca, non laureandosi. Questo non impedirà però di riuscire a conseguire, in breve tempo e con modalità alquanto strane, prima una laurea a distanza presso l’Istituto di ingegneria dell’irrigazione di Novočerkassk, per poi diventare kandidat nauk (dottore di ricerca di primo livello) presso l’Università statale di Rostov sul Don e poi doktor nauk (dottore di ricerca di secondo livello) all’Istituto giuridico del Ministero degli interni nella stessa città. Una stranezza dovuta alla lontananza dalla capitale, dove Dugin ha sempre vissuto, di questi atenei. 

L’esperto si muove, tra la fine degli anni Novanta e l’inizio dei Duemila, tra i corridoi della Duma, dove elabora progetti e programmi per il leader comunista Gennadij Zjuganov e per il presidente del parlamento Gennadij Seleznev; tiene corsi all’Accademia dello Stato maggiore, e il suo libro, Osnovy geopolitiki (Fondamenti di geopolitica), registra un certo successo. Nel 2002 Dugin fonda il movimento Evrazija (Eurasia), ma le sue posizioni, definite in seguito come neo-eurasiste, hanno differenze sostanziali con l’eurasismo, corrente intellettuale apparsa nell’emigrazione russa degli anni Venti e Trenta, e che hanno visto in Petr Savickij, Nikolaj Trubeckoj, George Vernadsky i principali esponenti. Dugin, nonostante la sua ostilità al post-modernismo, in realtà nella sua azione intellettuale e politica si muove sempre in una modalità sincretista dettata da questo, che gli consente di tenere insieme la geopolitica di Karl Haushofer e Friedrich Ratzel, la rivoluzione conservatrice di Oswald Spengler, Arthur Moeller van der Bruck e Ernst Junger con le teorie di Lev Gumilev, il nazional-bolscevismo del già citato Steuckers, le idee evoliane e l’esoterismo, ingrediente immancabile in questa miscela politico-ideologica. Nelle opere di inizio Duemila, vi sono anche gli echi dello scontro di civiltà di Samuel Huntington, assieme all’idea della missione imperiale eurasiatica, di cui la Russia dovrà essere futuro perno. 

Le posizioni duginiane sono per uno stravolgimento non solo dell’ordine internazionale, ma anche della società all’interno: per ottenere questi obiettivi, occorrono uno Stato e una struttura sociale frutto di una palingenesi, definita come la Quarta teoria politica, illustrata nell’omonimo libro del 2009. In realtà, più che di quarta, si può parlare di una 3.1, perché Dugin ritiene che il XX secolo sia stato caratterizzato dal capitalismo, dal comunismo e dal fascismo, fallimentari, ma dell’ultimo, come analizzato in precedenza, ha attinto a piene mani. Può sembrare paradossale per quegli osservatori e quei giornalisti italiani che in questi giorni lo descrivono come “padre del nazionalismo russo”, ma la dottrina propugnata dal filosofo ha ben poco di “russo” o “orientale”, debitrice com’è dell’esperienza storica del neofascismo europeo.

L’ascesa e la radicalizzazione dei partiti di destra nella UE, tra cui il Front National in Francia e la Lega in Italia, hanno aperto un nuovo, lungo, periodo di viaggi e di iniziative di Dugin in Europa. Utilizzando i canali aperti vent’anni prima, il filosofo si è assicurato un certo seguito in Italia, presentato più volte come “consigliere di Putin”, se non addirittura vero “cervello” del Cremlino. In realtà la Quarta teoria politica ha poco in comune con le costruzioni ideologiche putiniane, più basate sul nazionalismo russo pre-sovietico, e (parole dello stesso presidente) sulle idee e le posizioni di Ivan Il’in, filosofo dell’emigrazione con forti simpatie per nazismo e fascismo, e Lev Gumilev. La visione del mondo propugnata da Dugin prevede sconvolgimenti interni le cui conseguenze sarebbero imprevedibili per un regime che della depoliticizzazione ha fatto la sua base di sostegno. Ma attribuire incarichi e influenze all’esponente neo-eurasista è servito agli ambienti politici della destra italiana per legittimarsi agli occhi dell’opinione pubblica, sfruttando anche l’effetto eco di quella stampa che, dando per buona la versione del Richelieu di Putin, ne condannava le gesta. A favorire questa rappresentazione è la stessa immagine di Dugin, che riflette  alcuni degli stereotipi sulla Russia e sui russi: barba lunga un po’ da pope ortodosso, un po’ da contadino, aspetto ieratico, sguardo profondo e voce con una nota metallica, le apparizioni del pensatore sembrano l’incarnazione delle raffigurazioni orientaliste di quel paese.

La distruzione dell’Ucraina è da sempre parte dell’armamentario programmatico duginiano. Già in Osnovy geopolitiki si scriveva che “l’Ucraina come Stato non ha nessun senso geopolitico: non ha nessuna cultura di significato universale, non è unica dal punto di vista geografico, non lo è dal punto di vista etnico.” Questa tesi, nei due decenni seguiti alla pubblicazione del libro, è stata ripresa più volte da Dugin, con qualche aggiunta e adattamento, come ad esempio nel testo pubblicato dal sito Tsargrad.tv, parte dell’impero finanziario e mediatico dell’oligarca ortodosso Konstantin Malofeev, protettore del filosofo e sponsor di ogni iniziativa complottista in Russia e in Europa. Nel 2014, durante la prima, violentissima, fase del conflitto nel Donbass, in una diretta con l’agenzia di stampa ANNA News, l’allora professore di sociologia dell’Università statale di Mosca incitò ad “ammazzare, ammazzare e ancora ammazzare”, presenziando e intervenendo alle manifestazioni a Mosca e in altre città per la Russia, urlando dai palchi a Putin di inviare le truppe nella regione. Conseguenza di questo consiglio forse fin troppo spassionato è stato il licenziamento (tecnicamente, mancato rinnovo del contratto) nel settembre di quell’anno, con la perdita dell’agognata cattedra, a cui era stato nominato nel 2008 dal preside della facoltà di Sociologia in risposta alle proteste studentesche contro la politicizzazione all’insegna del nazionalismo e del tradizionalismo dei programmi di studio e la corruzione.

È proprio la posizione radicalmente anti-ucraina, con gli appelli alla violenza, vista come elemento purificatore in una interpretazione escatologica della realtà, ad aver reso Dugin uno dei principali nemici nella guerra in corso. Posizione condivisa da Daria, sulla cui traiettoria politica, seppur meno complessa di quella paterna, è necessario prestare attenzione.

La Marine Le Pen russa: la parabola di Daria Dugina

Daria era la seconda figlia di Dugin, nata nel 1992 dal secondo matrimonio con la docente di filosofia Natal’ja Mentel’eva. Anche lei aveva scelto di studiare filosofia, laureandosi nel 2014 all’Università statale di Mosca con una tesi sul pensiero politico di Platone nelle opere di Proclo, e nel lavoro di preparazione, era andata a studiare all’Università Bordeaux Montaigne, tornandone entusiasta per il livello degli studi francesi sul neoplatonismo. Subito dopo viene ammessa al dottorato, e dalla sua pagina sul portale della Statale è possibile ricostruire il suo percorso che l’ha portata a sostenere attivamente le idee del padre, diventandone una delle principali esponenti della nuova generazione: alle relazioni sul neoplatonismo presentate nei convegni si alternano gli interventi a conferenze e iniziative del Movimento Eurasiatico, con incursioni nel cyberfemminismo e nelle relazioni internazionali. Continua, almeno fino al 2020, l’attività da musicista con il progetto Dasein may refuse, musica elettronica ispirata a Martin Heidegger e Antonin Artaud, con concerti a Mosca e San Pietroburgo, e al tempo stesso il nome di Daria Platonova appaiono i primi articoli, prima sul sito Geopolitika.ru, piattaforma per la diffusione dei testi e delle idee di Dugin, poi qualche intervento sporadico su Russia Today, la partecipazione alle trasmissioni di Radio Komsomol’skaja Pravda, per poi diventare una vera figura di riferimento, con inviti ai programmi del Primo canale. Platonova-Dugina si presenta come politologa, esperta di Europa, interviene preconizzando scenari apocalittici causati dall’immigrazione incontrollata, e per Tsargrad.tv segue le elezioni presidenziali francesi e in generale gli eventi a Parigi. 

L’aggressione militare in Ucraina proietta ancor di più Platonova nell’ambiente dell’estrema destra: interviene ogni settimana nelle varie trasmissioni televisive come voce neo-eurasiatica, partecipa a assemblee organizzate dai circoli nazionalisti e d’estrema destra, è ospite d’onore in vari streaming d’area. La ragazza “sorridente e aperta”, di cui raccontano le amiche degli anni universitari, si è trasformata nella “Marine Le Pen russa”, come recita uno dei tanti articoli in suo ricordo su Tsargrad.tv, e viene inclusa nelle sanzioni di Gran Bretagna e Australia, perché considerata una delle principali fonti della disinformazione russa. Il canale Telegram della Platonova, marchiato con la Z, ha poco più di 20.000 iscritti, che sommati ai repost di altri canali più seguiti, come Nezygar’, considerato una delle voci degli ambienti del potere in Russia, fanno un pubblico non da poco; inoltre, la collaborazione con la casa editrice Černaja sotnja (Centurie nere) si è estesa all’organizzazione di due iniziative nelle librerie a essa legate a San Pietroburgo e Mosca, dove si è discusso del viaggio nel Donbass.

Daria Dugina era stata a giugno a Mariupol, dove aveva visitato Azovstal, e aveva pubblicato foto e post sul suo canale Telegram, per poi a fine luglio raccontare la propria esperienza ai sostenitori della guerra nelle due librerie. Dal 13 al 14 agosto aveva presenziato alla scuola estiva del Movimento Eurasiatico, per poi essere, il 20 agosto, alla lezione di Aleksandr Dugin al festival Tradicija (Tradizione), che vede tra i suoi organizzatori lo scrittore Zachar Prilepin, già alla testa di un drappello di separatisti nel Donbass. 

Chi era l’obiettivo?

Per capire meglio cosa pensava Daria Dugina, val la pena citare il breve testo di presentazione del libro Z, raccolta di scritti sulla guerra in Ucraina in uscita per Černaja sotnja prossimamente. Invitata a raccontare in poche righe le sue impressioni dal viaggio, Platonova ha scritto:

«La filosofia nasce laddove vi sono la morte e la vita in contemporanea, dove c’è l’io e l’altro, dove vi sono la differenziazione e il superamento di questa alterità. Per me la Novorossija è spazio del senso filosofico, proprio in questo istante è lo spazio di formazione dela Russia e grazie a questo orizzonte del fronte noi esistiamo come Russia, come Russia indomabile, Russia sollevatasi contro il liberalismo totalitario che è dovunque nel mondo.
Il viaggio in Novorossija mi ha fatto tornare alle basi della filosofia: alla riflessione sull’epifania, sulle intuizioni, proprio così è strutturato il corretto rapporto con la vita e la morte, con sé e con l’altro, proprio così si formano le ragioni del nostro impero. Per me è stato importante vedere questa autenticità, che oggi non c’è nelle nostre capitali, impolverate e allagate dal fattore della morte. Bisogna andarci in Novorossija, per capire cosa è la vita, come bisogna vivere, cos’è il respiro dell’impero e cos’è l’impero. È la Novorossija a dare una risposta definitiva a queste domande. La prima lezione della Novorossija è la vita forte, è fatta per risvegliarci». 

Parole deliranti, che mostrano l’identità di vedute tra padre e figlia, sacerdoti di un impero metafisico da costruire sul sangue di un paese. L’ultimo intervento di Daria Dugina, all’evento Armija-2022, vero e proprio festival dell’esercito russo, denunciava Bucha come una montatura occidentale. Però probabilmente il vero obiettivo dell’attentato era Aleksandr Dugin, e a spingere su questa ipotesi è il ruolo da lui assunto nel corso degli anni come una delle figure più in vista dell’estrema destra russa all’estero, e nel caso particolare dell’Ucraina, tra le più odiose per le sue posizioni che ne hanno sempre negato la legittimità di esistere.

Il’ja Ponomarev, ex deputato russo in esilio in Ucraina dal 2014, ha annunciato nel corso della trasmissione Utro fevral’ja (Mattina di febbraio) che a compiere l’attentato sarebbe stato l’Esercito nazionale repubblicano, formazione di cui non si ha notizia se non per uno scarno comunicato di "partigiani" russi, oppositori di Putin, letto dallo stesso Ponomarev. A lasciare dei dubbi su questa versione è la modalità con cui in questi mesi in Russia sono avvenute azioni contro la guerra, dal sabotaggio ferroviario all’incendio dei punti di reclutamento, azioni in parte rivendicate da gruppi anarco-comunisti, ma in prevalenza all’insegna dello spontaneismo. Kiev nega ogni coinvolgimento, anche se potrebbe sembrare la pista più ovvia, e si avanzano anche ipotesi di regolamenti di conti non meglio precisati nell’area dell’estremismo ultranazionalista. Crea ancor più confusione l’assenza di registrazioni nel parcheggio del luogo dove si è svolto il festival, per un guasto alle telecamere che risale a due settimane fa: particolare di non poca rilevanza, visto che secondo gli investigatori, l’ordigno a base di tritolo sarebbe stato posto sotto il posto guida.

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Furio Jesi scriveva della religione della morte e delle idee senza parole come parti costituenti del patrimonio ideologico e culturale dell’estrema destra, fornendone una tagliente analisi nel suo Cultura di destra. Per la religione della morte servono biografie esemplari, quanto più possibili agiografiche, di martiri: la storia di Daria Dugina-Platonova ne fa una delle presenze nel pantheon dell’ultranazionalismo e del neofascismo in Russia e in Europa.

*Giovanni Savino, storico, si occupa di Russia e Europa orientale. Visiting professor di Storia dell'Europa orientale all'Università di Parma, autore di saggi e articoli sul nazionalismo russo, autore di "Il nazionalismo russo, 1900-1914: identità, politica, società", Federico II University Press fedOA Press, Napoli 2022. Potete trovarlo su Twitter @giovsav e nel suo canale Telegram Russia e altre sciocchezze

Immagine anteprima via Thelocalreport

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