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“Se vogliamo stare con il coraggioso popolo ucraino, dobbiamo trovare un modo per opporci al petrolio e al gas”

28 Febbraio 2022 12 min lettura

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“Se vogliamo stare con il coraggioso popolo ucraino, dobbiamo trovare un modo per opporci al petrolio e al gas”

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Il round-up settimanale sulla crisi climatica e i dati sui livelli di anidride carbonica nell'atmosfera.

Quali sono le implicazioni dell’invasione della Russia in Ucraina rispetto alla crisi energetica globale e al cambiamento climatico? È questa la domanda alla quale cerca di rispondere un lungo articolo esplicativo del sito Carbon Brief che affronta le diverse questioni sollevate in questi giorni: qual è il peso della Russia nel contesto energetico globale ed europeo? Quali potrebbero essere gli impatti di quanto sta accadendo e delle possibili sanzioni nei suoi confronti? Quanto l’Europa è dipendente dalla Russia e come potrebbe ridurre la sua dipendenza da un punto di vista energetico? Come stanno reagendo le altre nazioni? Quali gli effetti anche su altre materie prime, a partire dal grano e dal mais? Il conflitto provocherà carenze alimentari e aumenti dei prezzi in aree del mondo già fragili, colpite dalla carestia, come ad esempio alcuni paesi dell’Africa?

In queste ore, la questione climatica sembra essere messa in secondo piano (o nemmeno inclusa) quando si parla degli equilibri politici ed energetici che rischiano di essere ribaltati dall’invasione russa in Ucraina, scrive Carbon Brief. Ma crisi politica e diplomatica, crisi energetica e crisi climatica sono profondamente interconnesse. Da un punto di vista energetico, l’Europa dovrà trovare una strada per essere indipendente dal petrolio, dal gas e dal carbone della Russia. Superare l’era dei combustibili fossili è la condizione ineludibile per contrastare i cambiamenti climatici. Ma gli Stati sanno immaginare concretamente uno scenario di questo tipo?

Leggi anche >> Clima: l’invasione della Russia in Ucraina ci dice che è ora di accelerare la transizione energetica

Le posizioni sono essenzialmente due, tra chi (come la presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen) ha sottolineato la necessità di accelerare l'introduzione delle tecnologie per l'energia pulita e chi (come le lobby del fossile), invece, cerca di sfruttare la situazione per proporre l’aumento delle forniture nazionali di combustibili fossili in modo da ridurre la necessità di importazioni russe.

"Questa non è una ‘guerra per petrolio e gas’ – commenta sul Guardian il noto ambientalista Bill McKibben, Schumann distinguished scholar al Middlebury College, negli Stati Uniti – ma è una guerra sottoscritta da petrolio e gas, una guerra la cui arma più cruciale potrebbero essere petrolio e gas, una guerra in cui non possiamo impegnarci pienamente perché rimaniamo dipendenti da petrolio e gas. Se vogliamo stare con il coraggioso popolo ucraino, dobbiamo trovare un modo per opporci al petrolio e al gas".

Alcuni numeri

La Russia è uno dei principali produttori di combustibili fossili al mondo. È il secondo produttore di gas (17% della produzione globale nel 2020), dopo gli Stati Uniti, e il terzo di petrolio (12% della produzione globale 2020), dopo USA e Arabia Saudita. I due quinti delle entrate della Russia provengono dalle vendite dei combustibili fossili. Regno Unito, Stati Uniti e Unione Europea spenderebbero collettivamente oltre 700 milioni di dollari al giorno per acquistare petrolio e gas russi, riporta Bloomberg. Secondo i dati ufficiali degli Stati Uniti, il 70% delle esportazioni russe di gas e il 50% di quelle di petrolio finiscono in Europa che importa più di un terzo della sua fornitura di gas dalla Russia, stando a una stima pubblicata sul New York Times

Negli ultimi 30 anni, scrive sempre il New York Times in un altro articolo, utilizzando dati Eurostat, l’UE ha ricevuto quasi il 40% del suo gas e oltre un quarto del suo petrolio dalla Russia. E se alcuni paesi, come Francia e Polonia, hanno ridotto la loro dipendenza dal carburante russo, altri (come la Germania e l’Italia) sono diventati più dipendenti. Al riguardo, riporta il Financial Times, il cancelliere tedesco Olaf Scholz ha dichiarato che la Germania punta a essere indipendente dal gas e arrivare a zero emissioni di carbonio entro 25 anni, ampliando la sua capacità di energia solare ed eolica.

Quali potrebbero essere gli impatti della guerra sulle forniture di gas provenienti dalla Russia?

Molte testate si sono chieste se l’Europa rischia un’interruzione delle forniture di gas russo per danni ai gasdotti provocati dal conflitto in corso o per un’eventuale decisione politica del presidente Putin in risposta alle sanzioni nei confronti della Russia. 

Carbon Brief riporta le osservazioni su Twitter di Thijs Van De Graaf, professore associato di politica internazionale presso il Ghent Institute for International and European Studies dell'Università di Gand, in Belgio. 

Innanzitutto, sono remoti i rischi di danni ai gasdotti perché la maggior parte dei gasdotti di transito non si trovano nelle aree centrali del conflitto. Tuttavia, se anche dovessero esserci interruzioni dei gasdotti che attraversano l’Ucraina per un inasprimento della crisi, la Russia potrebbe continuare a esportare il gas verso l’Europa dirottando le forniture attraverso altri gasdotti, spiega il Van De Graaf.

Da un punto di vista politico, secondo il professore dell’Università belga, la Russia potrebbe permettersi di tagliare le forniture di gas, considerato che lo Stato guadagna cinque volte di più dall’esportazione di petrolio rispetto al gas e che detiene 630 miliardi di dollari di riserve estere. Tuttavia, “è altamente improbabile" che vengano tagliate le forniture “ai più grandi clienti di Gazprom in Europa” (verso cui sta consegnando “i volumi che contrattualmente è obbligata a fornire”), né è pensabile che le esportazioni vengano trasferite alla Cina – come ipotizzato da alcuni in questi giorni – “poiché non dispone dell’infrastruttura del gasdotto”, ha aggiunto Van De Graaf.

Attualmente il 5% delle esportazioni della Russia di gas e il 31% di quelle di petrolio vanno verso la Cina. All'inizio di febbraio, tre settimane prima dell'invasione in Ucraina, le due nazioni hanno firmato nuovi accordi di petrolio e gas per un valore stimato di 117,5 miliardi di dollari, incluso un contratto di 30 anni per il gas che aumenterebbe di un quarto la fornitura russa verso la Cina. Inoltre, Russia e Cina stanno attualmente discutendo altri quattro progetti di gasdotti e, secondo quanto riportato dall’agenzia di stampa russa Tass, un funzionario del ministero dell'Energia russo ha dichiarato la scorsa settimana che la Russia prevede di aumentare le sue esportazioni di carbone in Cina fino a 100 milioni di tonnellate.

Tutto questo, hanno osservato alcuni media ripresi da Carbon Brief, fa pensare che la Cina possa essere “un’ancora di salvezza economica” in caso di sanzioni dell’UE, Stati Uniti e Regno Unito nei confronti della Russia.

Una di queste riguarda il gasdotto Nord Stream 2, lungo 1.200 km, che scorre sotto il Mar Baltico per portare il gas dalla Russia alla Germania senza transitare in altri paesi. La costruzione di Nord Stream 2 è costata oltre 9 miliardi di euro ed è stata completata lo scorso settembre, scrive BBC. Nord Stream 2 corre parallelo al gasdotto Nord Stream e, se approvato, raddoppierebbe la sua capacità a 110 miliardi di metri cubi di gas all'anno, spiega un articolo su ABC News. Stati Uniti, Regno Unito, Polonia e Ucraina si sono opposti al progetto che gli USA hanno già tentato di bloccare in passato perché avrebbe dato maggiore influenza alla Russia rispetto alle forniture di gas all’Europa, imponendo sanzioni alle società coinvolte. Recentemente, il cancelliere tedesco ha congelato l’approvazione del progetto, mossa probabilmente preventivata dalla Russia, secondo un articolo di analisi del Financial Times

Gli effetti del conflitto in Ucraina potrebbero riverberarsi, infine, anche nelle bollette e nei prezzi di benzina e diesel. I prezzi del gas europeo sono aumentati temporaneamente di quasi il 70%, riferiva la scorsa settimana il Financial Times, mentre per la prima volta dal 2014 il petrolio greggio ha superato i 105 dollari al barile per poi scendere sotto i 100 dollari una volta che il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, ha affermato che le sanzioni contro la Russia si sarebbero concentrate sul settore finanziario piuttosto che su quello energetico.

Come l’Europa può ridurre la sua dipendenza dal gas russo?

Gli scenari proposti in questi giorni da analisti, commentatori e politici sono sostanzialmente due. Da un lato, c’è chi sottolinea la necessità di sfruttare le risorse nazionali di combustibili fossili per ridurre la dipendenza dalle esportazioni russe; dall’altro, c’è chi sostiene l'accelerazione del passaggio a forniture energetiche più efficienti e più pulite in modo tale da abbandonare del tutto i combustibili fossili. Quando si guarda alle soluzioni vanno, quindi, valutati i tempi di realizzazione e implementazione. Nel Regno Unito, ad esempio, il comitato consultivo del governo sui cambiamenti climatici ha recentemente osservato che nuove licenze di esplorazione e ricerca di combustibili fossili nel Mare del Nord richiedono in media 28 anni prima di iniziare a produrre petrolio e gas.

I tempi, invece, sono molto più stretti. E da questo punto di vista, secondo un articolo su EurActiv di Michaela Holl, senior associate presso il think tank tedesco Agora Energiewende, e Jan Rosenow, direttore del Programma europeo al Regulatory Assistance Project (RAP), un team di esperti di energia, l’Europa potrebbe “ridurre rapidamente la propria dipendenza dal gas” investendo in efficienza energetica, elettrificazione ed energie rinnovabili. L’Europa dovrebbe diversificare il suo mix energetico rafforzando le fonti pulite invece di diversificare i fornitori dei suoi combustibili fossili, come è solita fare, si legge in un’analisi dell'Istituto per l'economia e l'analisi finanziaria dell'energia (IEEFA). 

Il 2 marzo la Commissione Europea aveva pianificato l’annuncio di una strategia per rendersi maggiormente indipendente dal gas russo, tagliando la domanda di carburante del 40% entro il 2030. Una riduzione maggiore delle attuali forniture dalla Russia, scrive Carbon Brief. Secondo quanto riportato da EurActiv, la bozza del documento della Commissione affermerebbe che “la migliore soluzione per una maggiore resilienza energetica, una minore dipendenza dalle importazioni di gas e prezzi più bassi, è l'accelerazione dell'attuazione del Green Deal europeo. La rapida attuazione delle misure Fit for 55 e in particolare gli investimenti nelle rinnovabili e nell'efficienza energetica è la migliore risposta per il futuro”.

Particolarmente significativa è la performance di Paesi Bassi e Spagna, in grado di ridurre la domanda di gas nei loro settori elettrici rispettivamente del 22% e del 17%, in soli due anni, tra il 2019 e 2021, costruendo più rinnovabili, ha osservato in un'analisi pubblicata su Twitter, Dave Jones (del think tank Ember). 

Per Suzana Carp, direttrice esecutiva della ONG Carbon-Free Europe, e Nikos Tsafos, Schlesinger Chair presso il Center for Security and International Studies (CSIS), non ci sono dubbi: la guerra in Ucraina segnerà un cambiamento delle politiche energetiche in Europa. 

Secondo Carp, “vedremo un passaggio verso fonti rinnovabili, nucleari e a zero emissioni di carbonio che diano all'Europa l'autonomia di cui ha bisogno”, mentre Tsafos in un thread su Twitter ha detto che è il momento di “pensare in grande”. Tra le soluzioni suggerite, la realizzazione e l’installazione di 100 milioni di pompe di calore in tutta Europa. Sempre su Twitter Lauri Myllyvirta, analista capo presso il Center for Research on Energy and Clean Air (CREA), ha stimato che l'Europa potrebbe porre fine alle importazioni di gas russe costruendo circa 370 gigawatt (GW) di energia eolica e solare e contemporaneamente lanciando pompe di calore, sufficienti per aumentare la produzione di energia pulita nell'UE e nel Regno Unito insieme di circa il 40%. La sostituzione delle caldaie a gas con pompe di calore ridurrebbe la domanda di gas, anche se l'elettricità che le alimenta fosse generata utilizzando il gas, ha spiegato Rosenow (RAP).

Non sono mancati gli interventi di chi ha proposto, invece, di mettere da parte le rinnovabili e investire nei combustibili fossili nel proprio paese. A sostenere questa posizione, anche le grandi compagnie petrolifere che, oltre a chiedere di evitare sanzioni nel settore energetico, stanno contemporaneamente affermando che una maggiore produzione interna aiuterà a combattere l’influenza della Russia sulla scena globale. 

Negli Stati Uniti l’American Petroleum Institute ha esplicitamente chiesto all'amministrazione Biden di invertire la rotta delle politiche energetiche, volte a frenare la produzione di combustibili fossili, principale motore del cambiamento climatico. “Mentre la crisi incombe in Ucraina, la leadership energetica degli Stati Uniti è più importante che mai”, si legge in un tweet accompagnato da una foto molto eloquente che dice: "Scateniamo l'energia americana. Proteggi la nostra sicurezza energetica”. 

Secondo la lobby petrolifera, gli USA dovrebbero rilasciare i permessi per la perforazione sui terreni federali, proseguire con lo sviluppo offshore e ridurre l'incertezza legale e normativa che favorisce le azioni legali.

“È come uno spacciatore che cerca di convincere le autorità che il modo migliore per eliminare un rivale non è reprimere la droga, ma aumentare la produzione autoctona”, commenta sul Guardian l’attivista climatico Jamie Henn, direttore e fondatore di Fossil Free Media. “L'effetto sarà lo stesso: maggiore dipendenza”.

In un articolo su RealClear Energy, il commentatore scettico sul clima Rupert Darwall ha affermato – senza alcuna evidenza – che le energie rinnovabili aumentano la dipendenza dell'Europa dal gas russo. Invece, lo scorso anno l'energia eolica da sola ha generato abbastanza elettricità nell'Unione Europea da evitare la necessità di acquistare gas per circa 56 miliardi di euro. Altri 15 miliardi di sterline sono stati risparmiati dal Regno Unito.

Gli effetti del conflitto sulle altre materie prime

La guerra potrebbe avere un grave impatto sulla sicurezza alimentare globale. Sia la Russia che l'Ucraina sono due dei principali granai del mondo. Un quarto delle esportazioni mondiali di grano nel 2019 proveniva da questi due paesi. L’Ucraina è il quarto fornitore di grano (12% delle esportazioni mondiali) e mais (16%) al mondo.

Il granaio storico si trova nell’area orientale del paese: Kharkiv, Dnipropetrovsk, Zaporizhia e Kherson, di poco a ovest di Donetsk e Luhansk, epicentro iniziale dell'occupazione da parte delle forze russe.

Quasi la metà del mais e un quarto di cereali e olio vegetale dell’Ucraina sono esportati in UE. Ma tra le regioni che potrebbero essere maggiormente colpite ci sono il Medio Oriente e l’Africa, che rappresentano quasi il 40% delle esportazioni ucraine. 

L'Egitto – il più grande importatore mondiale di grano e che ospiterà a fine anno la prossima conferenza mondiale sul clima (COP27) – è particolarmente a rischio, considerato che importa quasi il 70% del suo grano da Russia e Ucraina, come riporta l’Economist. L'anno scorso, la Russia ha imposto tasse sulle esportazioni di grano facendo lievitare il prezzo dei cereali in Egitto di 80 dollari in più rispetto a quanto previsto nel bilancio del governo per il 2020-21, scrive Middle East Eye.

L’aumento dei costi e la carenza di grano potrebbe non solo aggravare una situazione di miseria, ma provocare conseguenze sociale imprevedibili in paesi già fragili come Yemen, Libano, Libia e Bangladesh, tra i principali importatori dell’Ucraina, osserva il Washington Post

Nel frattempo, l’India starebbe cercando di individuare un meccanismo di pagamento in rupie per il commercio con la Russia per “attutire le conseguenze di eventuali sanzioni occidentali” sui fertilizzanti russi che potrebbero avere un impatto considerevole sul settore agricolo indiano. L’India, inoltre, è il più grande importatore mondiale di olio commestibile. Attualmente quasi 380mila tonnellate di spedizioni di olio di girasole (per un valore di 570 milioni di dollari) sono bloccate nei porti. Di fronte alla scarsità di olio di girasole, entro poche settimane l’India potrebbe tornare a importare olio di soia e olio di palma, “già scambiati a livelli record”.

Anche il Brasile potrebbe avere contraccolpi dalle sanzioni sui fertilizzanti, scrive Reuters. Il Brasile importa quasi l’85% dei suoi fertilizzanti e ha la Russia come principale fornitore della miscela “NPK” (azoto, fosforo e potassio), con 9 milioni di tonnellate di importazioni.

Infine, potrebbero esserci ripercussioni sulle esportazioni di metalli e materie prime (tra cui carbone di cui la Russia è sesto produttore e terzo esportatore al mondo, minerale di ferro, nichel, palladio, platino e uranio) estratti in Russia, molti dei quali “considerati cruciali per un futuro a basse emissioni di carbonio”. La Russia è il più grande produttore mondiale di palladio (40% della fornitura mondiale nel 2021), utilizzato anche per immagazzinare e purificare l’idrogeno e i cui prezzi hanno raggiunto il loro massimo dopo l'invasione in Ucraina.

La Russia produce anche il 10% del platino mondiale, attualmente scambiato al 12% in più rispetto allo scorso anno in questo periodo, secondo MarketWatch; il 3,5% del rame mondiale, esportato principalmente in Asia ed Europa; il 6% dell’alluminio (i cui prezzi la scorsa settimana sono saliti a livelli record); mentre la società mineraria russa Nornickel produce circa il 7% del nichel estratto a livello globale, secondo quanto riportato da Reuters. Anche se lontana dalla Repubblica Democratica del Congo, con il 4% della produzione mondiale, la Russia è il secondo produttore di cobalto, utilizzato principalmente nelle batterie agli ioni di litio.

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Gli Stati Uniti acquistano il 90% del neon per semiconduttori dall'Ucraina. Scrive Reuters che due settimane fa la Casa Bianca ha consigliato all’industria dei semiconduttori di “diversificare la propria catena di approvvigionamento”.

L'Ucraina e la Russia sono rispettivamente il nono e il decimo produttore mondiale di uranio. Una delle principali riserve si trova proprio nel Donbass.

Immagine in anteprima: Peretz Partensky, CC BY-SA 2.0, via Wikimedia Commons

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