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In Italia raddoppiano le pubblicità delle aziende inquinanti mentre i media parlano di crisi climatica poco, male e senza indicare le cause

29 Marzo 2023 8 min lettura

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In Italia raddoppiano le pubblicità delle aziende inquinanti mentre i media parlano di crisi climatica poco, male e senza indicare le cause

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Il round-up settimanale sulla crisi climatica e i dati sui livelli di anidride carbonica nell'atmosfera.

I principali media italiani negli ultimi mesi hanno dedicato meno spazio alla questione ambientale, nel frattempo sono raddoppiate le pubblicità di aziende inquinanti e la crisi climatica viene raccontata come se non avesse responsabili, a riprova dell’influenza esercitata dall’industria dei combustibili fossili sul mondo dell’informazione.

È quanto emerge dal nuovo rapporto che Greenpeace Italia ha commissionato all’Osservatorio di Pavia, istituto di ricerca specializzato nell’analisi della comunicazione. Lo studio ha esaminato, nel periodo fra settembre e dicembre 2022, come la crisi climatica è stata raccontata dai cinque quotidiani nazionali più diffusi (Corriere della Sera, Repubblica, Il Sole 24 Ore, Avvenire, La Stampa), dai telegiornali serali di Rai, Mediaset e La7 e da un campione di programmi televisivi di approfondimento.

La ricerca completa il monitoraggio sulla copertura mediatica dei cambiamenti climatici avviata dall’organizzazione a gennaio 2022, e che proseguirà per tutto il 2023, nell’ambito della campagna “Stranger Green”, contro il greenwashing e la disinformazione sulla crisi climatica. I risultati dei precedenti quadrimestri sono consultabili qui e qui

“Gli ultimi mesi del 2022 confermano la sconcertante indifferenza dei media e dei politici italiani nei confronti della più grave emergenza ambientale della nostra epoca”, dichiara Giancarlo Sturloni, responsabile della comunicazione di Greenpeace Italia. “Tutto questo non cambierà finché i principali organi di informazione continueranno a dipendere dalle pubblicità delle aziende inquinanti, e finché la classe politica preferirà assecondare gli interessi dell’industria dei combustibili fossili anziché quelli di cittadine e cittadini. Viviamo in un paese dove le aziende hanno un’enorme influenza sul racconto mediatico della crisi climatica, e dove un colosso come Eni può dettare le politiche energetiche al governo”.

Una crisi climatica raccontata poco, male e senza responsabili

Per quanto riguarda i quotidiani cartacei, dall’1 settembre al 31 dicembre 2022 sono stati 886 gli articoli in cui si parla di crisi climatica: tre su quattro lo fanno in maniera esplicita, ma nella metà di questi la questione è soltanto citata. Il numero è diminuito rispetto al quadrimestre precedente, con una media di 2,5 articoli al giorno, contro i 2,8 del periodo dall’1 maggio al 31 agosto 2022. Il picco si è registrato in occasione della Cop27 sul clima di Sharm el-Sheikh, che si è tenuta dal 6 al 18 novembre, e dell’alluvione sull’isola di Ischia del 26 novembre. Il Corriere della Sera e La Stampa sono i quotidiani che hanno contribuito di più a questa variazione in negativo, mentre il Sole 24 ore attesta una controtendenza, registrando un leggero aumento di articoli dedicati alla questione ambientale.

Per quanto riguarda le occasioni nelle quali si tratta esplicitamente la crisi climatica, al primo posto ci sono gli eventi politici (nel 37% dei casi), seguiti dagli eventi economici e industriali (21% dei casi). I fenomeni naturali estremi rappresentano il 7%, poi c’è la presentazione dati, ricerche, rapporti (appena il 6%), le iniziative di sensibilizzazione (sempre solo il 6%) e l’attivismo e le proteste ambientaliste (un risibile 4%). Interessanti sono anche i dati sui riferimenti o meno negli articoli alle cause della crisi climatica: nell’85% dei casi, i motivi che ci hanno portato fin qui non sono citati. Quando invece vengono riportati, si parla soprattutto di emissioni di Co2 e gas climalteranti (55% dei casi) e di combustibili fossili (43% dei casi), mentre in rarissimi casi ci si concentra sulle politiche pubbliche, citate solo nel 3% degli articoli analizzati. Solo in 62 articoli vengono esplicitamente indicati i soggetti responsabili della crisi climatica: si tratta prevalentemente di istituzioni o soggetti politici (42 casi), raramente di compagnie petrolifere (10 casi) o altre aziende (8).

Parallelamente, è aumentato lo spazio occupato sui giornali dalle pubblicità dell’industria dei combustibili fossili e delle aziende dell’automotive, aeree e crocieristiche: la media è di oltre sei pubblicità a settimana, quasi una al giorno, circa il doppio rispetto al quadrimestre precedente. L’influenza dei settori industriali inquinanti sul mondo dell’informazione emerge anche dall’analisi dei soggetti che hanno più voce nel racconto della crisi climatica: al primo posto ci sono i politici e le istituzioni internazionali (21%), soprattutto in virtù della Cop27, seguiti dalle aziende (15%), che superano le associazioni ambientaliste (14%), gli esperti (10%) e i politici e le istituzioni nazionali (10%). 

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In base a quanto rinvenuto dall’indagine, Greenpeace ha aggiornato la classifica dei principali quotidiani italiani, valutati sulla base di cinque parametri: quanto parlano della crisi climatica, se tra le cause sono citati i combustibili fossili, quanta voce hanno le aziende inquinanti, quanto spazio è concesso alle loro pubblicità e se le redazioni sono trasparenti rispetto ai finanziamenti ricevuti da queste. Quest’ultimo parametro è stato valutato con un questionario inviato ai direttori delle cinque testate, a cui ha risposto parzialmente solo Avvenire. Considerando la media dei cinque parametri, solo Avvenire supera la sufficienza (3,4 punti su 5), mentre Il Sole 24 Ore ha un punteggio di 2,6, La Stampa di 2,4, Il Corriere della Sera di 2,2 e La Repubblica di 2.

In tv il negazionismo trova sempre meno spazio

Per quanto riguarda invece la televisione, viene registrato un leggero incremento della copertura di temi ambientali da parte dei telegiornali di prima serata: complessivamente, si è parlato di crisi climatica in meno del 3% delle notizie trasmesse (rappresentavano il 2,5% nel quadrimestre precedente). Il TG1 e il TG3 sono i telegiornali che hanno dedicato più spazio alla questione, mentre il fanalino di coda è il TG La7, con appena l’1,4% dei servizi trasmessi. Le cause della crisi climatica nei telegiornali sono esplicitate solo nel 7,5% dei casi, e in un'occasione è stato dato spazio a posizioni negazioniste (erano otto casi nel quadrimestre precedente).

Per quanto riguarda i programmi televisivi di approfondimento, sono stati analizzati Unomattina, Unomattina in famiglia, Unomattina estate e Cartabianca (Rai), Mattino 5, Morning news e Quarta Repubblica (Mediaset), L’Aria che tira, Otto e mezzo e In onda (La7). In 116 delle 450 puntate monitorate si è parlato della crisi climatica, pari al 26% del totale, un punto in meno rispetto al quadrimestre precedente. La trasmissione che ne ha parlato di più è Unomattina (Rai1), meno di tutte L’Aria che tira e Otto e mezzo (La7). L’attenzione per la crisi climatica nel 36% dei casi è generata da eventi climatici o naturali, e nel 59% delle trasmissioni si focalizza sul contesto nazionale.

“La scarsa attenzione al problema mostrata dai programmi di La7 rispecchia una linea editoriale che privilegia il racconto della politica”, scrive Greenpeace, “in cui la crisi climatica, come abbiamo documentato anche durante l’ultima campagna elettorale, è un argomento assai trascurato”. Nei primi 15 giorni di campagna elettorale per le elezioni politiche del 25 settembre 2022, infatti, la crisi climatica era stata citata in meno dello 0,5% delle dichiarazioni dei politici riprese dai principali telegiornali.

Il racconto della crisi climatica all’estero, tra catastrofismo e “falso equilibrio”

Secondo un’analisi condotta in 127 testate di 59 paesi dal Media and Climate Change Observatory (MeCCO), dal 2006 al 2021 la frequenza con cui i media parlano del cambiamento climatico è cresciuta sensibilmente e anche il linguaggio sta cambiando. Oggi si utilizzano parole e frasi più intense per descrivere il fenomeno, e l’incidenza di termini come “catastrofe” ed “emergenza” è aumentata: un lessico che fa pensare a un problema acuto ed episodico, al di là della responsabilità umana, non a una questione da affrontare strutturalmente con politiche mirate. Nel frattempo, i termini come “riscaldamento globale” ed “effetto serra” sono sempre meno frequenti. “Il nostro linguaggio riflette le realtà del nostro mondo”, ha spiegato Max Boykoff, che ha coordinato la ricerca. “Il cambiamento climatico non è più solo una questione di informazione scientifica: ora rientra nelle pagine di politica, economia, società e cultura. Una maggiore attenzione da parte dei media, comunque, è da inquadrare in un aumento dell’impegno a livello di società civile”.

Perché è difficile comunicare la crisi climatica

Scienziati e politici usano sempre più il linguaggio del rischio per parlare della crisi ambientale. “Alcuni ricercatori affermano che sottolineare i rischi connessi al cambiamento climatico, piuttosto che le incertezze, può creare un contesto più favorevole per i decisori politici e una risposta più forte da parte dell’opinione pubblica”, scrive James Painter del Reuters Institute for the Study of Journalism all’università di Oxford nel suo libro Climate change in the media. “Poiché gran parte del dibattito sui cambiamenti climatici riguarda il futuro, comporta inevitabilmente un grado di incertezza sui tempi, il ritmo e la gravità dei possibili impatti, nonché sulle opzioni per gestirli ed evitarli. Ma l'incertezza può essere un ostacolo al processo decisionale. Uno degli argomenti a favore dell'utilizzo del linguaggio del rischio è che esso allontana il dibattito pubblico dall'idea che le decisioni debbano essere rimandate fino a quando si otterrà una prova conclusiva o una certezza assoluta (criterio che potrebbe non essere mai soddisfatto), verso un'azione tempestiva e presa sulla base di un'analisi dei costi e dei rischi di diverse scelte (compreso il non fare nulla)”.

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Contemporaneamente, soprattutto nei media anglosassoni, è in corso una discussione sul cosiddetto “bothsidesism”, in italiano “falso equilibrio”: un atteggiamento in base al quale i giornalisti si sforzano di presentare entrambi i lati di una questione, anche nei casi in cui le fonti più credibili stanno tutte da una stessa parte. Secondo un recente studio della Northwestern University, questo approccio può danneggiare la capacità del pubblico di distinguere le notizie vere da quelle false, e portare a dubitare del consenso scientifico sul cambiamento climatico. “I media danno ancora voce alle opinioni di persone che non credono che ci sia motivo di allarmarsi per l’ambiente”, ha affermato David Rapp, psicologo e professore presso la School of Education and Social Policy della Northwestern, tra gli autori della ricerca. “Questo agli occhi dei lettori rende il problema meno grave di quanto non sia in realtà”.

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Mentre i media continuano a deformare, in un senso o nell’altro, il dibattito sulla questione climatica, l’emergenza non si ferma. Secondo il Global risk report 2023, l’indagine realizzata dal World Economic Forum attraverso la consultazione di 1.200 esperti, il clima è la principale minaccia al mondo per il prossimo decennio. L’aumento degli eventi climatici estremi che avvengono contemporaneamente in diverse parti del mondo minaccia l’ecosistema e la nostra società: secondo uno studio pubblicato il 10 marzo dalla rivista Science Advances, la frequenza di tali eventi è destinata a crescere nei prossimi anni a causa dei cambiamenti prodotti dall’uomo. I climi in diverse regioni sono interconnessi, e fenomeni climatici come El Niño possono provocare simultaneamente fenomeni estremi in regioni molto distanti.

L’Italia è uno dei paesi particolarmente colpiti dal cambiamento climatico: nel 2022 il nostro paese ha registrato 310 eventi estremi, con un incremento del 55% rispetto al 2021, che hanno causato ben 29 morti e danni da nord a sud. Sono i dati della mappa del rischio climatico realizzata dall'Osservatorio CittàClima di Legambiente: siccità, grandinate, trombe d’aria e alluvioni sono aumentate sensibilmente, ma anche frane, incendi e ondate di calore continuano ad alzare il livello di rischio.

Immagine in anteprima via Greenpeace

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