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Il caso Singapore, il sistema investigativo (non solo) tecnologico per contrastare le epidemie, e la privacy

28 Marzo 2020 18 min lettura

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Il caso Singapore, il sistema investigativo (non solo) tecnologico per contrastare le epidemie, e la privacy

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Aggiornamento del 4 aprile 2020

A seguito dello scoppio di nuovi focolai del coronavirus, il 3 aprile il Primo Ministro di Singapore annuncia misure di contenimento più stringenti, in particolare la chiusura di scuole e di tutti i servizi non essenziali (compreso strutture ricreative).
“All’inizio molti dei nuovi casi venivano dall’estero. Poi dalla scorsa settimana abbiamo iniziato a contare più casi locali. Inoltre, nonostante un buon lavoro sul contact tracing, per quasi la metà di questi casi non sappiamo dove o da chi hanno preso il virus”.

Già dal 26 marzo sono in atto a Singapore le misure di mitigazione, in particolare l’obbligo di tenersi a distanza dagli altri almeno 1 metro, a pena di sanzioni monetarie (fino a 10mila dollari) e eventualmente anche arresto fino a 6 mesi (in base all’Infectious Diseases Act). A queste si aggiungono le ulteriori misure: rimanere a casa, evitare di uscire se non per cose essenziali, evitare assembramenti. Inoltre, in considerazione del fatto che il virus sta diffondendosi nella comunità, il governo ha deciso di distribuire mascherine a tutte le famiglie, incoraggiandole a utilizzarle.

Una seconda ondata di contagi sembra che sia in atto anche in Cina, che pone in lockdown altre città. Nell’area di Jia sono circa 600mila i residenti costretti a non uscire da casa. Ogni uscita richiede una approvazione speciale delle autorità. La Cina utilizza due App (WeChat e Alipay) per tracciare praticamente tutta la popolazione.

Anche nella Corea del Sud le misure di mitigazione sono state rafforzate per evitare un riaccendersi dei focolai.

Tutti e tre i paesi menzionati hanno fatto ampio uso delle tecnologie digitali a fini del contenimento del Covid19. Eppure soffrono di nuovi focolai dell’epidemia. Questo a riprova che allo stato non c’è alcuna evidenza che l’uso di tecnologie digitali di tracciamento della popolazione (o di fasce) sia davvero utile.

La Corea, in particolare, attribuisce la sua capacità di affrontare il contagio ad una strategia basata sulla diagnosi precoce, quarantena stretta e trattamenti rigorosi. In particolare si è dotata negli anni di strutture adeguate e specializzate per le epidemie e di un’organizzazione in grado di attivarsi in tempi brevissimi. Il governo ha a disposizione 118 laboratori per i test diagnostici, 633 siti di test (compreso i drive-through), che consentono di svolgere 12mila test al giorno.

 

È un afoso sabato pomeriggio a Singapore quando Melissa riceve una telefonata da un numero sconosciuto. All’altro capo un funzionario del Ministero della Salute le chiede se alle 18 e 47 di mercoledì si trovava su un determinato taxi. Le indicazioni sono stranamente molto precise e Melissa comincia ad andare nel panico. Ma l’uomo la calma, così pian piano Melissa riesce a ricordare di aver effettivamente preso quel taxi e che la corsa è durata circa 6 minuti. A quel punto l’uomo al telefono le dice che non potrà uscire di casa, da quel momento è in quarantena. Melissa è stata esposta al nuovo coronavirus.

Telecamere e lavoro investigativo

L’uomo al telefono, Edwin Philip Conceicao, è un membro del team dei funzionari del Ministero che si sono presentati a casa di Melissa il giorno dopo la telefonata. È del Singapore General Hospital (SGH), uno dei maggiori ospedali pubblici di Singapore. Philip non è un medico, ma un investigatore piuttosto particolare. Il suo compito è rintracciare i soggetti esposti al rischio di contagio.

Il team entra in azione non appena viene diagnosticato un paziente contagiato dal virus, per mettere insieme tutte le informazioni sui movimenti e possibili contatti nelle due settimane precedenti. Il tutto parte da un’intervista al paziente. Questa fase è fondamentale, perché da essa dipende gran parte della capacità dello Stato di contenere il contagio. Philip si avvale dei calendari, i diari, le ricevute delle carte di credito, insomma ogni possibile informazione che il paziente può fornire. La parte più difficile è aiutarlo a ricordare, la memoria delle persone non è molto affidabile.

Alla fine il team invia il rapporto al Ministero della Salute, dove si occupano di contattare le persone identificate dal paziente. Gli operatori sanitari svolgono un’ulteriore fase di investigazione. Possono contattare le compagnie aeree e di trasporto su terra, ristoranti, hotel, centri commerciali e altri spazi aperti al pubblico nei quali potrebbe essere passato il paziente. Anche la polizia entra in gioco, in media ci lavorano dai 30 ai 50 uomini, fino a punte di 100 al giorno. È una vera e propria fase investigativa, operata tramite vari strumenti, tra cui la visione delle registrazioni delle telecamere di sicurezza. Singapore è all’undicesima posizione della classifica della città più sorvegliate al mondo, con 15 telecamere ogni 1000 abitanti per un totale di 86mila. Prima di lei in classifica ci sono per lo più città della Cina (Wuhan è al settimo posto). È una sorveglianza estremamente pervasiva, ma che indubbiamente facilita enormemente il lavoro di Philip.

In totale almeno 6.000 persone sono state rintracciate utilizzando una combinazione di filmati delle telecamere, indagini della polizia, e lavoro investigativo vecchio stile. E il tutto comincia sempre con una telefonata.

Singapore Gold Standard

Il Contact tracing è l’operazione di identificazione a ritroso dei possibili soggetti a rischio, formalizzata dall’OMS e utilizzata da tempo. Ma Singapore è stata elogiata dagli epidemiologi di Harvard per aver realizzato il “gold standard del rilevamento”. Quasi perfetto. L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha elogiato il governo di Singapore per essersi attivato anche prima che il primo caso fosse individuato. Inoltre, a differenza dell’Europa e degli USA, Singapore ha iniziato molto presto a tracciare i contatti per evitare che il contagio si diffondesse.

Si è parlato tanto delle soluzioni tecnologiche, ma il segreto del modello di Singapore parte da lontano. Tutti i paesi dell’est asiatico hanno subito le conseguenze di varie epidemie (SARS, MERS, ecc…), e hanno capito che occorreva investire nel futuro. A partire dal 2003 Singapore ha creato una task force di agenzie governative per coordinare gli interventi. L’esempio più ovvio è dato proprio dall’interconnessione tra le autorità sanitarie e le forze di polizia (complice anche un basso tasso di reati). La task force è stata testata nel 2009 con l'influenza suina (H1N1) e di nuovo nel 2016 con l’epidemia di Zika. Singapore ha incentivato lo sviluppo di sistemi diagnostici clinici innovativi, creando un centro di sviluppo diagnostico nazionale. Grazie a questa ampia rete di cooperazione si è arrivati allo sviluppo di un kit di test entro il 9 febbraio.

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Singapore, insomma, ha investito molto nella preparazione costruendo un sistema sanitario pubblico efficiente che include cliniche per le epidemie. Così, quando è arrivato il nuovo coronavirus Sars-CoV-2, Singapore, ma anche Hong Kong, Taiwan, Giappone e Corea del Sud, si sono trovati più pronti degli altri. Hanno istituito controlli severi e protocolli di viaggio per identificare i malati, misure di mitigazione e contenimento (distanza sociale, cancellazione di eventi, chiusura delle scuole, inviti a rimanere a casa). Il programma di risposta alle epidemie era già pronto e testato ben prima dell’emergenza.

A tutto ciò si aggiunge una capillare campagna informativa su cosa fa il governo di Singapore e come procede il contenimento del contagio, tramite messaggi sui siti istituzionali, sms e comunicazioni via WhatsApp da account governativi. L’idea è che molte delle notizie false sono diffuse tramite WhatsApp, per cui la presenza del governo sulla piattaforma contribuisce a ridurre la quantità di notizie false. Le informazioni seguono i cittadini ovunque, anche negli ascensori.

«Singapore sta facendo ciò che è necessario per cercare di contenere l'epidemia di coronavirus», ha affermato il professor David Heymann della London School of Hygiene and Tropical Medicine, un esperto di malattie infettive che ha guidato nel 2003 la risposta globale dell'OMS alla SARS. «Hanno comunicato trasparentemente ogni giorno cosa sta succedendo. E la popolazione ha capito che non si tratta solo di proteggere se stessi ma di proteggere anche gli altri».

Ma ciò che è stato fatto a Singapore, e alcuni paesi vicini, probabilmente non è facilmente replicabile nella maggior parte degli altri paesi. Sono paesi strutturati per il controllo di massa della popolazione, anche senza arrivare agli eccessi della Cina, realtà molto differenti dai paesi europei. Ma non si tratta solo dell’apparato di sorveglianza tecnologico, è anche una questione culturale. In questi paesi è normale subire il controllo della temperatura prima di entrare in alcuni luoghi pubblici, lavarsi le mani, stare a distanza (pensate all’inchino come saluto al posto della stretta di mano), indossare le mascherine fa parte della vita quotidiana, non c’è bisogno del nuovo coronavirus per insegnarlo. Sono paesi governati da élite tecnocratiche in grado di condurre una pianificazione a lungo termine, grazie anche a livelli relativamente alti di fiducia dei cittadini.

La App TraceTogether

Il contact tracing deve essere fatto velocemente, nelle prime fasi del contagio, perché se ci sono molti contatti geograficamente diffusi diventa impossibile tenerne traccia per contenere l’epidemia. Esistono modelli matematici che aiutano a capire quando i costi della tracciabilità dei contatti superano i benefici. Da quel momento è necessario passare alle misure di mitigazione e contenimento (pur proseguendo col contact tracing anche per questioni statistiche).

TraceTogether è un'applicazione mobile realizzata dall’agenzia governativa della tecnologia di Singapore in collaborazione con il ministero della salute (un team di 40 persone per un totale di 10mila ore/uomo di sviluppo), lanciata il 20 marzo di quest’anno. In soli 3 giorni è stata scaricata oltre 620mila volte, e i commenti sono in buona parte entusiasti: “Brilliant. Very innovative. Helps in contact tracing and privacy preserving at the same time”. I pochi commenti negativi per lo più si limitano a ritenerla inutile rispetto all’obiettivo.

TraceTogether consente di effettuare il contact tracing tramite gli smartphone. Nel sito degli sviluppatori (team dei servizi digitali del governo presso la Government Technology Agency di Singapore) si legge: “TraceTogether consente l'identificazione di persone che si trovavano nelle immediate vicinanze di una persona infetta in modo più efficiente utilizzando i dati di prossimità raccolti. Ciò è particolarmente utile nei casi in cui le persone infette non conoscono coloro con cui erano stati in stretta vicinanza per un certo periodo. TraceTogether non intende sostituire i normali metodi di tracciamento dei contatti”.

L’uso della App è totalmente volontario. Una volta scaricata occorre registrarsi col numero di telefono, che viene salvato, cifrato, sui server dedicati del Ministero della Salute (il consenso è revocabile). A tale numero viene abbinato una ID temporanea. Da quel momento, se l’utente ha attivato la App (si consiglia ovviamente di tenerla in funzione costantemente) comincia a scambiare dati tramite BLE (Bluetooth Low Energy) con gli smartphone vicini che usano la stessa App. Gli unici dati scambiati sono la ID temporanea (che cambia costantemente in base alla chiave privata conservata dal Ministero), la durata del contatto e la potenza del segnale BLE per valutare la distanza (in realtà sembra che la App registri anche il modello di telefono dei contatti).

La App non raccoglie né utilizza dati di localizzazione, non accede all’elenco dei contatti o alla rubrica del telefono, non memorizza informazioni sul luogo dove si è realizzato il contatto, e i dati sono cancellati dopo 21 giorni, tempo massimo di incubazione del virus. I dati sono registrati localmente (sullo smartphone). Se il soggetto viene ritenuto contagiato o esposto al contagio, il Ministero può inviare una richiesta all’utente, alla quale, in quel momento, l’utente non può rifiutarsi e deve inviare la traccia di registrazione dei contatti. Dagli ID il Ministero può risalire velocemente ai numeri di telefono dei contatti esposti al rischio, e contattarli.

Si tratta di un monitoraggio estremamente limitato e provvisto di garanzie per la privacy degli utenti, senza coinvolgere in alcun modo i privati. Inoltre è interamente open source, quindi utilizzabile anche da altri paesi.

Contact tracing e tracking digitale

Il contact tracing esiste da anni, e viene attuato dappertutto, sulla base delle disposizioni dell’OMS in casi di epidemia.

Information on primary cases and their close contacts should be sought through a combination of face-to-face or telephone interviews of the case (or family members if the case is too ill to be interviewed) and household members, self-reporting, interview of health workers and/or review of medical records where required (protocollo dell’OMS sul Covid-19 del 10 febbraio 2020)

Ovviamente la capacità di operare questa attività dipende molto dalle risorse. Uno Stato che ha un’ampia diffusione di telecamere (come la Cina) ha più strumenti da mettere in campo. Il contact tracing si è fatto anche in Italia, probabilmente fin dai primi momenti di diffusione del contagio, tramite gli operatori sanitari e le autorità di polizia.

“È attiva da ieri sera una task force regionale che sta operando in stretto contatto con il Ministero della Salute e con la Protezione Civile. La maggior parte dei contatti delle persone risultate positive al Coronavirus è stata individuata e sottoposta agli accertamenti e alle misure necessarie” (Dichiarazione dell'assessore al Welfare della Lombardia del 21 febbraio).

Adesso, però, si sta chiedendo qualcosa di ulteriore rispetto al contact tracing, e cioè una sorta di tracciamento globale degli smartphone (definita tracking digitale). Un’operazione del genere è stata realizzata in Cina, dove si sono tracciati tutti i cittadini indipendentemente dal fatto di essere contagiati, a rischio o altro. In base ad un codice a barre (QR-code) che si visualizza sullo smartphone a un cittadino può essere impedito l’utilizzo di servizi (come i trasporti) senza che sappia realmente il motivo. La relativa App (o meglio il servizio aggiunto ad una App) non è obbligatoria, ma uscire di casa senza è sostanzialmente impossibile. In realtà in Cina la sorveglianza della popolazione era già molto estesa da prima dell’emergenza, ed ha un forte impatto sulle libertà dei cittadini.

In altri paesi (Corea del Sud e Singapore) quello che si è fatto è qualcosa di diverso, le tecnologie sono state utilizzate per supportare l’operazione di contact tracing, ma soprattutto per supportare le operazioni sanitarie (es. i test diagnostici al volo direttamente dall’auto in Corea del Sud).

Il primo passo, se si intende procedere sulla strada dell’ampio utilizzo della tecnologia, è di stabilire l’obiettivo. Il contact tracing serve a ricostruire il percorso del paziente infetto nei giorni precedenti (almeno 14), ma non ha nulla a che fare con il controllo del contagiato in quarantena. Quest’ultimo tipo di controllo si fa tramite telefono, autorità di polizia o altro. In Corea del Sud una App governativa può essere utilizzata (in base a consenso del soggetto in quarantena) per sostituire il controllo via telefono. Ma questo scenario, più che altro di polizia, è diverso dal contact tracing.

Scenari

In relazione alle categorie assoggettabili al “controllo” possiamo distinguere tre scenari.

1) Tracciamento dei soggetti obbligati in quarantena. Questo avviene in Corea del Sud tramite una App realizzata dal governo direttamente. Il soggetto viene controllato, per assicurarsi che non violi la quarantena, due volte al giorno tramite telefono. Per sgravare le autorità da questo compito il soggetto può scegliere (volontariamente, non c’è obbligo) di utilizzare una App che si limita a segnalare la sua posizione alle autorità, in modo che possano intervenire se viola la quarantena. Oltre al dato identificativo e alla posizione la App generalmente non invia altro. In sostanza sostituisce il telefono nelle comunicazioni con le autorità, compreso quelle sanitarie perché consente di inviare anche dati sulla salute, sulla base di un questionario (che il soggetto può anche non utilizzare).

La persona in quarantena, ovviamente, è assoggettata alle norme della legislazione emergenziale, quindi ha obblighi legali di non violare la quarantena in quanto soggetto in grado di diffondere il contagio. Si tratta quindi di soggetti “pericolosi” (epidemiologicamente parlando). Di conseguenza c’è necessità e proporzionalità nell’utilizzo di sistemi di controllo. Probabilmente non c’è proporzionalità, però, nell'utilizzo di sistemi di tracciamento via smartphone, perché esistono altri strumenti che portano allo stesso risultato. Infatti nella Corea del Sud l’uso della App è basato sul consenso.

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2) Contact tracing digitale. Il tracciamento dei percorsi dei 14 giorni precedenti al contagio, nel caso di un soggetto che è stato trovato positivo al virus, e con la finalità di identificare velocemente soggetti esposti al rischio di contagio, può avvenire con varie modalità a seconda delle capacità tecnologiche dello Stato. Uno strumento è dato dalle registrazioni delle telecamere di cui ha la disponibilità l’autorità di polizia. Le autorità, come in una normale investigazione, possono accedere anche ad altri database, anche di privati, quali le transazioni bancarie e gli acquisiti di biglietti di aerei e treni. Qui la tecnologia può fare la differenza in termini di velocità di identificazione. Per operare in questo modo, però, occorre che le leggi autorizzino le autorità ad accedere ai database governativi e dei privati. In Corea del Sud tale legge risale al 2015. Una normativa del genere è presente in quasi tutti i paesi dell’est asiatico, ma parliamo di paesi che hanno sensibilità differenti rispetto agli europei e agli americani.

Il contact tracing del quale molti discutono oggi in Italia, e cioè il tracking digitale tramite smartphone, in realtà è utilizzato solo in Cina, per quello che ci risulta, e una forma piuttosto blanda è presente a Singapore. A Singapore la App è del tutto volontaria, ma qui interviene, appunto, la differente sensibilità sociale, che ha fatto sì che sia stata utilizzata da moltissimi cittadini. Solo se la App è utilizzata da una quantità significativa di persone tale operazione ha qualche utilità. A Singapore, inoltre, è il governo direttamente che ha allestito il sistema per evitare che i dati sulla salute (supersensibili) finiscano nelle mani dei privati. È da evidenziare che lì esiste una fiducia molto elevata nelle istituzioni, fiducia che, aggiungiamo, viene alimentata da trasparenza e continue comunicazioni sulle attività poste in essere per contenere il contagio.

Infine, la App di Singapore minimizza i dati trattati, limitandosi al solo numero di telefono.

3) Tracciamento continuo. Lo scenario in questione non sembra sia stato avanzato ancora da nessuno. Sarebbe il monitoraggio continuo delle persone per verificare dove si spostano, quanto si spostano, ad esempio per stabilire se ci sono violazioni dell’obbligo generalizzato di non uscire di casa se non per casi di necessità o urgenza. Di fatto sostituirebbe i controlli di polizia nelle strade. Un monitoraggio del genere, se esteso a tutti ma anche solo a categorie ampie di persone è una limitazione della libertà personale estremamente invasiva e difficilmente giustificabile in un paese democratico. Probabilmente nemmeno tramite una legge potrebbe essere possibile introdurre una misura del genere perché pacificamente non proporzionata rispetto all’obiettivo. Solo in Cina ci risulta effettuato un monitoraggio di questo tipo.

Alcune considerazioni

L’analisi che precede è ovviamente semplificata allo scopo di rendere l’idea della complessità dei fattori in gioco. È importante discuterne, ma occorre che tali discussioni siano basate sulle corrette premesse, in particolare senza alimentare miti su ciò che avrebbero fatto altri paesi. Poi sicuramente spetta alle autorità decidere cosa è necessario fare per contrastare la diffusione del virus, ma la misura selezionata deve essere necessaria, non semplicemente utile. L’efficienza economica è un leit motiv costante nel dibattito sulle nuove tecnologie, ma porta inevitabilmente a pesanti ricadute sui diritti dei cittadini. Inoltre tale misura deve essere anche proporzionata rispetto all’obiettivo che si vuole raggiungere che non deve essere l’implementazione di misure di controllo della popolazione, casomai anche per il futuro, ma il contenimento del contagio in atto.

Un’idea circolata è che si potrebbero utilizzare i dati dei gestori di telefonia (Telecom) e delle grandi piattaforme del web (Google, Facebook). Nella Corea del Sud e a Singapore, invece, si è preferito coinvolgere il meno possibile i privati. Il privato agisce per profitto, per cui una volta coinvolto (oltre alla moltiplicazione dei rischi dovuti alla moltiplicazione degli attori coinvolti), diventa difficile dire al privato di chiudere tutto il suo lavoro alla fine dell’emergenza. Il pubblico, invece, può operare anche in perdita, e quindi può (e dovrebbe essere ben chiaro nella legge istitutiva della misura) decidere di cancellare tutti i dati raccolti alla fine dell’emergenza. Poi la questione non può diventare “si ma io dello Stato non mi fido”, la corruzione si combatte, e in questo è necessario il controllo del cittadino sull’operato dello Stato. Un privato, però, non ha alcun obbligo di trasparenza e non ci sono mezzi di ricorso contro le sue decisioni.

Con riferimento allo scenario 2, si dice anche che in fondo le aziende quei dati già li hanno, quindi perché non usarli? L'argomento è suggestivo. Ma qui stiamo parlando di dati identificativi legati a dati sulla salute. Le aziende private non necessariamente hanno dati sulla salute, ma hanno sicuramente i dati di localizzazione (anche a ritroso nel tempo). Quello che si vorrebbe chiedere alle aziende è di recuperare i dati di localizzazione per una finalità (sicurezza epidemiologica) che è del tutto differente rispetto alle finalità sulla base delle quali operano normalmente. Se le aziende trattano dati sulla salute in genere lo fanno in base al consenso, per cui non è giuridicamente possibile che tali aziende possano trattare il dato con la finalità che occorrerebbe in emergenza. Quello che, in teoria (se ritenuto necessario e proporzionato dal legislatore), si potrebbe fare è che le aziende private trattino dati per conto (quali processor) dello Stato (operatori sanitari, Protezione Civile, ecc…) sulla base di una legge che fissi i paletti per il trattamento in questione. Tra questi, il periodo massimo di conservazione dei dati che deve essere quanto meno coincidente con la fine dell’emergenza (a Singapore 21 giorni).

In alcune discussioni si tende ad invertire i soggetti, nel senso di studiare un sistema nel quale sia il privato a trattare il dato (perché già lo avrebbe, ma non è così), senza poi dare dati ulteriori al pubblico. Semmai un soggetto dovesse avere l’autorità per un trattamento del genere quello è il pubblico, non il privato. E, ovviamente, si deve evitare di ridurre il problema ad una questione meramente tecnica, che apparirebbe solo un modo per saltare il dibattito democratico necessario per introdurre una misura di questa invasività in un paese democratico.

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E non bisogna dimenticare che i dati delle telecom sono quelli della localizzazione, per lo più ricavati dalle celle coperte dalle antenne cellulari. Tali celle variano da metri a chilometri. Per cui tali dati finiscono per essere per lo più inutili (dicono gli americani, garbage in, garbage out) a fini di contact tracing, al massimo possono essere utilizzati per disegnare cartografie del contagio, ma per questo bastano dati aggregati (se correttamente anonimizzati utilizzabili già ora). A livello europeo già c’è una discussione sull’utilizzo di dati aggregati per tenere traccia della diffusione del virus e determinare dove le persone necessitano di forniture mediche più urgenti.

Più utili sono i dati dei sistemi di localizzazione GPS (es. Google Maps) perché il GPS ha una precisione che può scendere anche a 5 metri. Anche qui però la precisione non è sufficiente, e potrebbe portare a numerosi falsi positivi (contatti troppo lontani da essere a rischio). Per valutare la necessità e la proporzionalità occorre decidere cosa si vuole fare di questi dati. Se lo scopo è quello di avvertire direttamente (tramite sms) i possibili soggetti a rischio, diventa essenziale che le strutture sanitarie abbiano le risorse tali da gestire una enorme massa di persone che si presenta in ospedale per i test diagnostici. In caso contrario si ottiene solo di alimentare il panico.

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Infine, qualcuno ha sostenuto che in fondo già abbiamo subito pesanti limitazioni ai nostri diritti, in particolare con riferimento agli spostamenti, limitati a casi di urgenza e necessità. Ma le limitazioni fisiche, lo insegna la storia, difficilmente resistono al tempo. Una volta rientrato il contagio, e quindi l’emergenza, anche le sanzioni difficilmente terrebbero in casa tutti i cittadini. E se la risposta dello Stato fosse di aggravare le sanzioni il rischio è di avere una escalation che potrebbe sfociare in vere e proprio rivolte civili. Le misure limitative attuate digitalmente, invece, sono sostanzialmente invisibili, non si avvertono se non nel momento in cui un soggetto subisce delle discriminazioni a seguito dell’abuso del dato. Per cui è molto più facile che siano tollerate, anche per lunghi periodi.

"Clicca qui per salvarti dal virus"

Negli ultimi giorni i toni si sono decisamente alzati, con una retorica da vera e propria guerra, dove i nemici non sono tanto il virus, ma da individuare altrove (i "fondamentalisti della privacy", "l’untore"…). E, come sta accadendo troppo spesso negli ultimi anni, la soluzione la si vuole individuare nella tecnologia: una App che ci salverà dal coronavirus, perché gli italiani sono indisciplinati e incapaci di rispettare le regole (nonostante dai dati del Ministero degli Interni risultino sanzioni a poco più del 4% della popolazione). Una App, si dice, così come hanno fatto in Corea, a Singapore, come vogliono fare in Israele. Ma non è così, la soluzione miracolosa e veloce che ci salva dal virus non esiste, tutti i paesi citati si sono basati sulla pianificazione a lungo termine e su massicci investimenti nella sanità e nelle nuove tecnologie applicate alla sanità (es. telemedicina, diagnostica assistita da AI, stampa 3D, ecc...). L’utilizzo di strumenti di tracciamento della popolazione è solo l’ultimo pezzo di una catena sanitaria efficiente.

Immagine in anteprima via LegaNerd

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