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La Consulta decide su copyright e blocco siti. Ma i veri danni arrivano dall’antipirateria

18 Ottobre 2015 8 min lettura

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La Consulta decide su copyright e blocco siti. Ma i veri danni arrivano dall’antipirateria

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Regolamento Agcom

Il 20 ottobre la Corte Costituzionale deciderà il destino del Regolamento Agcom. La chiave di lettura delle ordinanze con le quali il TAR del Lazio ha inviato gli atti alla Consulta sta nella citazione dal filosofo Kant:

Soltanto la volontà generale collettiva del popolo può essere legislatrice.

Il Tribunale Amministrativo rileva, alla fine di un complesso ragionamento, che ci potrebbe essere un'illegittimità costituzionale che tocca le norme su cui si regge il Regolamento medesimo. Il Tar si chiede se una procedura amministrativa così configurata, nel momento in cui va a comprimere i diritti inviolabili dei cittadini, sia davvero legittima.
Sintetizzando, il Regolamento Agcom, nel prevede la cancellazione di contenuti online al fine di tutelare la libertà economica dei privati (in special modo l'industria del copyright) di cui all'art 42 della Costituzione, di fatto ribalta la gerarchia dei valori costituzionali consentendo la soppressione (perché di tale si tratta e non di semplice compressione) di diritti costituzionali sovraordinati, quali la libertà di espressione. E, in particolar modo, il Regolamento Agcom priva i cittadini di una tutela adeguata in caso di violazione dei loro diritti.
Per cui, il Regolamento violerebbe sia il principio della riserva di legge che impone un inderogabile ordine di intervento tra legge e regolamento, ma anche la riserva di tutela giurisdizionale.

Ma al di là delle questione tecnico-giuridiche, delle quali si occuperà la Consulta, appare evidente che il problema è principalmente costituito dalla sanzione unica prevista dal Regolamento, cioè l'oscuramento del sito online. Nel caso in cui un sito presenti opere piratate insieme ad opere lecite, la sanzione è sempre e soltanto l'oscuramento del sito (site blocking), che tocca anche le opere del tutto lecite.

Site blocking in Europa
Site blocking in Europa (presentazione del vice consigliere generale Okke Visser alla Conferenza iCLIC a Southampton, Regno Unito, da Eleonora Rosati)

1 - Italia (238 blocchi)
2 - Regno Unito (135)
3 - Danimarca (41)
4 - Spagna (24)
5 - Francia (18)

L'industria del copyright nel chiedere, e ottenere, provvedimenti legislativi e paralegislativi per la tutela dei propri diritti economici ha sempre accentrato le sue richieste sulla rimozione dei contenuti (takedown o site blocking).
Il problema di tale tipo di provvedimenti è che oggi è acquisita la concezione di Internet non come un mero mezzo di svago (per cui sarebbe ammissibile la disconnessione o la rimozione dei contenuti) bensì uno strumento, se non addirittura lo strumento, per la realizzazione dell'individuo attraverso la possibilità di informarsi e di informare, di esprimere le proprie opinioni e di partecipare al dibattito pubblico, fino anche alla possibilità di fare impresa.
Si tratta, quindi, di diritti fondamentali che sono richiamati anche dall'art. 2 della Costituzione italiana, come ha chiaramente evidenziato proprio la Corte Costituzionale con la sentenza n. 16236 del 2010, dove stabiliva che il cittadino è costituzionalmente sovrano solo quando è correttamente informato.

L’accesso veloce è funzionale all’uguaglianza sostanziale perché, agendo da leva atta a rimuovere gli ostacoli materiali ed economici al pieno sviluppo della persona, diventa occasione per l’effettivo esercizio delle libertà fondamentali – manifestazione del pensiero, comunicazione intersoggettiva – alle quali chi è gravato dalle preoccupazioni del vivere quotidiano (art. 2 Cost.), è costretto a rinunciare. Quindi, il diritto di accesso sposta flussi finanziari verso chi non ha, condividendo la funzione equilibratrice propria dei diritti sociali, rispetto ai quali, però, presenta un profilo di unicità: a differenza del diritto alla salute o al lavoro, in grado di procurare vantaggi da soli, il diritto alla connessione di per sé non soddisfa alcun bisogno: la soddisfazione dell’interesse è qui rinviata all’acquisizione del bene finale, di volta in volta procurato dalla navigazione. Quindi, siamo in presenza di un diritto sociale a utilità plurima e differenziata (G. De Minico, Uguaglianza e accesso a internet, 2013).

Libertà di espressione

È pacifico allora che il discorso deve spostarsi sul piano delle limitazioni alla libertà di espressione e di informazione.

Nella fase di valutazione dell'illecito come denunciato all'Agcom, questa esercita un'attività di bilanciamento dei diritti contrapposti: da un lato i diritti economici dell'accusante, in genere un'azienda, e dall'altro i diritti dell'uploader, colui che ha caricato il file reputato illecito, che si sostanziano nei diritti alla libertà di espressione e di informazione.
La comparazione di tali diritti è attività tipica del legislatore, che la delega ai giudici. L'Agcom si appropria di tali compiti paralegislativi esercitandoli, però, al di fuori di un procedimento giudiziario, l'unico in grado di fornire le garanzie minime per gli accusati.

Nel caso specifico più che di bilanciamento dobbiamo, purtroppo, parlare di soppressione di un diritto a vantaggio dell'altro. Non si tratta, infatti, di una compressione di un diritto per evitare lesioni ad altro diritto, ma proprio della sovrapposizione del diritto economico a quello fondamentale della libertà di espressione. E questo, si badi, non tanto in relazione al contenuto presunto illecito (perché fin quando non c'è una statuizione di un giudice non si può considerarsi tale), bensì con riferimento agli altri contenuti leciti presenti altresì sul sito oscurato, che perciò vengono ad essere cancellati. Da cui la soppressione del diritto alla libertà di espressione di un soggetto che non ha commesso alcun illecito (vedi articolo di Fulvio Sarzana sul Fatto Quotidiano).
Questo è quello che ha asserito la Corte di Giustizia europea, nel sostenere che non è mai proporzionato il provvedimento di rimozione di contenuti illeciti online nel momento in cui va ad incidere anche su contenuti leciti.

Inoltre, i provvedimenti dell'Agcom sono sostanzialmente perpetui. L'accordo TRIPs (Agreement on trade related aspects of intellectual property rights) firmato il 15 aprile 1994 a Marrakech, uno degli allegati dell'atto istitutivo del WTO, prevede la possibilità di un intervento di rimozione da parte dell'autorità amministrativa, ma solo in caso di violazioni evidenti, mentre nel caso in cui la valutazione implichi un bilanciamento di diritti, l'intervento deve essere demandato all'autorità giudiziaria, rispettando i principi del giusto processo e della non colpevolezza fino a condanna definitiva.
Ma, soprattutto, l'art. 50 del TRIPs prevede l'efficacia limitata dei provvedimenti inibitori, come quelli dell'Agcom, da assoggettare a convalida nei 20 giorni lavorativi successivi, in assenza della quale devono decadere. Cioè l'istante, colui che si lamenta dell'illiceità di un contenuto online, dopo averne ottenuto la rimozione deve iniziare un giudizio di merito per accertare effettivamente se quel contenuto fosse illecito. Così funziona sostanzialmente anche il DMCA americano a cui si ispira chiaramente il Regolamento Agcom.
Questo non accade, invece, in Italia con il Regolamento Agcom. Non c'è convalida, non c'è decadenza, ma solo la possibilità per l'accusato (l'uploader) di impugnare dinanzi al costosissimo TAR, laddove la stessa impugnazione è limitata. Si ribaltano quindi i termini della questione spostando sull'accusato, che viene ritenuto colpevole in base ad una mera affermazione, l'onere di provare la propria innocenza.

Il martello di Maslow

L'industria del copyright, che ha fortemente voluto, e ottenuto, questo Regolamento, si lamenta del fatto di non avere altri strumenti a disposizione per tutelare i propri diritti. E che il ricorso a un giudice renderebbe vano qualsiasi tentativo dato il lungo tempo che occorre per ottenere una sentenza. A parte che un provvedimento inibitorio di un giudice lo si può ottenere in pochi giorni (però il Giudice dopo pretende che il diritto sia provato, e non solo affermato, e forse è per questo che all'industria non piace doversi rivolgere ai giudici), l'assenza di provvedimenti adeguati non giustifica il ricorso a provvedimenti estremi che finiscono col sopprimere altri diritti sovraordinati (sarebbe come giustiziare un ladro solo perché non abbiamo carceri in cui rinchiuderlo).

If you only have a hammer, you tend to see every problem as a nail.
Se disponi soltanto di un martello sei portato a trattare qualsiasi cosa come se fosse un chiodo. (Abraham Maslow, psicologo)

Anche per il diritto all'oblio, oppure i contenuti di hate speech (quelli che non costituiscono di per sé reato), non abbiamo attualmente strumenti realmente adeguati (interessante è l'analisi del caso Paul Chambers, anche detto Twitter Joke Trial -il processo alla scherzo su Twitter-). Questo non vuol dire che dobbiamo trattare queste situazioni come fossero tutti chiodi.

Il corto circuito nasce proprio per colpa dell'industria del copyright che per prima si è posta i problemi relativi ai contenuti illeciti online, trattandoli come chiodi. E tale modo draconiano di porsi, paragonabile ad una vera e propria guerra (caso eclatante è quello di Richard O'Dwyer) intentata spesso e volentieri contro i suoi stessi utenti, è stato adottato per tutte le questioni relative all'online.
Le migliaia di cause intentate dall'industria del copyright per ottenere la rimozione di contenuti piratati, le azioni eclatanti contro Napster, Grokster e Megaupload, le cause contro YouTube, hanno pubblicizzato ampiamente questo estremo modo di approcciarsi ad internet, in base al quale tutto ciò che non ci piace va eliminato. L'approccio tipico dell'antipirateria è ormai entrato nella coscienza globale, per cui anche per una banale molestia online l'unica risposta immaginata è sempre e soltanto la rimozione.

Ma la rimozione dei contenuti è realmente efficace?
A questo proposito, a parte le autoincensanti analisi finanziate dall'industria del copyright, esistono pochi ma significativi studi che si possono considerare realmente oggettivi, dei quali abbiamo dato conto in un altro articolo. Ricordiamo lo studio dell'Hadopi, nel quale si sostiene che il blocco di un sito web è una soluzione antipirateria inefficace, perché non produce alcuno spostamento di utenti dal mercato nero a quello legale, rimanendo così del tutto ingiustificato il suo costo elevato.
L'Hadopi è l'autorità francese deputata al controllo delle violazioni del copyright online, che nel corso degli anni è stata progressivamente ridimensionata proprio a causa della presa d'atto dell'assoluta inutilità dei provvedimenti di blocco. Nel caso specifico l'Hadopi prevedeva la disconnessione dell'utente dalla rete, poi sostituita da una multa. Lo studio rende evidente che l’unico modo di “convertire” utenti è di fornire loro un’offerta più competitiva rispetto a quella illecita.

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Ma soprattutto uno studio commissionato dalla Commissione europea evidenzia l'inutilità dei provvedimenti di rimozione dei contenuti online, al quale ha fatto seguito uno studio tutto italiano incentrato proprio sui provvedimenti emessi dall'Agcom.

Alla luce di queste analisi appare ancora più palese l'assenza di proporzionalità dei provvedimenti di site blocking, che si rivelano in fin dei conti delle misure severe ma inefficaci, che da un lato non raggiungono il fine proposto (cioè la riduzione significativa della pirateria) e dall'altro comprimono fino a sopprimerli i diritti fondamentali dei cittadini.
Come ha sostenuto la Corte di Giustizia europea, le misure di rimozione devono essere, invece, rigorosamente mirate, nel senso che devono servire a porre fine alla violazione arrecata da parte di un terzo al diritto d'autore o a un diritto connesso (ma ciò non si verifica), senza arrecare pregiudizio agli altri utenti di internet che non hanno commesso alcun illecito (cosa che invece si verifica). Quindi il blocco di ulteriori contenuti, leciti, rende le misure di site blocking ingiustificate.

Alla luce di tali considerazioni occorrerebbe ripensare l'intero impianto scartando a priori la soluzione “one size fits all”, e graduare le sanzioni. Esistono misure alternative alla rimozione che consentono una tutela adeguata dei diritti economici senza sopprimere le libertà fondamentali dei cittadini, e questa alternatività è essenziale nel giudizio di bilanciamento, come sostenuto a più riprese dalla Corte europea, ed è per questo che tali provvedimenti inibitori sono in contrasto con la normativa europea.
Ad esempio, è possibile tecnicamente ridurre la velocità del download, oppure bloccare il solo download consentendo comunque l'accesso al sito, o anche imporre delle sanzioni pecuniarie. Come suggerito da alcuni autorevoli commentatori (G. De Minico) la sanzione pecuniaria, se superiore al costo dei diritti d'autore relativi all'opera, avrebbe anche un effetto deflattivo.
L'importante è non bloccare contenuti leciti.

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