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Coronavirus, cosa sappiamo della ‘variante inglese’

23 Dicembre 2020 11 min lettura

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Coronavirus, cosa sappiamo della ‘variante inglese’

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Il 14 dicembre il ministro della Salute britannico, Matt Hancock, ha annunciato che una nuova variante del virus SARS-CoV-2 potrebbe essere responsabile del repentino aumento di casi di COVID-19 che si registra nelle ultime settimane nel Regno Unito, in particolare nel sud-est dell'Inghilterra. Nella seconda settimana di dicembre il 62% dei casi registrati a Londra risultava causato da questa variante, che è stata riscontrata per la prima volta nel paese il 20 settembre. Nell'area in cui è stata scoperta sembra ormai dominante, rispetto alle altre in circolazione. Per cercare di contenere la sua diffusione, il governo ha deciso di applicare misure più restrittive durante il periodo di Natale e alcuni paesi europei, tra cui l'Italia, hanno sospeso i voli dal Regno Unito. Nei giorni successivi casi di COVID-19 da questa variante sono stati segnalati in Danimarca, Belgio, Paesi Bassi, Australia e Italia e, in seguito, si è diffusa in più di 80 paesi nel mondo. Secondo l'Istituto Superiore di Sanità, in Italia la stima di prevalenza della "variante inglese" ad oggi è del 17,8%.


In cosa si differenzia questa variante dalle precedenti?

Partiamo da una premessa: le mutazioni sono un evento ordinario per i virus, come per noi esseri umani. Il SARS-CoV-2 muta più lentamente di altri virus, come quelli influenzali, anche grazie a un meccanismo che permette di correggere errori nella replicazione del genoma (e per noi questa è una buona notizia). Il biologo e premio Nobel per la Medicina Peter Medawar, in un libro scritto insieme alla moglie Jean nel 1983, definì i virus «frammenti di cattive notizie avvolti in proteine». Queste cattive notizie non fanno che diffondersi, replicandosi un numero indefinito di volte, e in questo processo il genoma virale può accumulare "errori" che alterano la sua sequenza.

I virus, nel corso della loro evoluzione, subiscono mutazioni che nella gran parte dei casi non producono effetti funzionali, cioè non cambiano la loro biologia. Nel caso dei virus patogeni, ad esempio, non modificano la trasmissibilità o non peggiorano la gravità e la letalità della malattia che causano. Alcune mutazioni saranno cattive e dannose e si perderanno perché i virus che le trasportano nel loro genoma saranno meno efficienti nel fabbricare copie di se stessi. Ma, altre volte, alcune mutazioni o loro combinazioni conferisconono al virus uno o più adattamenti che possono risultare vantaggiosi, come la capacità di legarsi meglio ai recettori delle cellule umane che infettano o una maggiore abilità nello sfuggire alla risposta immunitaria dell'ospite. Sono note già migliaia di mutazioni avvenute nel genoma di SARS-CoV-2, dopo il salto nella specie umana, e vengono sfruttate anche per seguire la sua diffusione geografica.

Una delle mutazioni del SARS-CoV-2 più studiate finora è la D614G. Si è verificata nella posizione 614 all'interno del genoma di 30mila "lettere" del coronavirus (quelle che compongono il genoma umano, per fare un confronto, sono più di 3 miliardi), in corrispondenza del gene che contiene le informazioni per la costruzione della proteina Spike, determinando la sostituzione di un amminoacido (le molecole che costituiscono le unità di base delle proteine). In questo caso, una molecola di glicina (G) al posto di una molecola di acido aspartico (D). La Spike è la proteina di superficie che permette al virus di infettare le cellule umane. Questa mutazione, apparsa piuttosto presto, da febbraio è diventata rapidamente dominante nelle linee di discendenza del virus che si sono diffuse a livello globale. Anche se il suo significato biologico non è stato ancora del tutto compreso, sembra che la mutazione D614G abbia reso il virus più trasmissibile.

La variante di SARS-CoV-2 isolata nel Regno Unito è stata battezzata VUI-202012/01 (B.1.1.7 la sua linea di discendenza). Ciò che ha attirato l'attenzione delle autorità sanitarie e degli scienziati è il fatto che questa variante si distingue per un numero di mutazioni piuttosto elevato rispetto alle altre che stanno circolando in tutto il mondo. Alcune di queste mutazioni sono già note, ma quella che oggi viene chiamata "variante inglese" è caratterizzata da una nuova combinazione. Presenta infatti 17 mutazioni caratterizzanti, rispetto al virus antenato più recente da cui discende, apparse tutte insieme. Di queste, 14 sono mutazioni non sinonime, cioè determinano una sostituzione dell'amminoacido nella proteina corrispondente. Otto mutazioni si trovano all'interno del gene della proteina Spike. Il numero di mutazioni non-sinonime nel gene della proteina Spike è più alto di quello che ci si attende da mutazioni casuali.

Come notano alcuni esperti del COVID-19 Genomics UK Consortium britannico, l'accumulo di 14 mutazioni di amminoacidi specifiche di una linea di discendenza del virus ad oggi non trova precedenti in ciò che finora si è visto sull'evoluzione del SARS-CoV-2. La maggior parte delle ramificazioni dell'albero evolutivo del virus che si osserva a livello globale mostra poche mutazioni che si accumulano a un tasso relativamente costante nel tempo (circa 1 o 2 mutazioni al mese). A quanto sembra, perciò, siamo di fronte a una variante di SARS-CoV-2 effettivamente particolare.

Prevedere le possibili conseguenze di una mutazione è complesso. Tuttavia, tre mutazioni della proteina Spike presenti nella "variante inglese" stanno suscitando particolare interesse per l'impatto che potrebbero avere sulla biologia del virus, in combinazione tra loro.

La mutazione N501Y: è localizzata nel dominio di legame al recettore, la regione della proteina Spike che si aggancia ai recettori delle cellule umane. Sostituisce uno dei sei amminoacidi che partecipano al legame tra il virus e i recettori. Non è la prima volta che si ritrova. È stata rilevata infatti anche in Sud Africa, ma in una linea di discendenza distinta da quella della "variante inglese". Deve essere perciò comparsa in modo indipendente. Ci sono dati che suggeriscono che questa mutazione possa accrescere l'affinità della proteina Spike per i recettori umani.

La delezione 69-70: è una mutazione che causa l'eliminazione di due amminoacidi della proteina Spike ed è già stata associata a una maggiore capacità del virus di sfuggire alla risposta immunitaria in pazienti immunocompromessi. Anche questa mutazione, probabilmente, potrebbe incidere sulla trasmissibilità del virus. È stata riscontrata in associazione ad altre mutazioni nel dominio di legame al recettore della proteina Spike, che accrescono l'affinità per i recettori (tra cui proprio la N501Y).

La mutazione P681H: si trova nelle vicinanze di un altro punto critico della proteina Spike, dove si attiva il meccanismo che permette al virus di fondersi con la membrana delle cellule umane e di penetrare al loro interno.

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Come si è originata questa variante?

Non lo sappiamo con certezza. Lo European Centre for Disease Control and Prevention nota che il numero insolitamente elevato di mutazioni della proteina Spike, e altri cambiamenti nel genoma del virus, inducono a pensare che questa variante non sia emersa attraverso un accumulo graduale di mutazioni. Questo suggerisce che potrebbe essersi originata in circostanze particolari. Una possibilità è che sia comparsa per la prima volta nell'organismo di un paziente immunocompromesso affetto da una forma cronicizzata di COVID-19. Il virus SARS-CoV-2, in un organismo con un sistema immunitario funzionante, causa di norma infezioni acute. In questi casi, il virus viene eliminato in un tempo di norma non superiore a qualche settimana. Nei pazienti immunocompromessi il virus può invece persistere anche per mesi e in questo periodo va incontro a un maggior numero replicazioni. Questo potrebbe "accelerare" la sua evoluzione, aumentando la sua diversità genetica e facendo emergere nuove mutazioni. Un fenomeno simile è stato riportato in qualche caso clinico. In pazienti immunocompromessi, il trattamento con plasma iperimmune potrebbe esercitare una pressione selettiva favorendo l'emergere di varianti meno suscettibili al trattamento.

Un'altra possibilità, ma meno probabile, è che questa variante si sia originata in qualche ospite animale in cui il virus si sia diffuso per poi essere ritrasmesso agli esseri umani. Il caso finora più rilevante di trasmissione del virus dagli esseri umani agli animali è stato quello dei furetti in alcuni allevamenti in Danimarca, dove peraltro è stata trovata la delezione 69-70 presente anche nella variante inglese.

La "variante inglese" è più contagiosa?

Da quanto sappiamo finora, sì. Come abbiamo visto, alcune mutazioni che caratterizzano questa variante potrebbero aumentare effettivamente la sua capacità di trasmettersi da persona a persona. Si stima che la trasmissibilità potrebbe aumentare fino al 70% rispetto alle varianti di SARS-CoV-2 già circolanti, con un possibile innalzamento dell'indice di trasmissione Rt di 0.4. Su questo c'è ancora incertezza, anche se per il New and Emerging Respiratory Virus Threats Advisory Group britannico (NERVTAG) si può affermare con un grado di confidenza "moderato" che nella nuova variante ci sia un incremento «sostanziale» della contagiosità.

Il 31 dicembre un gruppo di ricercatori di alcune istituzioni e università britanniche, tra cui l'Imperial College di Londra, ha pubblicato uno studio che conferma che la variante della linea B.1.1.7 si sta diffondendo rapidamente nel Regno Unito ed ha acquisito un «sostanziale vantaggio», in termini di trasmissione. L'aumento stimato dell'indice Rt è del 50-75%. Secondo questa ricerca tra i casi di "variante inglese" c'è una proporzione di soggetti con meno di 20 anni maggiore di quella che si riscontra tra i casi di altre varianti del virus, ma la ragione di questo fenomeno non è ancora stata compresa.

La "variante inglese" causa una forma più grave o più letale della malattia?

Al momento non ci sono ancora certezze, ma secondo un'analisi del NERVTAG c'è una «realistica possibilità» che la "variante inglese" sia associata a un aumento del rischio di morte rispetto alle altre varianti. I dati però non sono ancora abbastanza solidi e c'è ancora molta incertezza a riguardo. In ogni caso, bisogna considerare che se una variante è più contagiosa, anche senza che causi una forma della malattia più grave e letale, la sua diffusione nella popolazione potrebbe determinare comunque un aumento delle ospedalizzazioni e dei decessi.

C'è il sospetto che i bambini possano essere suscettibili all'infezione da parte della nuova variante di SARS-CoV-2 come gli adulti, a differenza di quanto accade con le varianti già circolanti, ma è un'ipotesi che non ha trovato ancora conferma.

La "variante inglese" potrebbe diminuire l'efficacia dei vaccini?

Non ci sono ancora sufficienti dati a riguardo e non è possibile escluderlo, anche se è improbabile. I vaccini che si basano sul riconoscimento della proteina Spike, come quello Pfizer-BioNTech appena approvato dalla European Medicine Agency e dalla Agenzia Italiana del Farmaco, "allenano" il sistema immunitario a riconoscere diversi punti della proteina del virus. Perciò anche se qualche mutazione cambiasse la proteina in qualche punto della sua struttura, gli anticorpi indotti dai vaccini dovrebbero essere comunque capaci di individuarla e quindi di essere protettivi. Potrebbe però accadere che, nel corso del tempo, il graduale accumulo di mutazioni renda necessario rivedere i vaccini per adattarli alle caratteristiche del virus, come avviene oggi con i vaccini contro i virus dell'influenza stagionale, che vengono cambiati ogni anno. La compagnia BioNTech ha dichiarato che, se il vaccino già approvato si dimostrasse meno efficace contro la nuova variante di SARS-CoV-2, tecnicamente sarebbe in grado di produrre un nuovo vaccino in sei settimane. Ma lo sviluppo richiederebbe probabilmente più tempo, anche perché dovrebbe essere approvato dalle autorità regolatorie.

Cosa sappiamo della "variante sudafricana"?

Nel Regno Unito sono stati trovati due casi di COVID-19 collegati a una variante del virus SARS-CoV-2 che è stata rilevata per la prima volta in Sudafrica. Questa variante, chiamata 501Y.V2, sembra che si sia diffusa rapidamente in alcune aree del paese africano, fino a diventare in poche settimane la variante dominante del virus. Zweli Mkhize, ministro della Salute sudafricano, ha annunciato la sua scoperta il 18 dicembre, aggiungendo che dai medici sono arrivate segnalazioni di un aumento di casi di COVID-19 più gravi tra i giovani. Ma lo stesso Ministero ha specificato che, al momento, non ci sono evidenze che questa variante sia più letale o possa causare una forma di malattia più grave rispetto a quella "inglese”.

La 501Y.V2 è emersa in Sudafrica dopo la prima ondata in un’area metropolitana tra le più colpite del paese. La linea di discendenza del SARS-CoV-2 che ha portato a questa variante si caratterizza per un particolare profilo di mutazioni: otto nella proteina di superficie Spike, di cui tre nella regione della proteina che si aggancia ai recettori delle cellule umane. Tra queste mutazioni c’è la N501Y, che si ritrova anche nella “variante inglese” e che, anche in questo caso, potrebbe essere correlata a un aumento della trasmissibilità del virus, come sembrerebbe indicare anche la sua rapida diffusione. Si stima infatti che la "variante sudafricana" sia del 50% più trasmissibile. Anche la K417N è una mutazione di questa variante che potrebbe rende la proteina S capace di legarsi con più efficacia ai recettori umani. La mutazione E484K potrebbe invece conferire a questa variante l'abilità di sfuggire agli anticorpi neutralizzanti, eludendo così la risposta immunitaria. Dati ottenuti da una sperimentazione clinica in corso su 2000 persone suggeriscono che il vaccino Oxford-AstraZeneca dia una protezione significativamente ridotta conto le infezioni blande e moderate causate dalla "variante sudafricana", ma potrebbe rimanere efficace nei casi gravi. Uno studio di laboratorio indica che anche il vaccino Pfizer-BioNTech potrebbe avere un'efficacia ridotta contro questa variante, almeno per quanto riguarda gli anticorpi neutralizzanti (che, va ricordato, sono solo una parte della risposta immunitaria che anche il virus SARS-CoV-2 e i vaccini inducono nell'organismo). Anche per il vaccino Moderna ci sono dati che fanno sospettare una riduzione dell'efficacia. Ad oggi la "variante sudafricana" è stata trovata in circa 40 paesi.

Cosa sappiamo della "variante brasiliana"?

La Lineage P.1, nota come "variante brasiliana", è stata individuata per la prima volta in Giappone in alcune persone di ritorno da un viaggio in Brasile. Anche questa variante si distingue per una decina di mutazioni nel gene della proteina Spike. Tra queste, si ritrova la mutazione N501Y, condivisa con le varianti "inglese" e "sudafricana", e la E484K. Un'altra mutazione di questa variante è la K417T, che si trova nello stesso sito della mutazione K417N apparsa nella "variante sudafricana" ma che causa l'inserimento di un amminoacido diverso. Come per le altre varianti, questo insieme di mutazioni indica un possibile aumento della tramissibilità. Attualmente è diffusa in una ventina di paesi.

Quali indicazioni ci fornisce la comparsa di queste e altri varianti per la gestione della pandemia?

Maggiore è la circolazione del virus nella popolazione, più probabile diventa la comparsa di varianti che potrebbero comportare qualche problema. Per questo motivo rimane indispensabile impedire il più possibile al virus di diffondersi, anche durante la campagna vaccinale. Questa continua a rimanere l'unica politica di gestione della pandemia sensata e basata sulla migliore scienza disponibile.

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Foto anteprima Tumisu via Pixabay

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