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Come abbiamo distrutto il Belpaese e cosa possiamo fare per salvare ciò che resta

6 Settembre 2016 17 min lettura

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Come abbiamo distrutto il Belpaese e cosa possiamo fare per salvare ciò che resta

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«... una nazione della vecchia Europa dove tutto avviene troppo tardi e ogni distacco dall’immobilità assume il carattere di una frana che nessuno sa padroneggiare e dirigere».

Italo Calvino, “Nei boschi degli indiani”, Corriere della Sera, 18 aprile 1976

Cassinetta di Lugagnano è un Comune di meno di duemila abitanti a sudovest di Milano, all'interno del parco naturale della Valle del Ticino, sulle sponde del Naviglio Grande. Cassinetta è stato il primo Comune in Italia a rinunciare, progressivamente a partire dal 2002, agli oneri di urbanizzazione. L’amministrazione comunale voleva “emancipare il proprio bilancio” dalla necessità economica di concedere nuovi permessi di costruzione. In nome di un principio: stop al consumo di suolo.

“Emancipazione del bilancio” è un’espressione utilizzata dall’ex sindaco di Cassinetta, Domenico Finiguerra. Nella discussione sul piano regolatore del 2007, che non prevedeva nuove aree di espansione urbana, il sindaco decise di coinvolgere anche i cittadini. Rinunciare definitivamente agli oneri di urbanizzazione avrebbe potuto infatti causare difficoltà economiche al Comune e richiedere sacrifici alla comunità: «Dal dibattito che ne è sortito – spiega Finiguerra – non c’è stata nessuna levata di scudi in nome del motto “giù le tasse”».

Per raggiungere questo obiettivo, Cassinetta non ha rinunciato a qualsiasi intervento edilizio: «noi abbiamo detto stop al consumo di territorio, non all’edilizia. Abbiamo avuto decine di cantieri in questi anni, ma per riqualificare il patrimonio esistente».

Anche altri Comuni hanno seguito l'esempio di Cassinetta imboccando la strada dello stop al consumo di suolo, o di una sua decisa riduzione, come Cassina de' Pecchi (Milano), Rivalta di Torino e Desio (Monza e Brianza), talvolta opponendo resistenza a influenze e interessi contrari, come a San Lazzaro di Savena, vicino a Bologna, dove il sindaco ha denunciato di aver subito pressioni in seguito alla decisione di cancellare un grande progetto edilizio.

Esperienze come queste, insieme alla nascita di forum e associazioni, sono il risultato della presa di coscienza di un problema che viene riconosciuto ormai da (quasi) tutti, dalle amministrazioni locali alla politica nazionale e, perfino, dai rappresentanti del settore edilizio. Ma è una presa di coscienza relativamente recente. Per molto tempo il consumo di suolo non ha suscitato lo stesso allarme di altre questioni ambientali, pur trattandosi di un tema complesso, che interessa discipline e ambiti molto diversi.

Dal dopoguerra a oggi il suolo consumato in Italia è aumentato del 160%
I costi economici e ambientali del consumo di suolo
Lo “urban sprawl”: la crescita disordinata e irregolare delle città
Speculazione edilizia, una storia lunga 50 anni
La nuova legge sul consumo di suolo

Dal dopoguerra a oggi il suolo consumato in Italia è aumentato del 160%

Per “consumo di suolo” s’intende la sottrazione di aree naturali e agricole, per usi residenziali, produttivi o infrastrutturali, come le autostrade. Cemento e asfalto consumano suolo perché sono coperture impermeabili, che alterano in modo permanente la superficie del terreno. In Italia negli ultimi anni questo fenomeno è rallentato, ma non si è ancora arrestato.

La percentuale di suolo consumato è il 7% dell’intero territorio nazionale, pari a circa 21mila chilometri quadrati. Dopo aver raggiunto, in media, gli 8 metri quadrati di superficie al secondo, il consumo di suolo è calato tra i 6 e i 7 metri quadrati al secondo, tra il 2008 e il 2013, e ha segnato un ulteriore rallentamento, tra il 2013 e il 2015, scendendo a 4 metri quadrati al secondo (circa 35 ettari al giorno), come rilevato nell’ultimo rapporto pubblicato a luglio dall'Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra).

Stima del suolo consumato a livello regionale negli anni ’50 e al 2015. Fonte: rete di monitoraggio ISPRA-ARPA-APPA.
Stima del suolo consumato a livello regionale negli anni ’50 e al 2015. Fonte: rete di
monitoraggio ISPRA-ARPA-APPA.

A livello nazionale, dal dopoguerra ai giorni nostri, il suolo consumato è cresciuto di quasi il 160%. È un po' come se dagli anni '50 avessimo ricoperto una superficie pari all'Umbria e al Molise. La distribuzione del fenomeno non è omogenea in tutto il paese, ma è molto differenziata tra Regioni, Province e Comuni. Le stime a livello regionale riscontrano i valori più elevati in Lombardia e in Veneto, oltre il 10%, e tra il 7 e il 10% in Emilia Romagna, Lazio, Piemonte, Sicilia, Liguria, Campania, Puglia.

Inoltre, se ci riferiamo al consumo di suolo “effettivo”, cioè quello stimato sulla superficie totale al netto delle aree a quote superiori ai 600 metri, di quelle con pendenze elevate, dei corpi idrici (fiumi, laghi) e delle zone umide, l’Ispra ha rilevato che la percentuale sale al 10,8, rispetto al precedente 7% (dati riferiti al 2012). Come prevedibile, anche all’interno di una stessa Regione o Provincia, i valori più elevati si concentrano nelle pianure, nelle basse colline, lungo le fasce costiere e nei fondovalle.

Secondo l’Eurostat, infine, l’Italia è al quinto posto in Europa, dopo Malta, Belgio, Paesi Bassi e Lussemburgo, per percentuale di copertura artificiale del suolo.

Fonte: Eurostat.
Fonte: Eurostat.

I costi economici e ambientali del consumo di suolo

A dispetto delle apparenze, il suolo è un ambiente complesso e vivo. Si stima che nei suoli si trovi circa ¼ delle specie presenti sul pianeta. È, perciò, un ecosistema importante sia per la sua biodiversità che per le funzioni che svolge. La formazione del suolo a partire dallo strato roccioso è un processo molto lungo, perciò viene considerato una risorsa non rinnovabile, sulla scala dei tempi umani. Qual è, dunque, il suo valore? Da un certo punto di vista si potrebbe pensare che sia impossibile assegnare agli ecosistemi un valore monetario, ma dall'altro lato una quantificazione economica della potenziale perdita dei servizi ecosistemici renderebbe più realistiche le analisi dei costi e benefici degli interventi sul territorio, come per esempio nel caso della realizzazione di una infrastruttura.

I servizi ecosistemici sono tutti quei benefici che noi riceviamo dall'ambiente e che possono essere intaccati dal suo eccessivo sfruttamento. Molti dipendono dallo svolgimento di processi in cui il suolo è uno degli attori principali, come i cicli biogeochimici globali (il ciclo del carbonio, dell'azoto, del fosforo, dello zolfo), attraverso i quali vengono “riciclati” gli elementi indispensabili per la vita, o il ciclo dell'acqua, che si svolge tra l'atmosfera, i corpi idrici e la superficie terrestre.

Sono stati pubblicati diversi studi sulla valutazione economica degli ecosistemi, anche se questi metodi di calcolo hanno ancora alcuni limiti. Nel rapporto del 2016, l’Ispra ha riportato una valutazione economica preliminare dei costi che dovremo sostenere a causa del consumo di suolo avvenuto tra il 2012 e il 2015. L'Ispra afferma che perderemo tra i 538 e gli 824 milioni di euro all’anno circa, corrispondenti a 36mila e 55mila euro per ogni ettaro di suolo consumato. Ma l’istituto precisa che si tratta di sottostime. Questi costi sono dovuti alla mancata erogazione di diversi servizi ecosistemici, come la produzione agricola e lo stoccaggio e sequestro di carbonio.

La corretta gestione dei suoli è nell'elenco delle azioni da compiere per contenere il riscaldamento globale. Il suolo, infatti, è quello che si definisce un carbon sink, cioè un sistema capace di immagazzinare il carbonio, che si accumula in seguito alla formazione della sostanza organica del terreno, ricca di questo elemento. Questa proprietà assume una particolare rilevanza per il problema del riscaldamento globale, causato dall'aumento della concentrazione atmosferica di gas serra, soprattutto anidride carbonica. Il suolo contiene circa il doppio del carbonio che si trova nell'atmosfera e costituisce la seconda riserva di questo elemento sul pianeta dopo gli oceani. Escluso quello contenuto nella crosta terrestre e quello intrappolato nelle riserve fossili, come il petrolio, che partecipano al ciclo solo quando vengono estratte e utilizzate, liberando anidride carbonica.

Consumare suolo significa anche erodere una risorsa primaria per l'agricoltura. La perdita di superfici agricole si deve non solo all'avanzata delle aree urbane ma anche all'abbandono dei terreni, soprattutto quelli più marginali, per esempio in montagna. Il consumo di suolo colpisce in particolare le pianure: in Italia, come nel resto d'Europa, molte delle aree più consumate sono proprio quelle più fertili, come quelle lungo i fiumi, dove storicamente si sono sviluppati gli insediamenti urbani e dove l'attività agricola è più produttiva. Il centro studi di Confagricoltura scrive che in Italia la superficie agricola utilizzata, per ogni abitante, è diminuita del 42% dal 1961 al 2010. Una contrazione effetto sia della perdita di aree agricole che dell'aumento della popolazione. Uno studio del Joint Research Centre della Commissione Europea stima che il consumo di suolo avvenuto tra il 1990 e il 2006 si sia tradotto, in 19 paesi europei, in una perdita potenziale complessiva di circa 6,1 milioni di tonnellate di grano.

Lo “urban sprawl”: la crescita disordinata e irregolare delle città

Il consumo di suolo è, però, solo un aspetto di un problema di dimensioni più ampie. Non si tratta solo di calcolare quanto suolo è stato consumato, ma bisogna anche osservare come sono cresciute e come si sono sviluppate le città, le periferie, le infrastrutture, come sono stati trasformati i luoghi e come è cambiato il paesaggio che ci circonda. Quella che comunemente viene chiamata “cementificazione” è diventata, infatti, nel tempo un fenomeno sistemico che ha coinvolto tutto il territorio. Per questo, come nota la geografa Paola Bonora in Fermiamo il consumo di suolo, è più opportuno utilizzare l'espressione “consumo di territorio”.

L'urbanizzazione di un’area agricola del Lazio in tre anni differenti: 1999, 2006 e 2012 – via L'Architetto.it
L'urbanizzazione di un’area agricola del Lazio in tre anni differenti: 1999, 2006 e 2012 – via L'Architetto.it

In Italia, nei decenni successivi al dopoguerra, l'urbanizzazione è stata un processo pervasivo, specialmente dove la conformazione fisica ha permesso di dare libero sfogo al consumo di suolo e dove le città si sono dilatate e diffuse nel territorio circostante. Si parla spesso di “città diffusa”, o anche di “città infinita”, per riferirsi al fenomeno dello urban sprawl, cioè la crescita disordinata e irregolare delle città che porta alla formazione di aree urbane a bassa densità, disperse e frammentate. Al confine con la città vera e propria si creano zone di margine, che non sono ancora città, ma che non sono più vera campagna. Un processo di urbanizzazione del territorio che avanza in una commistione confusa di usi del suolo diversi.

Lo sprawl amplifica gli effetti del consumo di suolo, perché i terreni che si trovano negli spazi lasciati liberi tra aree residenziali periferiche, zone commerciali e artigianali rimangono spesso inutilizzati, sottratti alla loro destinazione agricola o naturale, talvolta compromessi nella loro qualità ambientale.

La pianura padana, una delle aree più fertili in Europa, offre alcuni tra gli esempi più significativi, in Italia, di consumo di territorio e di città diffusa. In questa pianura si è formata una struttura urbana estesa e interconnessa, che il geografo Eugenio Turri ha definito “megalopoli padana”.

«Simile a una grande macchina o a un organismo vivente», nella megalopoli padana le «preesistenze», cioè le città e i paesi con i loro centri storici e le antiche piazze, insieme alle tracce del passato rurale, sono come isole, scrive Turri, circondate dall'«alluvione edificatoria» dei nuovi quartieri residenziali, delle aree commerciali e delle zone artigianali-industriali della piccola e media impresa.

Anche nelle fasce costiere si trovano territori particolarmente segnati dagli effetti dell'urbanizzazione. Secondo i dati dell'Ispra, il suolo consumato entro 300 metri dalla linea di costa è il 22,9% a livello nazionale. Il primato spetta alla Liguria, con il 47,8%, seguita dalle Marche, con il 45,6%.

Per questo motivo il risultato più visibile del consumo di territorio è senz’altro la trasformazione del paesaggio che ci circonda, anche se questi cambiamenti sono spesso abbastanza lenti da far sì che non se ne colga la portata e l’evoluzione. Non si tratta però solo di un effetto ambientale, ma anche culturale.

Sbaglia, infatti, chi confonde il paesaggio con la “natura incontaminata” o selvaggia. I paesaggi, sia quelli urbani che quelli agrari, sono il frutto di un intervento dell’uomo sull’ambiente, della stratificazione, nel corso della storia, dell’azione umana, e quindi espressione della cultura di un luogo. La Convenzione europea del paesaggio parla di «una determinata parte di territorio, così come è percepita dalle popolazioni, il cui carattere deriva dall'azione di fattori naturali e/o umani e dalle loro interrelazioni».

A questo proposito Eugenio Turri, in Semiologia del paesaggio italiano, ha coniato il termine “iconema” per riferirsi a quelle «unità elementari di percezione», che sono come «riferimenti del nostro guardare» che assumono un significato. In questo senso il consumo di territorio, anche quando non stravolge il paesaggio, tende comunque a impoverire la sua immagine e a omologarlo o, come dicono alcuni, a “banalizzarlo”. Il paesaggio, perciò, è una questione che va al di là delle percentuali di suolo consumato, riguarda il senso e la leggibilità dei luoghi.

Speculazione edilizia, una storia lunga 50 anni

Per quanto un livello fisiologico di consumo di suolo sia necessario per soddisfare le esigenze abitative e produttive, in Italia il consumo del territorio e la mancata tutela del paesaggio sono stati anche, e soprattutto, il risultato di scelte (o mancate scelte) politiche e legislative, che hanno origine nel secondo dopoguerra. In questo periodo inizia già a manifestarsi l’irruenza edilizia che caratterizzerà il “miracolo economico” italiano. La stessa opera di ricostruzione si è accompagnata spesso a demolizioni ed edificazioni che non trovano spiegazione nemmeno nei danni provocati dalla guerra.

Nel 1956 Antonio Cederna, giornalista e attivista della difesa del patrimonio storico, denunciava su Il Mondo il «leviatano immobiliare» che a Roma stava realizzando «trionfalmente l'espansione della città a macchia d'olio». Parole che oggi appaiono abbastanza profetiche, se si guarda come si è andata estendendo la capitale nei decenni successivi.

Per questo motivo, già allora, chi riteneva che si dovesse intervenire per frenare gli eccessi della cementificazione, pensava che fosse indispensabile elaborare una riforma urbanistica che risolvesse il problema della rendita fondiaria urbana, uno dei fattori che hanno maggiormente condizionato lo sviluppo edilizio conferendogli spesso un carattere speculativo. Con la rendita fondiaria il proprietario trae vantaggio dall'aumento del valore di mercato di un terreno in seguito alla sua trasformazione in area urbana. Un guadagno definito da alcuni immeritato, perché frutto soltanto della decisione da parte pubblica di rendere quel terreno edificabile o della sua collocazione in particolari contesti.

Nel 1962 Fiorentino Sullo, ministro democristiano dei Lavori Pubblici, si fece promotore di un disegno di legge sulla proprietà dei suoli, che avrebbe dovuto orientare una riforma in campo urbanistico, con l’obiettivo di contenere la rendita e quindi anche l'aumento del costo dei terreni e delle abitazioni che vi venivano costruite. La misura più forte proposta dal disegno era l'espropriazione da parte dei Comuni dei terreni non ancora edificati, con un indennizzo pari al solo valore agricolo. Inoltre, i terreni sarebbero rimasti di proprietà pubblica.

Proprio per queste sue proposte, nella primavera dell'anno successivo, prima delle elezioni politiche, Sullo divenne bersaglio delle pesanti critiche di alcuni partiti e organi di stampa e dovette difendersi dall'accusa di voler togliere la casa agli italiani. Chiese perfino di poter esporre le sue idee in televisione, ma non gli fu possibile. Il suo partito, alla fine, lo sconfessò e si dissociò dal suo disegno di legge.

La vicenda di Sullo è senz'altro la più emblematica nella complessa e irrisolta storia dei rapporti tra pubblico e privato in campo urbanistico in Italia. Del resto è evidente l'influenza delle dinamiche della rendita fondiaria e del mercato immobiliare sull'espansione edilizia anche nel recente periodo, dalla metà degli anni '90 a oggi, quando l'Italia, come molti altri paesi, ha vissuto un ciclo edilizio caratterizzato da una fase di forte espansione, seguita poi da una forte recessione, iniziata con la crisi economico-finanziaria del 2007-2008.

Come ricorda l'Ispra, che cita dati del Cresme, in Italia nel 2000 si costruivano 80 milioni di metri cubi di edilizia residenziale, saliti a 126 milioni nella fase di massima espansione e scesi nel 2015 a 41 milioni, segno della crisi in cui si trova ancora il settore. Un analogo andamento si è registrato nell'edilizia non residenziale, con 206 milioni di metri cubi nel 2002, scesi a 50 milioni nel 2015. Secondo l'Istat tra il 1995 e il 2014 i Comuni italiani hanno rilasciato permessi di costruzione per circa 4,4 miliardi di metri cubi (più di 72 metri cubi pro capite). L'andamento del consumo di suolo ha, ovviamente, seguito quello delle costruzioni, arrivando oggi a dimezzarsi rispetto agli anni 2000. È rallentato ma non si è fermato, nemmeno in seguito alla crisi.

Il mercato immobiliare italiano: tendenze e prospettive – via AITEC
Il mercato immobiliare italiano: tendenze e prospettive – via AITEC

L’espansione edilizia non si è mai arrestata nemmeno durante il periodo di stabilità demografica che si è aperto con gli anni '80 ed è durato circa vent'anni. Il consumo di suolo per abitante è cresciuto fino al 2013, da 167 metri quadrati negli anni '50 a 349. È significativo il dato del rapporto tra nuovo suolo consumato per ogni nuovo abitante, che negli anni '90 ha superato i 9000 metri quadrati.

Bisogna anche considerare la tendenza alla dispersione urbana, effetto di uno spostamento interno della popolazione residente. Dopo gli anni dell'afflusso verso le grandi città, del rapido svuotamento delle campagne e, quindi, dell'aumento della popolazione urbana, durante gli anni '70 si è avviato un moto inverso: le città del “boom” edilizio sono diventate sempre meno attrattive ed è iniziata una “fuga” verso i Comuni limitrofi.

Un'analisi dell'Istat su alcuni dei principali capoluoghi italiani ha dimostrato la perdita di popolazione residente a favore dei Comuni confinanti, sia nella prima che nella seconda cintura. Secondo l'Istat, tra il 1951 e il 2012 la popolazione di 16 grandi Comuni capoluogo italiani si è ridotta, nel complesso, dal 68,3% al 54,0%, rispetto a quella totale dell'area che comprende i Comuni limitrofi. Nel caso di Milano la popolazione residente nel capoluogo è passata dall’82,2% del 1951 al 54,8% del 2012.

Popolazione per tipologia di Comune. Anni 1951-2012 (valori percentuali). Fonte: Censimenti della popolazione 1951-2011; stime della popolazione residente 2012. via Istat.
Popolazione per tipologia di Comune. Anni 1951-2012 (valori percentuali). Fonte: Censimenti della popolazione 1951-2011; stime della popolazione residente 2012. via Istat.

L’eccessivo consumo di suolo si deve soprattutto alla mancanza di un governo complessivo del territorio. Tutte le istituzioni, a partire dai Comuni, non sono riuscite a realizzare una pianificazione razionale, nonostante i diversi strumenti a disposizione (come i piani regolatori e quelli regionali, provinciali e paesaggistici). Al contrario, le politiche urbanistiche hanno finito per piegarsi alle necessità e agli interessi delle amministrazioni locali.

La legge Bucalossi del 1977, separando il diritto di proprietà da quello di costruzione, subordinava la concessione edilizia al pagamento di un onere, che i Comuni avrebbero incassato per la realizzazione delle opere di urbanizzazione (come le strade, le reti di distribuzione dei servizi e l'illuminazione) e la manutenzione del patrimonio edilizio comunale. Nel 2000 il governo Amato ha consentito ai Comuni di utilizzare le entrate derivanti dagli oneri di urbanizzazione per le spese correnti, per una quota che nel 2004 è arrivata al 75%. Questa facoltà è stata concessa da tutti i governi che si succeduti fino a oggi.

I Comuni, messi sempre più alle strette da difficoltà finanziarie e tagli dei trasferimenti di risorse, si sono trovati nelle mani una possibile fonte di entrate che non hanno evidentemente rinunciato a utilizzare, anche per garantire i servizi alla comunità, alimentando però essi stessi la “corsa” a costruire.

Di fronte ai problemi generati dall'espansione edilizia senza freni e dalle fluttuazioni del mercato immobiliare, la stessa categoria dei costruttori si è convinta che l'uscita dalla crisi del settore passi per la riqualificazione urbana e il recupero edilizio. Ciononostante, come rileva il rapporto dell'Ispra, «i piani urbanistici continuano a proporre, al di là delle dichiarazioni retoriche, modelli di sviluppo espansivo ancora ampiamente indirizzati a una massimizzazione della rendita fondiaria» e una «crescita insediativa e infrastrutturale scollegata dai bisogni effettivi». Un'analisi svolta sui Comuni della Lombardia ha dimostrato che i piani di governo del territorio, cioè i piani regolatori, approvati dai Comuni della Regione dal 2007 a oggi, contengono previsioni di nuova edificazione per più di 53mila ettari. Se venissero rispettate, produrrebbero un consumo di suolo perfino superiore a quello avvenuto durante gli anni della crescita del settore edilizio e immobiliare. È il segno che nemmeno la crisi ha scalfito certe prassi, abitudini e mentalità diffuse tra gli amministratori locali.

A tutto questo, si aggiunge il fenomeno dell'abusivismo che, afferma l'Istat, «nel nostro paese raggiunge proporzioni che trovano pochi riscontri nel resto d’Europa» e che nel meridione, in particolare, riguarda fino al 30% di ciò che è costruito legalmente. Una storia lunga 30 anni di condoni edilizi, iniziata a metà degli anni '80, con il governo Craxi, e proseguita fino agli anni 2000.

Non va ignorato, infine, l'effetto provocato da provvedimenti come la legge Tremonti del 2001 sulla detassazione degli utili reinvestiti, che ha favorito la proliferazione di nuovi fabbricati e capannoni, rimasti poi vuoti e inutilizzati dopo la crisi. O l'impatto sul territorio (e i costi) delle grandi opere. Il Centro di ricerca sui consumi di suolo calcolava nel 2013 che la realizzazione delle nuove infrastrutture autostradali lombarde (la Pedemontana, la Tangenziale Est Esterna di Milano e l’autostrada Brescia-Bergamo-Milano) avrebbe richiesto l'utilizzo di 1600 ettari di terreno.

La nuova legge sul consumo di suolo

Tutto questo, seppur lentamente, ha fatto emergere una presa di coscienza nei confronti del fenomeno, generando un vasto dibattito (che ha coinvolto politica, categorie del settore edilizio e associazioni) e la convinzione che fosse necessario approvare quanto prima una legge sul consumo di suolo.

Dopo molte proposte arrivate negli ultimi anni, lo scorso maggio la Camera dei deputati ha approvato una legge che, in linea con le indicazioni dell'Unione Europea, fissa l'obiettivo del consumo zero entro il 2050. Il provvedimento stabilisce che il consumo di suolo è consentito solo quando non esistono alternative, cioè quando non è possibile il riutilizzo delle aree già urbanizzate. Inoltre i proventi derivanti dagli oneri dovranno essere impiegati per le sole opere di urbanizzazione e risanamento di edifici nei centri storici e nelle periferie.

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Il percorso di approvazione della legge è stata accompagnato da diverse critiche e perplessità su alcuni punti che, secondo alcuni, indebolirebbero il provvedimento. Come ricorda l'Ispra nel rapporto, uno degli elementi critici riguarda la definizione stessa di consumo di suolo, limitata rispetto a quella adottata in ambito europeo e da cui rimarrebbero esclusi diversi utilizzi artificiali del suolo. Una stima compiuta dall’Ispra su un campione di punti della sua rete di monitoraggio ha dimostrato che più della metà del consumo di suolo avvenuta tra il 2013 e il 2015 non sarebbe stata conteggiata se fossero state adottate le definizioni contenute nella legge.

La norma prevede un complesso meccanismo “a cascata”, per cui, fissati dei limiti nazionali, si stabiliscono quote di consumo di suolo ripartite tra le Regioni, che dovrebbero poi fissare gli indirizzi che i Comuni devono seguire per raggiungere questi obiettivi. È questo un limite della legge, perché adotta una approccio quantitativo al contenimento del consumo di suolo senza affrontare davvero il nodo della necessità di portare la pianificazione del territorio al di sopra del livello comunale. La maggioranza, inoltre, ha accettato la richiesta dei Comuni di "salvare" gli interventi edilizi per cui sia stata richiesta l'approvazione prima dell'entrata in vigore della legge. Il disegno originario includeva solo i procedimenti già in corso.

La legge dovrà ora passare all'esame del Senato e sono in molti ad auspicare che il testo possa migliorare. Ma è evidente che per fermare il consumo di suolo, oltre a leggi efficaci, è indispensabile un cambiamento culturale che induca tutti a trattare il suolo come una risorsa non rinnovabile e il territorio e il paesaggio come beni comuni.

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