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Per spezzare un silenzio

20 Gennaio 2024 10 min lettura

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Per spezzare un silenzio

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Quando Valigia Blu mi ha proposto di raccontare il mio nuovo libro senza intermediari, direttamente dalla mia penna, ho pensato: grazie. Perché è bello che ognuno dia la sua interpretazione alle storie che racconti, e penso che uno degli aspetti più meravigliosi della letteratura (come del cinema, come della poesia, come dell’arte in genere) sia quello che svela di te che leggi, quello che ci vede chi ne fruisce, il fatto che siano un po’ come le macchie di Rorschach. Il discorso cambia quando la storia che si racconta è un pezzo di Storia. In realtà non lo è anche quando si racconta un pezzo di storia individuale, che è soggetta a interpretazioni da parte dei lettori e dei giornalisti che decidono di parlarne solo fino a un certo punto. È questo il caso. Quindi mi pare bello avere l’opportunità di parlarne in modo diretto. Senza, per l’appunto, intermediari che possano fraintendere, edulcorare o al contrario indurire, presentare il romanzo come una sentenza di innocenza, colpevolezza o chissà cos’altro, e chissà verso chi.

Quindi, in breve, su cos’è il mio nuovo libro, Dalla stessa parte mi troverai (in libreria dal 12 gennaio, casa editrice Sem), e come nasce? È frutto di un incontro raccontato nel libro stesso. Non sono una scrittrice che va a caccia di storie; al contrario, uno dei miei problemi maggiori è lasciarne fuori alcune. Essendo il tipo di persona che sta zitta e ascolta - per timidezza la prima, per curiosità la seconda - mi riconosco l’unico superpotere di diventare in tempo zero lo sfogatoio perfino di sconosciuti. Quindi, non bastassero le vite che ho vissuto io, ci sono quelle troppo più interessanti e significative degli altri da raccontare. Non l’ho cercata, questa storia, dicevo. Non l’ho cercata: è venuta da me. Ci siamo incontrate. Era giugno 2021, una presentazione del mio primo libro, X (Fandango libri). C’era questa signora bionda nel pubblico, tipo sessant’anni, aveva uno sguardo accogliente e dopo ci siamo fermate a parlare. È uscito fuori che la pensavamo allo stesso modo su un sacco di cose, e soprattutto che io la sua storia l’avevo già intercettata. 

Lei è Rossella Scarponi, e nel 1987 hanno arrestato suo marito Mario Scrocca, padre di un piccoletto di due anni, Tiziano, per Acca Larentia. L’hanno fatto sulla base di una testimonianza de relato, una testimonianza di solito ritenuta insufficiente per incriminare qualcuno per qualcosa, soprattutto per qualcosa di grave come un duplice omicidio. Non solo: la testimone all’epoca dei fatti aveva 14 anni, e non aveva riconosciuto Mario dalla fotografia. Acca Larentia era accaduta 9 anni prima, nel 1978, e all’epoca la testimone era uscita dall’interrogatorio con una gamba rotta. Non solo il marito di Rossella viene arrestato: la notte stessa muore nel carcere di Regina Coeli, suicida in una cella che avrebbe dovuto essere a prova di suicidio. Fatti che non tornano ce ne sono a bizzeffe, e nel libro li ripercorro tutti.

Perché scrivere un libro su qualcosa di così lontano nel tempo, com’è successo che m’impelagassi in una cosa più grande dei miei 32 anni? Il primo motivo: io e Rossella dopo quella presentazione siamo diventate amiche. Credo nella concezione di famiglia di cui parla Michela Murgia nel suo ultimo libro, Dare la vita, pubblicato postumo proprio in questi giorni: la famiglia che non di solo sangue è fatta, che è una collettività composta di affetto, di valori in comune, di azioni condivise e modi per stare bene insieme. Rossella, con i suoi 60 anni e tutto il rispetto che ho provato per lei fin da quella sera di giugno 2021, è presto diventata una sorella maggiore. C’è stato un periodo in cui ho avuto dei problemi di salute abbastanza impellenti, nel 2022, e lei mi è stata vicina come poche altre persone. Stacco.

Una premessa è d’obbligo: non tutti gli autori campano di scrittura. Anzi, quasi nessuno. Nel periodo di cui sto parlando, io ho cercato di mettere su un piccolo stipendio dai seguenti lavori: cameriera, scrittrice di articoli , traduttrice di un libro dal francese (La mia vita da punk di Gilles Bertin, uscito per People), e ghostwriter. Ho scoperto che non tutti sanno cosa sia una ghostwriter, per cui lo specifico: è una persona che scrive libri per altre persone, e che da contratto non vedrà il proprio nome sul libro in questione ma quello di chi glielo ha commissionato. Ne ho scritti tre, è stato un lavoro piacevolissimo - soprattutto se paragonato a quello come cameriera - e mi è servito come palestra di scrittura. 

Dopo X, che è un libro che parte dalla mia esperienza personale, avevo paura di restare confinata nel racconto della mia stessa vita. Mi era angusto. E col ghostwriting ho riscoperto quanto mi facesse piacere parlare degli altri. Ho anche capito che, al netto del fatto che tutte le vite sono profondamente interessanti, ci sono storie che non avevano bisogno di vedere la luce se non per motivi di ego, e altre che ne hanno così bisogno che - anche se non lo sappiamo ancora - ne abbiamo bisogno pure noi. È il caso di Dalla stessa parte mi troverai. Ci ho messo un sacco di tempo a trovare il coraggio di chiedere a Rossella se potessi raccontare la sua storia. Insperatamente, mi ha detto di sì. Da quel momento abbiamo lavorato gomito a gomito, procedendo con la tecnica appresa nel ghostwriting: lei parlava e io, consensualmente, registravo e prendevo appunti. Io scrivevo e riscrivevo e poi le mandavo i materiali da leggere. Niente che sia stato scritto in Dalla stessa parte mi troverai è non consensuale: questo era un punto a cui tenevo particolarmente. Soprattutto per la delicatezza estrema della vicenda che racconta.

Perché questa storia e non un’altra?, quindi. Ho raccontato i motivi più tecnici e le vicende che cronologicamente hanno portato alla nascita del libro - mancano quelli importanti. Quelli politici, quelli psicologici. Proverò a spiegarli in queste righe, anche se resto convinta che ci sia dietro alla scrittura (anche) qualcosa di misterioso, che fa sì che una storia ti chiami intimamente e un’altra no: trovo che non sia incoerente con l’attività di scrivere l’ammettere i limiti delle parole. Anzi. Forse non si può davvero scrivere se non si è consapevoli del fatto che le parole liberano ma delimitano anche, che sono gabbie e scelte; che nominare è un potere grande, ma non assoluto. Tuttavia, un libro è sempre un modo per spezzare un silenzio. E sempre la mia scrittura è stata un tentativo di fare esattamente questo: rompere un silenzio. Trovo che le voci messe a tacere o auto-tacitatesi siano le più potenti. Lo penso da lettrice, non posso non provare a praticarlo da scrittrice.

Detto questo e senza tergiversare in altre questioni teoriche: perché questa storia. Questo è forse il primo anno in cui in Italia (e anche fuori dall’Italia) ci si rende conto della commemorazione fascista che avviene ogni 7 gennaio nel quartiere dove sono cresciuta, precisamente a via Acca Larentia. In corrispondenza di una croce celtica grande quanto quattro numeri civici e visibile anche da Google Street View, tutti i camerati di Roma e dintorni si radunano per la cerimonia fascista del “presente”. Nominano alla maniera militare due morti ammazzati negli anni Settanta e un po’ di altra gente loro, a partire da Mussolini stesso, e fanno il saluto romano gridando.

L’episodio che ricordano è il duplice omicidio di due giovani fascisti il 7 gennaio 1978. Se le femministe fossero come loro ci accusano di essere (in un paradosso retorico, infatti neofascisti ci danno delle “nazifemministe”), visto che non nel 1978, ma l’anno scorso, sono state uccise 109 donne – e tra queste, 90 in ambito familiare/affettivo e 58 sono state assassinate da partner/ex partner – saremmo in massa in piazza a inneggiare al nazifascismo come loro. Ma le uniche vittime che contano per questi specifici maschi - perché sono quasi tutti maschi, salvo eminenti eccezioni, ma ci arriveremo - sono loro. I fascisti (lo scrive Miguel Gotor in Generazione Settanta, non  io) tra il 1969 e il 1973 furono all’origine della stragrande maggioranza delle azioni violente in Italia: il 95% degli attentati, ci dice Gotor. Carnefici, dunque, che come tutti i carnefici si attaccano ai (pochi, in percentuale) danni ricevuti dalla controparte, per dichiararsi vittime. E confermarsi carnefici, inneggiando a Mussolini e inscenando ogni anno in un quartiere che in larga parte non si sente a suo agio con quella croce celtica e quelle scenette una cerimonia macabra a braccio teso. Gli stessi che anche quest’anno erano lì, quando è stata uccisa Giulia Cecchettin hanno fatto circolare un volantino in cui dicevano che sono state le femministe a creare Filippo Turetta: insomma, ce la siamo cercata. Immaginatevi che reazione si avrebbe in Italia se qualcuno scendesse al loro stesso livello dicendo che Acca Larentia se la sono cercata loro. Infangare la memoria di una giovane donna uccisa ingiustamente per glorificare quelle dei fascisti è proprio una cosa da fascisti.

Uno dei motivi per cui ho scritto Dalla stessa parte mi troverai è che ho problemi con le persone vigliacche e con i loro doppi standard. Un altro motivo è che mi piace chiamare le cose col loro nome, e questo è uno dei poteri che la scrittura ha. Sulla parola fascismo si è straparlato negli anni di Berlusconi e forse ancora prima: si è usato questo termine, e si usa ancora, per definire chiunque abbia una chiusura di pensiero, chiunque neghi il dialogo a qualcuno, col paradosso retorico di elaborare un’espressione perversa come “fascismo degli antifascisti”, andando a scomodare strumentalmente Pasolini. Eppure, il fascismo ha delle caratteristiche ben precise. Tutt’altro che eterne, visto che nasce con Mussolini e non prima. E benché il libro sull’Ur-fascismo di Umberto Eco sia quanto di più interessante dal punto di vista filosofico, forse oggi quella visione è insufficiente, troppo allargata, troppo poco specifica.

Quello che cerco di fare nel mio libro è sicuramente troppo ambizioso per una persona nata nel 1991, che ha una laurea in Giurisprudenza e non in Storia (e infatti il libro è passato dal dialogo con svariate persone, Rossella e suo figlio Tiziano in primis, ma anche uno storico, un giornalista, svariati editor della casa editrice che fa capo a Feltrinelli); in Dalla stessa parte mi troverai cerco di ragionare sull’insufficienza ontologica, psicologica, storica e politica delle categorie binarie di vittima e carnefice. La vittima perfetta non esiste, il carnefice perfetto neanche. Proprio quando si ritiene che esistano, si lascia spazio a “commemorazioni” fasciste come Acca Larentia, giustificando croci celtiche et similia. Perché se hanno avuto delle vittime non sono carnefici perfetti, e se l’antifascismo non si limita a essere vittima allora non piace. Non è così la storia collettiva, non è così la storia dei singoli. Questo è un tema eminentemente femminista, perché la giustificazione dei carnefici è ciò che avviene quando si pensa che la vittima non sia Santa Maria Goretti: penso al silenzio (salvo collettivi specifici, come quello che fa capo a Padova Hardcore e al movimento Non Una Di Meno) che ha seguito la vicenda recentissima di una sex worker aggredita e mandata all’ospedale da uno che si era finto suo cliente. La società non ritiene certe storie abbastanza da compatire, certe vittime abbastanza vittime da prenderne le difese. Da scegliere di stare dalla stessa parte.

Il discorso è lungo, lascio che sia il libro ad articolarlo. Arrivo quindi all’altro motivo, che è letterario. In Italia si tende a rappresentare i fascisti come qualcosa di lontano da sé. Con qualche eccezione: mi viene in mente un libro recente della scrittrice Michela Marzano, che ricostruisce con stupore la storia di suo nonno scoprendolo, appunto, fascista (Stirpe e vergogna, 2021, Rizzoli). Raramente lo stesso ragionamento si applica all’odierno. Raramente c’è una presa di responsabilità per aver ammesso anche solo il dialogo con i fascisti nelle proprie vite. Nell’immaginario narrativo siamo scissi tra il racconto di cavalieri senza macchia che i fascisti li combattono o quelli e quelle che da loro le prendono (in questo mucchio metto il mio X, con un po’ di autocritica giustificata solo dalla mia inesperienza autoriale: era il primo libro) e la loro auto-narrazione mistificante (non voglio citare libri scritti appositamente per riabilitare un pensiero di estrema destra, ahinoi li conosciamo tutti, sono nelle classifiche dei più letti, se non altro perché hanno talmente disgustato i giornalisti da averli portati a fare pubblicità gratuita). 

Mi interessava indagare uno spazio di presa di responsabilità non mostrificante ma neanche relativizzante della gravità del fascismo. Mi interessava, dopo un libro come X in cui provavo a porre il tema del neofascismo raccontando di quella volta in cui uno che Acca Larentia la frequentava ha pensato bene di stuprarmi, scucirmi di dosso l’identità di solo-vittima (che poco m’interessa a livello umano, figuriamoci letterario) e indagare invece le responsabilità. A partire dalla mia, volevo comprendere quella collettiva sull’agibilità di queste persone nel discorso pubblico prima ancora che nei nostri quartieri. Uscendo per un attimo dal seminato del fascismo, nel libro c’è un altro argomento a cui tengo molto, e che riguarda ancora una riflessione sulla responsabilità: le relazioni con persone abusanti. Anche in questo caso, trovo che nella letteratura italiana ci sia bisogno di fare qualche passo avanti sulla rappresentazione - meno vittimistica ma neanche maschilista, semplicemente più onesta - di ciò che avviene in questi rapporti.

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Altro motivo per cui ho scritto questo libro: trovo anomalo che una presidente del Consiglio non risponda delle accuse di aver depositato una corona di fiori sulla croce celtica di Acca Larentia a una commemorazione neofascista nel 2008, e odio vivere in un paese che se ne frega di una vigliaccheria simile e che vota persone che rivendicano quelle “radici”.

Porto infine l’ultimo, ma mai ultimo, motivo per cui ho scritto Dalla stessa parte mi troverai: come dice Rossella, “nei miei sogni più scemi spero che, magari in punto di morte o per qualsiasi motivo, uno di quei secondini che era lì quando c’era Mario o uno degli altri detenuti che sa qualcosa, si sveglia e me la dice”. Il suo desiderio di verità è una cosa che mi piacerebbe trovasse un seguito e delle risposte. Sarebbe, per citare suo figlio Tiziano, meglio tardi che mai. Non solo nella vita di una famiglia a cui vuole bene chiunque abbia avuto la fortuna di conoscerla, ma anche nella vita della collettività tutta. Che non solo a parole dovrebbe potersi dimostrare antifascista, ma neanche dando patentini a chi ha una storia personale diversa dalla tua. Semplicemente, che questo paese faccia i conti con la sua Storia. Anche col fascismo, sì.

Immagine in anteprima via Feltrinelli

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