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Gli USA dichiarano guerra all’Europa per la regolamentazione delle piattaforme: è ora di togliersi i guanti bianchi

26 Dicembre 2025 9 min lettura

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Gli USA dichiarano guerra all’Europa per la regolamentazione delle piattaforme: è ora di togliersi i guanti bianchi

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"Se la libertà di espressione è una componente così importante delle relazioni estere degli Stati Uniti, verrebbe da pensare che l'amministrazione Trump dovrebbe essere più critica nei confronti dei paesi che la ostacolano – Cina, Russia, Stati del Golfo – piuttosto che nei confronti dell'Unione Europea" (Ian Bremmer)

I nuovi nemici pubblici degli Stati Uniti sono oggi i garanti delle leggi europee. Con le restrizioni sui visti all’ex commissario UE per il mercato interno e i servizi  e ad esperti europei coinvolti nell’elaborazione e nell’applicazione delle politiche dell’Unione Europea contro la disinformazione online, l'amministrazione Trump ha ufficialmente trasformato il primo emendamento (la norma USA che garantisce una libertà d'espressione quasi assoluta) in un'arma di aggressione geopolitica. Una vera e propria dichiarazione di guerra culturale: o l'Europa accetta di diventare il terreno di conquista dei giganti tech, o verrà trattata da Washington come un 'paese ostile'.

Il provvedimento, annunciato dal Dipartimento di Stato, riguarda infatti figure legate al Digital Services Act (DSA), il regolamento con cui Bruxelles impone obblighi stringenti alle grandi piattaforme digitali in materia di contenuti, trasparenza e responsabilità.

Secondo l’amministrazione americana, le autorità europee avrebbero esercitato pressioni indebite su aziende statunitensi, limitando la libertà di espressione e interferendo con il dibattito pubblico online. Le sanzioni - che includono il divieto di ingresso negli Stati Uniti - vengono giustificate dunque come una risposta a presunte pratiche di “censura” e a un uso politico della regolazione digitale.

Tra i cinque nomi colpiti dal divieto di visto spicca quello di Thierry Breton, l’ex Commissario europeo per il Mercato Interno e principale architetto del DSA. La sua reazione su X è stata durissima: ha paragonato la mossa degli Stati Uniti a una "caccia alle streghe in stile maccartista", ricordando che il DSA è stato votato dal 90% del Parlamento Europeo e da tutti i 27 Stati membri. Colpire lui significa, simbolicamente, colpire l'intera architettura legislativa dell'Unione.

Oltre a Breton, le sanzioni hanno colpito figure chiave della società civile europea come Anna-Lena von Hodenberg e Josephine Ballon (HateAid), colpevoli di fornire assistenza legale alle vittime di abusi online in Germania, Clare Melford (Global Disinformation Index), che ha analizzato i flussi finanziari pubblicitari che alimentano siti di disinformazione, Imran Ahmed (CCDH - Center for Countering Digital Hate), che con il suo centro ha smascherato più volte come gli algoritmi di X favoriscano contenuti antisemiti e d'odio. Elon Musk nel 2024 aveva già tentato, fallendo, di distruggere legalmente la CCDH con una causa: il giudice statunitense ha respinto il caso affermando che fosse 'evidente' che la X Corp di Musk non gradisse le critiche.

Siamo dunque anche oltre il piano istituzionale, ci troviamo di fronte a un attacco in piena regola contro la società civile. Un'azione intimidatoria contro chiunque provi a indagare sulla disinformazione di cui le piattaforme americane sono responsabili. 

Imran Ahmed, che tra l'altro possiede la residenza permanente negli Stati Uniti, ha deciso di citare in giudizio l’amministrazione Trump: l'atto giudiziario, depositato presso il distretto meridionale di New York, sostiene che Ahmed sia finito nel mirino a causa del lavoro della sua organizzazione nel monitorare le società di social media – inclusa X di Elon Musk – in violazione dei suoi diritti garantiti dal Primo Emendamento. Il caso ha tutte le potenzialità per diventare un simbolo della resistenza civile contro questa nuova politica degli Stati Uniti, che mira a colpire chiunque promuova regolamentazioni digitali (come il DSA europeo o l'Online Safety Act britannico) considerate "ostili" agli interessi americani.

La Commissione Europea e i governi di diversi Stati membri hanno respinto le accuse dell’amministrazione Trump, definendo la misura un atto ostile e una forma di intimidazione politica nei confronti delle istituzioni europee. Bruxelles rivendica la piena legittimità del proprio impianto normativo, sottolineando che il Digital Services Act non riguarda la libertà di opinione, ma la responsabilità delle piattaforme nella gestione di contenuti illegali, disinformazione e manipolazione online.

Leader e rappresentanti europei hanno condannato fermamente la decisione degli Stati Uniti, chiedendo chiarimenti alle autorità americane e avvertendo che, se necessario, l’UE risponderà in modo rapido e deciso per difendere la propria autonomia normativa.

La presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, è stata netta: “La libertà di parola è il fondamento della nostra democrazia europea, forte e vibrante. Ne siamo orgogliosi e la proteggeremo. L'Unione Europea non si lascerà intimidire mentre difende i propri cittadini e le proprie leggi democratiche”.

Emmanuel Macron ha definito i divieti "intimidazione e coercizione" contro la "sovranità digitale" europea, rivendicando che le regole Ue sono frutto di un processo "democratico e sovrano" e che lo spazio digitale europeo non deve essere deciso fuori dall’Europa.

Anche il governo britannico, pur non essendo nell’UE, ha dichiarato di sostenere la libertà di parola e l’impegno a mantenere Internet libero da contenuti dannosi, pur riconoscendo il diritto statunitense di gestire le politiche sui visti.

Il gruppo europarlamentare Socialisti e Democratici è tra quelli che ha attaccato più duramente: “Il divieto di visto imposto dagli Stati Uniti all’ex commissario Thierry Breton e ad attivisti digitali è scandaloso. Difendere la democrazia non è censura. La disinformazione non è libertà di espressione. L’Europa è e resterà autonoma nel definire le proprie leggi. Le piattaforme che operano qui devono rispettare le nostre regole democratiche”.

Una piccola nota di colore: il vice presidente italiano Matteo Salvini, la nostra bussola al contrario, si è distinto per essersi precipitato a dire che ha ragione Trump. Non avevamo dubbi. 

Se questo dunque è l’atteggiamento degli Usa nei nostri confronti, è arrivata l’ora di togliersi i guanti bianchi. Ed è quello che ha fatto l’europarlamentare Laura Ballarin, segretaria dell'Eurogruppo del PSOE a Bruxelles e membro della Commissione per il Mercato Interno e la Protezione dei Consumatori (IMCO), ovvero la commissione parlamentare che si occupa direttamente dell'applicazione del Digital Services Act (DSA) e del controllo sulle grandi piattaforme digitali:

“A Musk, Zuckerberg e compagnia: in Europa abbiamo un mercato di milioni di utenti che fanno guadagnare un sacco di soldi alle vostre aziende. Ma noi amiamo anche proteggere i nostri cittadini e le nostre democrazie legiferando. Se non vi piace, potete sempre prendervi il vostro saluto nazi e la vostra 'energia mascolina' e tornarvene a casa. Viva l'Europa. Ora più che mai!”

D’altra parte questo è solo l’ultimo dei tanti attacchi a testa bassa contro l’Europa da quando Trump è stato eletto di nuovo presidente. Prima il discorso del vicepresidente JD Vance a Monaco, poi le varie dichiarazioni di Trump contro l’Unione Europa e i suoi leader (“deboli” e “incapaci”), infine il nuovo documento di Strategia per la Sicurezza Nazionale da cui emerge chiaramente l’obiettivo di interferenza e ingerenza politica per distruggere l’Unione Europea dal di dentro appoggiando partiti di estrema destra sovranisti e populisti, che dovrebbero guidare nazioni vassalle degli USA anche in nome di una ideologia politica bigotta e reazionaria. Insomma gli Stati Uniti sono pronti a scatenare contro le istituzioni europee una vera e propria guerra culturale, “alleandosi” così di fatto con la stessa Russia di Putin. È l’Unione europea, infatti, con le sue istituzioni, il suo cammino, la sua storia e il suo sguardo verso un futuro sempre più unitario basato su stato di diritto e multilateralismo a costituire il nemico comune di Trump e Putin.

È in questo contesto più ampio di guerra ideologico-culturale che va inquadrata la vicenda della restrizione dei visti. Una decisione che potrebbe anche essere interpretata come una forma di ritorsione per la multa di 120 milioni di euro inflitta dalla Commissione Europea a X lo scorso 5 dicembre proprio per violazioni del DSA. Elon Musk ha reagito definendo la multa "assurdità" (bullshit) e arrivando a evocare il termine "Quarto Reich" per descrivere l'approccio regolatorio di Bruxelles. Poche ore dopo, X ha risposto bloccando gli account pubblicitari e istituzionali della Commissione Europea sulla piattaforma. Un atto di "guerra fredda digitale" senza precedenti.

Per cosa è stato multato Musk?

“1. Mancata rimozione di contenuti illegali. Post che incitavano alla violenza contro migranti, rimasti online per giorni. Immagini neo-naziste e narrazioni sul “genocidio bianco” spinte dagli algoritmi.
Picchi altissimi di odio antisemita e islamofobo dopo il conflitto Hamas-Israele. Utenti verificati (a pagamento) che pubblicavano appelli espliciti a “ripulire l’Europa” o “cacciare i musulmani”, senza intervento.
2. Disinformazione elettorale e interferenza statale: un’ondata di account falsi che imitavano partiti europei durante le elezioni 2024, operazioni riconducibili a cluster coordinati, non satira, reti di propaganda russa che raggiungevano il pubblico europeo con narrazioni anti-Ucraina, senza etichette di contenuto statale, nonostante ripetuti avvertimenti. Bufale virali su seggi elettorali, affluenza, e falsi “scandali di brogli”, rimaste online per giorni mentre altre piattaforme le rimuovevano in minuti. Deepfake di politici europei che X ha rifiutato di etichettare o declassare fino a quando non sono diventati virali.
3. Rifiuto delle obbligazioni di trasparenza. Il DSA richiede: trasparenza sugli algoritmi, audit indipendenti, piani di mitigazione dei rischi, accesso ai dati per i ricercatori, report su rimozione dei contenuti.
4. Il disastro Gaza–Ucraina. Durante varie crisi geopolitiche, X è risultata ultima per: rimozione di propaganda dannosa, etichettatura di disinformazione statale, rallentamento delle bufale virali, prevenzione di impersonificazioni.
Nel frattempo Musk condivideva personalmente account che diffondevano: numeri falsi di vittime, mappe di battaglia inventate, deepfake, complotti su governi europei”.
[Dean Blundell]

Non si può non vedere la crisi in atto come lo scontro fra due visioni opposte del rapporto tra democrazia, potere economico e spazio pubblico digitale. Da una parte, l’Europa rivendica il diritto e il dovere di regolare le piattaforme come attori politici e sociali, sottoponendole a regole comuni in nome dell’interesse collettivo. Dall’altra, abbiamo una concezione della libertà di espressione intesa come assenza di vincoli per i grandi attori privati, anche quando il loro potere influenza direttamente il dibattito democratico.

Siamo davanti a due modelli di civiltà digitale: uno fondato sull’idea che la democrazia debba governare la tecnologia, l’altro che tende a sacralizzare il mercato e le piattaforme come spazi “neutrali” (e sappiamo bene che non lo sono: abbiamo assistito alla deriva di X nelle mani di Musk a favore dell’estrema destra e a sostegno dell’elezioni di Trump e coinvolto poi direttamente nella sua amministrazione; abbiamo visto i broligarchi, che sono accorsi alla corte del nuovo presidente degli Stati Uniti, sposandone il suo approccio ideologico) sottratti a qualsiasi responsabilità pubblica.

E che lo scontro sia ideologico è chiaro dalla dichiarazione aggressiva, brutale e minacciosa pubblicata, guarda caso su X, dal segretario di Stato americano, Marco Rubio, martedì scorso: 

“Per troppo tempo, ideologi in Europa hanno guidato sforzi organizzati per costringere le piattaforme americane a punire punti di vista statunitensi che non condividono. L’amministrazione Trump non tollererà più questi gravi atti di censura extraterritoriale. Oggi il Dipartimento di Stato adotterà misure per impedire l’ingresso negli Stati Uniti ai principali esponenti del complesso censorio globale. Siamo pronti e disposti ad ampliare questa lista se altri non cambieranno rotta”.

Le misure adottate dagli Stati Uniti non arrivano dal nulla. Non dimentichiamo che ad aprile scorso, il governo degli Stati Uniti ha smantellato l’unità del Dipartimento di Stato che fino ad allora si era occupata di contrastare la disinformazione straniera, inclusa la propaganda russa. La decisione è stata motivata con l’accusa che tali attività rappresentassero un’ingerenza nella libertà di espressione. Allo stesso tempo, diversi organismi di sicurezza nazionale che monitoravano e contrastavano le operazioni di disinformazione e cyber-interferenza russe hanno sospeso le proprie attività, andando a colpire anche lo scambio di informazioni con le autorità di sicurezza europee su tali operazioni.

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Cosa potrebbe e dovrebbe fare l’Europa ora? Lo storico Anton Shekhovtsov suggerisce tre azioni concrete:

“Questa mossa scandalosa è stata chiaramente promossa dall’estrema destra americana, che costituisce una componente significativa dell’attuale amministrazione statunitense. L’Europa deve rispondere in tre modi: 1) Portare a termine l’indagine della Commissione Europea sulla mancata conformità di X al Digital Services Act dell’UE, in particolare per quanto riguarda la diffusione di contenuti illegali e l’uso di algoritmi opachi; 2) Imporre divieti di ingresso ai cinque più noti rappresentanti dell’oligarchia tecnofascista americana; 3) Costruire con urgenza una propria infrastruttura europea dei social media, fondata su trasparenza, autonomia delle comunità e interesse pubblico”.

Una cosa è certa: le restrizioni sui visti sono solo il "primo colpo" di una battaglia contro l'Europa che durerà per tutta l'amministrazione Trump.

Immagine in anteprima via heute.at

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