Conflitto tra Armenia e Azerbaigian: perché proprio in questo momento, perché questa volta è più preoccupante e c’entra anche la debolezza di Mosca
10 min letturaPer due giorni, a partire dalla notte tra il 12 e 13 settembre e fino alla sera del 14 settembre ci sono stati intensi scontri a fuoco lungo estesi settori del confine tra Armenia e Azerbaigian. Attacchi con artiglieria e droni dell’Azerbaigian hanno colpito non solo posizioni di confine, ma hanno raggiunto anche centri abitati armeni che non si trovano in immediata prossimità del confine. Ufficialmente gli scontri hanno causato 77 morti di soldati dell’Azerbaigian, e 135 in Armenia (numeri non definitivi), con feriti e oltre 7.600 persone evacuate per sicurezza dai centri abitati armeni più esposti all’attacco. Sebbene l’Azerbaigian abbia presentato questa azione militare come una risposta a provocazioni armene, tutto fa pensare a un deliberato intervento di Baku per evidenziare la propria posizione di forza e imporre sostanzialmente i propri termini all’Armenia nella fase avanzata dei negoziati di pace attualmente in corso. Un cessate-il-fuoco tra le parti sembra per ora reggere, ma la situazione rimane tesa; in seguito a questi eventi, l’Azerbaigian ha preso il controllo di alcune alture in aree di confine armene.
Il contesto
Le violenze tra armeni e azeri erano iniziate negli anni finali dell’URSS ed erano confluite in una vera e propria guerra su ampia scala tra il 1992 e il 1994 in Nagorno Karabakh, una regione autonoma a maggioranza armena all’interno dei confini dell’Azerbaigian. Quella guerra si era conclusa con una vittoria della parte armena che era riuscita a ottenere il controllo non solo del Nagorno Karabakh, ma anche di ampie aree circostanti non abitate da armeni, causando centinaia di migliaia di sfollati azeri. In assenza di un accordo di pace, questa situazione si è consolidata per oltre due decenni: un governo de facto in Nagorno Karabakh aiutato dall’Armenia ha continuato a controllare sia l’ex-regione autonoma sia i territori adiacenti, impedendo il ritorno della popolazione azera.
In questi anni, l’Azerbaigian – la cui popolazione è oltre il triplo di quella dell’Armenia – si è notevolmente rafforzato dal punto di vista economico grazie all’esportazione di idrocarburi e ha dedicato crescenti risorse alle proprie forze armate, rendendo così sempre più evidente la disparità di forze tra i paesi vicini. Nell’autunno del 2020, l’Azerbaigian ha lanciato un’imponente offensiva per riprendere il controllo sull’intera area di conflitto, che si è conclusa dopo 44 giorni di guerra che hanno causato oltre 7.000 morti con una netta sconfitta della parte armena. In seguito all’armistizio raggiunto il 9 novembre del 2020 grazie alla mediazione della Russia, l’Azerbaigian ha preso il controllo di tutti i territori adiacenti il Nagorno Karabakh, nonché parte dell’ex regione autonoma storicamente abitata da armeni. La guerra ha causato decine di migliaia di sfollati armeni, ma buona parte della popolazione armena del Nagorno Karabakh (circa 140.000 persone prima della guerra del 2020) continua a vivere nella regione protetta da un contingente di forze di pace della Federazione russa, in un contesto che pare sempre più fragile.
Perché gli eventi di questi giorni sono preoccupanti
Durante la guerra del 2020, le azioni militari si sono svolte per intero in Nagorno Karabakh e nei territori adiacenti, ovvero, all’interno di quelli che sono i confini internazionalmente riconosciuti dell’Azerbaigian. Ad eccezione di piccole schermaglie che interessavano in particolare aree in cui vi sono centri abitati che si trovavano in diretta prossimità del confine tra Armenia e Azerbaigian (gli incidenti più gravi si sono registrati nel 2014 e nel 2020), né prima né dopo quella guerra gli eserciti dei due paesi si sono scontrati lungo il confine internazionalmente riconosciuto che li separa, né erano mai stati colpiti obiettivi militari o altra infrastruttura situata all’interno dei confini dell’Armenia. A differenza dei precedenti episodi in ampia parte imputabili alla vicinanza tra le forze che controllano il confine dalle due parti e a dinamiche incidentali, l’attacco del 13 settembre da parte dell’Azerbaigian è evidentemente pianificato e deciso a livello centrale: l’impiego di artiglieria pesante e droni su lunghi settori del confine non lascia adito a dubbi. È un evento su scala molto più ampia rispetto a piccole seppur contestate avanzate in zone scarsamente presidiate e dove il confine non è pienamente demarcato, come si era osservato a maggio dello scorso anno in zone montane.
In questo caso si tratta quindi di un paese che attacca in modo organizzato il vicino al di fuori di aree di conflitto, in aree tecnicamente non contese, senza obiettivi strategici evidenti: una dinamica del tutto nuova e preoccupante.
Perché quindi da parte dell’Azerbaigian si è deciso di intervenire in questo modo, in questo momento e in questa area?
Perché proprio in questo momento?
Ufficialmente, Baku ha spiegato questo attacco come una reazione a un’operazione di sabotatori armeni condotta il 12 settembre e a ripetute azioni ostili condotte dalla parte armena: lo scopo dell’intervento sarebbe quindi prevenire il ripetersi di simili provocazioni. La spiegazione pare poco convincente, sia perché nell’attuale contesto l’Armenia non ha alcun interesse a cercare escalation militare con un vicino nettamente più forte, sia perché un attacco che raggiunge a colpi d’artiglieria oltre venti centri abitati in zone precedentemente non coinvolte dal conflitto sarebbe in ogni caso una reazione sproporzionata anche a una presunta provocazione: non può essere certo sufficiente a giustificare le oltre 200 vittime che sono conseguenza diretta di questo attacco.
Una serie di elementi di contesto aiuta a capire meglio le dinamiche che plausibilmente hanno portato Baku a prendere questa decisione. Primo tra questi è il contesto internazionale estremamente favorevole per l’Azerbaigian: Baku ha potuto decidere di intervenire con un attacco sul suolo di un altro Stato senza un credibile pretesto anche perché aveva la convinzione – per ora, confermata dai fatti – che non avrebbe pagato un prezzo sostanziale per quella che a tutti gli effetti è una grave e ingiustificata violazione del diritto internazionale. L’Armenia è militarmente indebolita e conscia di non potersi permettere una reale escalation militare. La Russia, storico alleato dell’Armenia e garante dell’armistizio del novembre 2020, ha evidentemente altre priorità in questo momento; potrebbe non essere solo una coincidenza il fatto che questo attacco abbia avuto luogo solo pochi giorni dopo l’importante controffensiva di Kharkiv che ha messo ulteriormente in evidenza i limiti della forza militare russa. Più in generale, le dinamiche legate all’invasione dell’Ucraina riducono strutturalmente l’influenza di Mosca nel Caucaso meridionale.
Inoltre, evitando di colpire le aree protette dai peacekeeper russi in Nagorno Karabakh, Baku ha ridotto ulteriormente il rischio un coinvolgimento diretto delle forze di Mosca, anche se ha comunque messo in evidenza la debolezza degli accordi internazionali che dovrebbero tutelare la sicurezza dell’Armenia. Oltre ad avere un accordo bilaterale di sicurezza e mutuo soccorso con la Federazione russa, l’Armenia infatti è membro dell’“Organizzazione del trattato di sicurezza collettiva” (OTSC), un’alleanza militare attualmente composta da Russia, Bielorussia, Armenia, Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan. L’OTSC ha una clausola di difesa collettiva simile all’articolo 5 della NATO, che impegnerebbe gli stati partecipanti a venire in soccorso qualora uno di questi stati sia attaccato. Yerevan ha cercato di ottenere aiuto dagli alleati, ma un loro sostegno militare diretto, mentre la Russia è “distratta” dalla guerra in Ucraina, pare semplicemente implausibile anche nel contesto di un’escalation più ampia: l’OTSC si è limitata a esprimere genericamente preoccupazione per la situazione e a mandare una missione conoscitiva in Armenia.
Baku sa inoltre di non dover temere reazioni dure neppure dall’Occidente. Sia Unione Europea che Stati Uniti hanno intimato di interrompere le azioni militari, ma realisticamente Baku ha poco di cui preoccuparsi: in questa fase l’Unione europea difficilmente rinuncerebbe alle forniture di gas dall’Azerbaigian quanto mai necessarie nei prossimi mesi per supplire alle ridotte importazioni dalla Russia (la presidente della Commissione Europea von der Leyen ha profusamente ringraziato il presidente dell’Azerbaigian Aliyev per il suo sostegno durante una sua visita a Baku lo scorso luglio). L’attuale dinamica dei prezzi degli idrocarburi garantisce inoltre un aumento molto significativo degli introiti per il bilancio di Baku per l’anno in corso e per il futuro prossimo.
In breve, il contesto favorevole spiega perché non ci fosse alcun deterrente immediato per Baku; non è però sufficiente a spiegare perché abbia deciso di agire in questo momento, in quest’area e con queste modalità.
Questi scontri lungo il confine avvengono infatti in una fase apparentemente positiva e costruttiva del processo negoziale, con ripetuti incontri diretti tra la leadership di Armenia e Azerbaijan ospitati dal presidente del Consiglio europeo Charles Michel. L’incontro più recente si è tenuto a Bruxelles lo scorso 31 agosto, solo due settimane prima delle violenze dei giorni scorsi, e secondo il comunicato ufficiale rilasciato dall’Unione Europea si è trattato di uno scambio produttivo, in seguito al quale veniva dato compito ai ministri degli Esteri di Armenia ed Azerbaigian di produrre una bozza di trattato di pace entro fine settembre.
Violenza, rivendicazioni e minacce
In questo contesto, l’attacco dei giorni scorsi è quindi interpretabile in primo luogo come un modo da parte dell’Azerbaigian per evidenziare la situazione di estrema vulnerabilità in cui si trova l’Armenia in questo momento, e quindi per sottolineare in questa fase avanzata di negoziati che l’Azerbaigian non è in cerca di concessioni, ma che in quanto vincitore dell’ultima guerra e stato militarmente più forte ha tutta l’intenzione di imporre le proprie condizioni.
Questo attacco è quindi non solo un pro-memoria della superiorità militare dell’Azerbaigian e della situazione di estrema vulnerabilità dell’Armenia, ma anche un’esplicita minaccia, che accompagna minacce verbali e rivendicazioni ripetutamente espresse in passato. Già nel 2021 infatti, il presidente Aliyev aveva dichiarato che l’Azerbaigian avrebbe stabilito un corridoio attraverso la regione armena di Syunik per facilitare il collegamento con la regione del Nakhchivan e la Turchia alle proprie condizioni: “Se l’Armenia sarà d’accordo, risolveremo questa situazione in modo più semplice, se non vuole, la risolveremo con la forza.” Ripetutamente negli scorsi anni, e più recentemente anche in contesto di negoziati, il presidente dell’Azerbaigian ha descritto gran parte del territorio dell’Armenia come territorio storicamente azero, insistendo in particolare sull’area meridionale dell’Armenia dove si sono concentrati gran parte degli attacchi dei giorni scorsi.
Cosa vuole ottenere l’Azerbaigian
Anche trascurando le rivendicazioni più ampie – che comunque è importante non normalizzare – nell’immediato pare che l’intenzione da parte dell’Azerbaigian sia quella di spingere la leadership dell’Armenia a sottoscrivere un accordo di pace con il rispettivo riconoscimento dell’integrità territoriale tra i due paesi, senza alcun riferimento allo status o ai diritti delle popolazione armena del Nagorno Karabakh, e con la creazione di un corridoio azero attraverso Syunik alle condizioni di Baku, ovvero un corridoio al di fuori della giurisdizione armena e senza punti di controllo (l’armistizio del novembre 2020 prevedeva l’apertura di una linea di comunicazione, affidandone la supervisione alla Russia).
Quando sono iniziati i colpi d’artiglieria nel cuore della notte del 12 settembre, era difficile da parte armena capire se si trattasse di un attacco relativamente limitato, o se fosse solo l’inizio di un’avanzata più sostanziale mirata a mettere in pratica le minacce ripetutamente espresse in passato. Instillare preoccupazione e paura nella popolazione armena per ottenere un accordo di pace che soddisfi a pieno le richieste di Baku senza ulteriori indugi era presumibilmente tra le motivazioni principali di questa offensiva di Baku.
Sicuramente l’attacco ha destato timore e preoccupazione, ma anche tanta rabbia, aumentando le tensioni interne in Armenia e mettendo potenzialmente a rischio la stabilità del governo. Il primo ministro armeno Nikol Pashinyan da tempo sta infatti lavorando per preparare il pubblico armeno ai difficili compromessi che saranno parte di ogni realistico accordo di pace, inclusa la rinuncia all’indipendenza del Nagorno Karabakh che per tanti anni è stato elemento centrale tra le richieste armene. Affinché si arrivi ad un trattato di pace che sia effettivamente difendibile di fronte alla popolazione, è importante che Pashinyan sia in grado di comunicare che questo difficile compromesso è fatto nell’interesse del paese e del popolo armeno.
Cercare di concludere i negoziati sotto minaccia di violenza complica quindi ulteriormente il processo negoziale e rischia effettivamente di farlo deragliare, creando rischi per la tenuta del governo Pashinyan e favorendo l’ascesa a Yerevan di forze che più esplicitamente si oppongono a eventuali accordi. Baku potrebbe forse imporre con le armi le proprie condizioni, ma ad un costo umano, politico ed economico molto alto: si tratta di uno scenario difficilmente sostenibile e ricco di incognite che l’Azerbaigian non ha effettivo interesse a perseguire finché ha realistiche possibilità di ottenere gran parte di ciò che desidera per vie negoziali.
Le prospettive
Sebbene la situazione sia ancora tesa e non sia affatto possibile escludere nuove violenze nei prossimi mesi, pare realistico che quantomeno nel breve periodo non emergano nuovi attacchi su ampia scala lungo il confine internazionale tra Armenia e Azerbaigian. In questo momento entrambe le parti hanno interesse a fare in modo che gli scontri del 13-14 settembre escano al più presto dal dibattito pubblico; lo stesso presidente Aliyev ha minimizzato l’accaduto in un incontro con il presidente russo Vladimir Putin avvenuto il 16 settembre: “Nessuna delle parti aveva intenzione di arrivare ad un escalation su ampia scala. Scontri di confine, purtroppo, succedono. L’importante è che si sia arrivati a stabilizzare la situazione”.
È importante che nelle prossime settimane si riprendano i negoziati, proseguendo il percorso negoziale in corso che, pur tra enormi difficoltà, potrebbe progressivamente portare ad un accordo di pace. Il governo armeno in questi mesi ha dimostrato effettiva disponibilità a cercare compromessi, riducendo al minimo le proprie richieste, ma insistendo comunque che un eventuale accordo includa effettivi meccanismi di tutela per la sicurezza e i diritti della popolazione armena del Nagorno Karabakh, seppur accettando la piena sovranità di Baku su quest’area.
Per superare questa difficile fase del conflitto tra armeni e azeri e favorire dinamiche positive è quindi fondamentale trovare formule di compromesso riguardo alle vie di transito a disposizione dell’Azerbaigian attraverso il suolo armeno previste dall’armistizio del 2020 e soprattutto soluzioni che garantiscano diritti e sicurezza per la popolazione armena del Karabakh o che comunque contemplino un realistico percorso per definirli.
La sicumera che emerge costantemente dalle dichiarazioni di Baku, la prontezza nel ricorrere alle armi dimostrata anche nei giorni scorsi e l’esplicita e ripetuta minaccia dell’uso della forza per imporre le proprie condizioni, purtroppo, non lasciano ben sperare. La sostanziale assenza di una retorica pubblica effettivamente conciliatoria e inclusiva da parte di Baku e l’esclusione della comunità locale del Nagorno Karabakh dal processo negoziale sono destinati a creare nuove fratture. Il presidente Aliyev insiste che il Nagorno Karabakh è ora una questione interna dell’Azerbaigian, che l’Azerbaigian è uno stato multietnico dove non vi sono discriminazioni, e che non vi è quindi bisogno di alcun trattamento di privilegio per gli armeni né alcuna forma di autonomia. Si tratta di dichiarazioni nient’affatto rassicuranti. Senza esplicite tutele sulle quali dovrebbero attivamente insistere anche i principali attori internazionali coinvolti, il rischio che rinnovate tensioni portino a una nuova guerra e che la popolazione armena del Karabakh sia vittima di pulizia etnica nei prossimi anni è purtroppo del tutto concreto.
*Giorgio Comai è ricercatore ad Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa
(Immagine in anteprima: frame video DW)