La Russia immaginaria di Alessandro Di Battista è la vera “russofobia”
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Paper First, casa editrice del Fatto Quotidiano, ha inaugurato da poco la collana SmartBook, “approfondimenti originali, pensati per chi vuole capire il mondo in modo rapido ma accurato”. La prima uscita è La Russia non è il mio nemico, di Alessandro Di Battista.
Il titolo richiama una recente campagna di manifesti pro-Cremlino, oggetto di interrogazioni parlamentari sul loro finanziamento, con conseguente rimozione da parte del Comune di Roma. Testa di ponte di quell’operazione nella capitale fu un ex dirigente del Movimento 5 Stelle romano. I manifesti furono affissi in almeno dieci città italiane: a Modena, Parma, Pisa, e Verona l’operazione fu rivendicata dall’associazione Sovranità Popolare.
Quella campagna, nel professare sentimenti di amicizia con la Russia, metteva sullo stesso piano la fornitura di armi a Israele e Ucraina, lavando via i crimini degli “amici”. Nel 2024 il primo paese era oggetto di un procedimento di fronte alla Corte Internazionale di Giustizia (caso Sudafrica contro Israele), e pendeva la richiesta della Corte Penale Internazionale di un mandato di cattura verso il suo premier e il ministro della Difesa (oltre che verso i tre leader di Hamas responsabili degli attacchi del 7 ottobre 2023).
La stessa Corte Penale Internazionale ha emesso mandati di cattura per Vladimir Putin, la ministra per l’Infanzia Maria Lvova Belova e due alti vertici militari russi; non ne ha mai richiesti né emessi verso esponenti del governo o dell’esercito ucraino. Mentre la Corte Internazionale di Giustizia ha richiesto alla Russia il ritiro delle truppe. La campagna dei manifesti tracciava un’equivalenza morale senza considerare le basi del diritto internazionale, chiedendo di fatto di lasciare l’Ucraina in balia dell’invasore, in nome dell’amichettismo internazionale.
Il libretto di Di Battista è la prosecuzione ideale di quei manifesti, ma con altri mezzi espressivi. La brevità del testo e il suo ancorarsi rabbioso all’attualità farebbero pensare a un pamphlet. Una volta letto, la quantità di sciocchezze che riesce a condensare, unita alle manipolazioni di fatti piegati a tesi pre-confezionate, ne fa invece un testo utile a capire come funziona un certo tipo di propaganda, e quali danni può produrre per chi eleva certe figure a paladini di nobili cause. Del resto la vicinanza di Di Battista con il Cremlino viene da lontano, almeno da quando era nel Movimento 5 Stelle e fece parte della delegazione che incontrò Russia Unita. Di ritorno da quell’incontro, depositò una proposta di legge per far uscire l’Italia dalla NATO.
Di cosa parliamo in questo articolo:
La Russia come Fantasylandia
Alessandro Di Battista costruisce La Russia non è il mio nemico come un contro-racconto. La tesi è che l’Europa è “bombardata” da un clima russofobico, perciò conoscere la Russia “reale” per capirne la storia, le ragioni, perfino “quel che passa nella testa dei russi”. Nel libro questa promessa torna più volte: basterebbe conoscere la Storia per smontare l’allarme, riconoscere che un Occidente con la bava militarista alla bocca “provoca” e che le istituzioni internazionali applicherebbero due pesi e due misure.
La Russia di Di Battista è una Fantasylandia dove tutti sono felici e il male è una forza esterna. Le descrizioni paesaggistiche sembrano prese da un sito turistico a basso budget. Vorrebbero suscitare meraviglia e fratellanza, ad esempio evidenziando che Mosca ha sette colli, proprio come Roma. Non esiste una vera e propria cultura russa, ma un’essenza immutabile nella storia, tutto sommato pacifica: “Non fa parte del dna russo invadere e conquistare territori a meno che non siano abitati da russi”.
Una sciocchezza che lava via invasioni e pulizie etniche compiute dalla Russia e dall’Unione Sovietica. Una sciocchezza che però viene dritta dritta dalla propaganda del Cremlino: nel 2022 il portavoce di Putin, Dmitry Peskov, disse in un’intervista alla TV di Stato che “La Russia non ha mai attaccato nessuno nel corso della sua storia”. Ma è un tormentone che non nasce certo in quell’occasione.
Di Battista annacqua la versione del Cremlino, la localizza per il pubblico italiano. Qualcosa la Russia ha invaso, ma c’erano di mezzo popolazioni russe, quindi era un’invasione giustificata, l’unica eccezione, l’Afghanistan invasa dall’Unione Sovietica, ha fatto passare la voglia di sgarrare a suon di 25mila morti. Continua infatti Di Battista:
E questa convinzione è ancora più forte in virtù dei fallimenti registrati quando, in epoca sovietica, i russi hanno messo piede in territorio straniero. Gli oltre 25.000 soldati dell’Armata rossa morti durante la disastrosa guerra in Afghanistan sono un ricordo ancora vivo nelle menti dei russi.
Anche annacquata, l’opera di revisionismo resta tale. Cito solo alcuni esempi: la Guerra di Crimea nell’Ottocento, l’invasione della Polonia e della Finlandia nel 1939, di Lituania, Lettonia ed Estonia nel 1940, della Manciuria nel 1945, dell’Ungheria nel 1956 e della Cecoslovacchia nel 1968, della Cecenia (nel 1994 e nel 1999) e della Georgia nel 2008. A queste guerre bisogna poi aggiungere il genocidio dei circassi e la pulizia etnica dei tatari.
A Di Battista certe distinzioni servono per mettere in contiguità le fantomatiche guerre a tutela dei “russi”, e quindi anche la presente invasione dell’Ucraina. Roba della Russia, non dell’Europa. Una versione cui non crede nemmeno più Putin, che intervistato da una giornalista indiana nei giorni scorsi ha persino fatto fatica a rispondere a una domanda sul perché il suo esercito avesse bombardato e massacrato quegli ucraini che parlano russo, hanno parenti in Russia e viaggiano in Russia. Da questo punto di vista, è più apprezzabile Carlo Rovelli, il quale, evidentemente accecato dall’amore, propina sul Corriere la stessa manfrina:
L’Europa non ha ragione di avere paura della Russia, che da sempre non cerca altro, talvolta in maniera troppo brusca e scomposta, certo, che un modo di essere invitata a tavola e non essere schiacciata. [...] La Russia è stata ripetutamente attaccata e invasa dall’Europa nella storia [...] e non ha mai attaccato l’Europa.
Questo impianto discorsivo occulta l’autonomia decisionale (nessuno obbliga a invadere, a commettere pulizie etniche o genocidi) e le responsabilità (se invadi, compi pulizie etniche e genocidi, ne devi rispondere), usando di volta in volta tratti essenziali come il “dna” o “l’animo russo”.
La “fantasylandia” si vede bene anche nel modo in cui il libro racconta lo sguardo del Sud globale. Nelle pagine sulla RUDN (l’Università russa dell'amicizia tra i popoli) gli studenti congolesi diventano prova vivente che l’imperialismo russo sarebbe una paranoia europea: “nessuno di loro ritiene la Russia un paese spiccatamente imperialista”. Pazienza se, proprio nell’est della Repubblica Democratica del Congo, la parola “russi” è già un’etichetta elastica che copre mercenari dell’Est Europa presenti sul terreno e, sullo sfondo, l’idea di Mosca come potenza pronta a “intervenire”, mentre il Cremlino lavora anche su canali istituzionali, come l’ipotesi di un accordo di cooperazione militare con Kinshasa.
Il “non imperialista” viene raccontato mentre si prepara un copione già visto altrove, dove l’offerta di sicurezza e addestramento apre la porta all’influenza politica e all’accesso alle risorse. Ma se lo fa la Russia, par di capire, smette di essere colonialismo e diventa rivoluzione. Del resto è in nome della lotta contro la “repressione neocoloniale” che Niger, Mali e Burkina Faso, tre regimi che hanno tratto giovamento da questi “pacchetti” di sopravvivenza, hanno annunciato il ritiro dalla Corte Penale Internazionale.
Leaderismo: popolo, leader e riti come identità unica
Nonostante Di Battista concioni come uno Jacopo Ortis del campismo, la lettura essenzialista del popolo russo ha come proseguimento naturale l’identificazione con il leader. Senza uno sguardo critico, la Russia non può che coincidere con le cerimonie ufficiali sorte per riscrivere la storia, come nel caso della Grande Guerra Patriottica e nell’occultamento delle complicità sovietiche. Nel descrivere La Madre Patria chiama!, la statua sulla collina di Mamaev Kurgan, Di Battista comprime ad esempio culto della patria, culto del capo e propaganda anti-ucraina:
Il Mamaev Kurgan è un luogo sacro per tutti i russi, non soltanto per i nostalgici dell’Unione Sovietica, per i nazionalisti più estremi o per i sostenitori di Putin, i quali, piaccia o meno, sono la maggioranza. Al Mamaev Kurgan salgono i giovani, gli anziani, gli ultimi veterani. C’è chi porta i bambini, magari pronipoti di un eroe o di un’eroina di guerra. A Stalingrado furono migliaia le donne che si distinsero in battaglia; non erano solo staffette e infermiere, erano cecchini, carristi, fanti, aviatori. C’è chi sale le scale indossando una maglietta con la z, il simbolo dell’Operazione speciale in Ucraina, chi piange durante il cambio della guardia e chi deposita un garofano rosso sulla tomba di Čujkov, l’uomo dalla volontà di ferro, l’unico maresciallo dell’urss seppellito al di fuori di Mosca.
I cerimoniali di regime e il consenso per il leader sono dati naturali. Se quest’ultimo è presentato in negativo, è per responsabilità altrui: “Basterebbe conoscere la Storia della Russia, quantomeno la storia degli ultimi due secoli, per capire che le continue provocazioni da parte occidentale [...] non fanno altro che compattare il popolo russo intorno ai suoi leader”.
In questa cornice, i russi che non coincidono con la mistica popolo-Madre Patria-Leader spariscono. siti come Mediazona, creato dalle co-fondatrici delle Pussy Riot, giornali come Novaya Gazeta. Le pagine di Anna Politkovskaja su Putin e la Cecenia, o il dossier del politico di opposizione Boris Nemcov sulle intenzioni del regime di invadere l’Ucraina. L’organizzazione Memorial, costretta all’esilio e presente anche in Italia. Nella Russia reale, cioè quella verificabile tra le maglie della censura e dei dati difficilmente reperibili, questi campioni di verità e giustizia esistono o sono esistiti. In quella “amica” di Di Battista no. Come si può “capire quel che passa nella testa dei russi” e allo stesso tempo cancellare sistematicamente quei russi che non entrano nell’identikit popolo-leader?
Immaginate un Alexandre Di Baptiste che dalla Francia scrive un libro sull’Italia, adottando solo e soltanto la prospettiva del governo attualmente in carica. Filtrando quindi eventi storici come il colonialismo, il fascismo o il terrorismo nero alla luce di cosa pensano i vari Meloni, Gasparri o La Russa; attraverso quel revisionismo sulle foibe volto a presentarci come vittime da riscattare durante la Seconda Guerra Mondiale; ignorando completamente ogni organizzazione o voce autorevole della società civile. Cosa pensereste di un autore così? Direste come minimo che è un pennivendolo.
Se la storia russa è manifestazione del suo destino, tutto ciò che osa opporsi a essa è un’aberrazione. Naturale quindi che, lontano dal leaderismo e senza nemici utili alla causa, il popolo per Di Battista meriti diffidenza o disprezzo, senza autonomia di azione. Ecco quindi che l’Ucraina è un paese corrotto, nazista, e le rivolte del 2014 sono “un golpe”. Sono andati al potere i militari, è stata riscritta la Costituzione con i fucili puntati? No, si sono avute elezioni regolari. Ma Viktor Yanukovych era un leader filo-russo, e tanto basta. Ci sono stati morti? Sì, e sono fatti che vanno valutati per avere la comprensione esatta di cosa è successo, non per confermare una tesi sballata.
Gaslighting sulla guerra ibrida e cospirazionismo sul riarmo: la politica come sospetto permanente
Una terza chiave di lettura riguarda gli episodi “opachi”, dove l’incertezza nell’attribuire responsabilità è parte integrante della strategia d’azione, come per la guerra ibrida e le azioni di sabotaggio. Qui la retorica sfocia nel gaslighting: se un episodio non è dimostrato al 100% nell’immediato, allora la sua sola menzione sarebbe propaganda; e se un’istituzione prende una decisione nel dubbio (per sicurezza, deterrenza o prudenza), quella decisione diventa “russofobia”. Gli errori sono ovviamente la pistola fumante per poter dire “visto? Avevo ragione”. Si contesta il diritto stesso di collegare episodi e responsabilità quando l’attribuzione non è immediata o pubblicamente dimostrabile.
Così le interferenze del GPS sull’aereo di Ursula von der Leyen, o gli sconfinamenti di droni del 10 e 13 settembre 2025 diventano fake news create per giustificare la corsa al riarmo. Pazienza se i casi attribuiti dal 2022 sono circa un centinaio, tra cui l’uccisione di un disertore e il tentato avvelenamento di una giornalista russa rifugiatasi in Germania per evitare persecuzioni. Pazienza per gli allarmi delle agenzie di intelligence di almeno dieci paesi europei: poiché non ci si può fidare di loro, essendo parte di una cospirazione al riarmo, quegli allarmi vanno ignorati. Intanto droni non identificati continuano a violare i cieli europei: a Di Battista non preme dare una spiegazione, a meno che non passi per lo screditare le istituzioni chiamate a spiegare cosa sta succedendo.
Il suo scetticismo viene meno quando deve infatti denunciare non le responsabilità, ma il male incarnato dall’Ucraina e dall’Occidente. Il sabotaggio del Nord Stream è presentato come un’azione compiuta da ucraini “supportati presumibilmente dai servizi segreti occidentali a cominciare dalla cia”. Per il momento però, le ricostruzioni più attendibili, tra cui una del Wall Street Journal, non menzionano affatto questo coinvolgimento; a dare responsabilità piena agli Stati Uniti fu l’inchiesta fuffa di Seymour Hersh, che è stata proprio smentita dalle indagini successive. Il WSJ fa inoltre presente che tanto la CIA quanto Zelensky avrebbero provato a fermare il piano. Ma siccome, all’opposto di Putin, Zelensky è presentato da Di Battista come un cattivo della Spectre e l’Ucraina come un burattino degli Usa (almeno con Biden), questo elemento svanisce, togliendo ogni possibilità di ricostruzione e comprensione dell’accaduto.
Ma anche qui il punto focale è l’apologo morale per screditare:
Cosa avrebbero detto e fatto giornalisti e politici se fosse stato Valerij Vasil’evič Gerasimov, il Capo di stato maggiore generale delle Forze armate russe, a guidare il sabotaggio di due gasdotti nel cuore di un mare europeo?
In realtà questa domanda è aperta sulla pagina, ma ampiamente chiusa nella storia degli ultimi decenni. La Russia ha potuto infatti invadere paesi, abbattere aerei civili come il volo MH17, compiere o tentare assassini in territorio europeo, e l’ha fatta sostanzialmente franca. Le prime timide reazioni si sono avute nel 2014, con l’invasione della Crimea. Se c’è una lezione che avremmo dovuto apprendere, e una domanda che avremmo dovuto porci, è piuttosto: cosa deve fare Putin perché venga preso sul serio come minaccia, deve davvero mandare i fantomatici carri armati a Lisbona, su cui i troll pro-Cremlino scherzano?
Il diritto internazionale come pretesto
Il trattamento del diritto internazionale nel libro è coerente con lo schema visto finora: non viene usato come una grammatica comune di civiltà, ma come arma comparativa. La legge dell’uomo è una farsa, non restano che aderire alla nostra legge morale e alle nostre passioni: dunque l’odio e l’indignazione per il male sono i sintomi di chi è dalla parte giusta della storia.
Il Di Battista che invita a non essere “russofobici” è lo stesso che su Facebook usa l’appellativo “bestie di Satana” per gli ebrei israeliani e per i sionisti. Un tropo antisemita di lungo corso. Israele incarna quindi un male metafisico (ancora l’essenzializzazione) e le foto di bambini morti o denutriti ne sono il tratto manifesto, non il prodotto di azioni umane per cui esistono responsabili che devono risponderne. Perciò l’accusa di genocidio è evocata come sintomo del male e delle passioni che deve suscitare, non come una possibilità di giustizia attraverso la civiltà del diritto. Se possiamo pensare la parola “genocidio”, se possiamo anche solo provare a chiedere giustizia per chi lo compie, lo dobbiamo a un avvocato, Raphael Lemkin, che ha coniato il concetto giuridico proprio per perseguire i responsabili del crimine più grave che gli esseri umani possono compiere.
Questa relativizzazione la vediamo in un passaggio del libro sugli atleti israeliani, russi e bielorussi, partendo dal 2014. Anno in cui la Russia invade la Crimea, ma anche anno in cui ospita le Olimpiadi invernali di Soči:
Nel 2014, quando Soči ospitò i XXII Giochi olimpici invernali, fu la Russia, con trenta medaglie, ad arrivare prima nel medagliere. I progressi in tal senso da parte degli atleti russi non potranno essere valutati nei prossimi giochi olimpici. Il 21 ottobre 2025, infatti, la fis (Federazione internazionale sci) ha deciso di escludere gli atleti russi e bielorussi dalle Olimpiadi di Milano e Cortina. Non potranno gareggiare neppure a titolo neutrale (senza bandiera per intenderci) come avvenne a Parigi 2024. Gli atleti israeliani, anche quelli che hanno fisicamente partecipato al genocidio a Gaza o quelli che hanno inneggiato pubblicamente allo sterminio dei palestinesi, gareggiano ovunque e sotto la bandiera con la Stella di David. Ai russi e bielorussi tuttavia è stato riservato un altro trattamento e questo nonostante la Federazione Russa, a differenza di Israele, non sia alla sbarra per genocidio presso la Corte internazionale di giustizia, l’organo giudiziario principale delle Nazioni Unite.
Israele per Di Battista non è oggetto di analisi: è un dispositivo retorico e un’incarnazione del male. Serve a produrre due effetti simultanei: 1) spostare il fuoco morale (“guardate il doppio standard”), 2) ricollocare Russia e Bielorussia sul lato delle vittime (“russofobia”), fino a far discendere da quella presunta ingiustizia perfino la credibilità interna di Putin. È un uso selettivo non tanto perché comparare sia sempre scorretto, ma perché la comparazione è costruita per delegittimare le sedi di accertamento o strumentalizzarle; non sono infatti considerate un terreno comune di regole.
Non ci sono foto di bambini ucraini uccisi o rieducati a forza, sulla pagina Facebook di Di Battista, anche perché il mandato di cattura della Corte Penale Internazionale per Putin riguarda proprio la loro deportazione. Non c’è nessun interesse per tutelare o rafforzare quelle istituzioni per cui dovrà per forza di cose passare qualunque processo volto ad assicurare giustizia, se mai sarà possibile averla. Ciò è in linea con gli amici della Russia, che proprio in questi giorni hanno condannato in contumacia a 15 anni di carcere Rosario Aitala: è il magistrato della Corte Penale Internazionale che aveva chiesto il mandato di arresto per Putin. Condannato insieme ad altri otto magistrati della CPI, a lui è toccata la pena più dura.
Al suo lettore Di Battista chiede un patto morale che è fondato sull’amicizia con la Russia - altrimenti si è “russofobi” - e sulla demonizzazione (e non per modo di dire) di Israele. Non c’è rischio di antisemitismo in questo caso, poiché si tratta di un odio moralmente giusto; e se nel mondo si verificano attentati antisemiti, si può sempre puntare il dito contro Netanyahu e lo “Stato genocidia”. Su quale sistema di valori si fonda questo patto? Non sull’orrore per il delitto, né su valori universali. Altrimenti le fosse comuni di Bucha e Izyum, così come le macerie di Mariupol, ci obbligherebbero a odiare la Russia e a razionalizzare attentati contro cittadini russi. Può quindi fondarsi solo sul relativismo, proprio mentre pretende di denunciare quello che corrompe il mondo.
La denuncia-feticcio dell’industria delle armi
Di Battista scrive: “la verità è che i vertici della Nato e dell’Unione europea utilizzano lo spauracchio russo (…) per giustificare (…) la più grande operazione di speculazione finanziaria della storia recente”. E ancora: “principali investitori istituzionali delle principali fabbriche di armi del pianeta sono tutti fondi finanziari”. In mezzo, l’appello al sospetto come postura politica.
Questa tesi è in sostanza sostenuta da una buona fetta di intellettuali collocati a sinistra, e nutre anche parte dei movimenti e delle sigle che hanno manifestato negli scorsi mesi e anni in nome della “pace”, convinte che occorra fermare il “Complesso militare-industriale” nel suo insieme e che ci sia una deriva "bellicista".
Così, invece di discutere su come regolamentare e assolvere una funzione di fondo, la difesa di uno Stato e della sua popolazione, ci si appoggia su 3 postulati che si sostengono a vicenda senza bisogno di dimostrazione: 1) non c’è nessuna minaccia per gli Stati Europei; 2) la vera minaccia viene dall’industria militare occidentale e dal suo intreccio con la politica; 3) questa minaccia può provocare una guerra con altri paesi.
Questa costruzione ha un problema di fondo: sostituisce la discussione (regole, trasparenza, conflitti d’interesse, controlli democratici) con una condanna morale a priori. Nega l’importanza stessa del concetto di difesa. Come se, per contrastare le speculazioni dell’industria farmaceutica, ruberie o irregolarità, si cercasse di bloccare in toto la produzione di medicinali. Verrebbe meno la possibilità di garantire i sistemi sanitari, oppure si avvantaggerebbero le industrie farmaceutiche considerate “non occidentali”.
Viene inoltre negata qualunque autonomia decisionale a paesi come Russia, Cina, Iran, Corea del Nord, alle loro mire (come Taiwan o Corea del Sud) e ai complessi dell’industria militare non riconducibili al discorso critico sull’occidente. È prima di tutto un difetto di campo di osservazione. Da notare, infatti, come l’onnipresente paura per “l’escalation atomica” in Ucraina non si sia manifestata quando paesi dotati di armi atomiche come Pakistan e India si sono scontrati nell’ultimo anno.
Qui si vede il nucleo propagandistico di Di Battista. Secondo uno schema che abbiamo già visto nel Movimento 5 Stelle delle origini (e di cui conosciamo gli effetti disastrosi, ormai) l’informazione diventa una lotta tra “inermi cittadini” ed “élite” che manipolano, i fatti diventano sospetti in base a chi li espone, l’etica diventa appartenenza (“noi” puri contro i pennivendoli, i servi, i bellicisti, i russofobici). È una struttura che chiede al pubblico di riconoscersi e usa le emozioni e i nemici come tratto identificativo. Dimmi per cosa ti indigni e ti dirò chi sei.
Per questo la critica seria all’industria delle armi non può essere un atto di fede distruttivo. Deve essere, al contrario, una politica pubblica: regole su appalti e trasparenza, limiti ai conflitti d’interesse, controlli sulle esportazioni, tracciabilità dei contratti, vincoli democratici sulle scelte strategiche, responsabilità politica esplicita. Se non lo fai, non stai “combattendo la speculazione”: stai semplicemente scegliendo di vivere in un mondo dove vince chi è più armato e meno vincolato da regole, occupandoti di una parte soltanto.
Il 40% di budget destinato dalla Russia per le spese militari e la polizia, come viene affrontato da chi professa queste idee? Col pensiero che smantellando l’industria militare europea, l’anno successivo il budget militare della Russia diventerà un bugdet di pace? Siamo al di sotto persino della soglia del pensiero magico. Se l’Ucraina dovesse capitolare, grazie anche al successo di tutte quelle campagne che hanno propugnato attivamente lo stop di aiuti militari, in un mondo di pesci feroci che mangiano i pesci piccoli che lezioni si trarrà? Che la pace è possibile se non si combatte? I pesci piccoli inizieranno piuttosto a pensare che l’Ucraina non avrebbe mai dovuto rinunciare alle armi atomiche negli anni Novanta, e da lì si regoleranno.
Gli intellettuali che gettano via la maschera pacifista
C’è un motivo se i libretti come quello di Di Battista hanno trovato spazio ora. È lo stesso motivo per cui Il Fatto Quotidiano ha pubblicato un imbarazzante reportage da Minsk di Angelo D’Orsi, invitato a un festival di cinema organizzato da Russia Today, in cui, di un paese che ha circa 1200 prigionieri politici, si legge:
Si dice, da noi, che la Bielorussia appartenga alle "autocrazie", contigua geograficamente e politicamente alla Federazione Russa, dominata dal "dittatore" Lukashenko (al potere dal 1994 sempre confermato in regolari elezioni, regolarmente contestate da Usa e Ue).
È lo stesso motivo del già citato editoriale di Rovelli sul Corriere, o dei continui elogi funebri che Donatella Di Cesare dedica su Facebook all’Ucraina e a Zelensky, o dell’intervista in cui Moni Ovadia elogia Putin “grandissimo statista”. Questo motivo è la vittoria di Trump. Il quadro internazionale sta spingendo verso un’idea di “pace” come resa negoziata a condizioni imposte, e verso un ordine multipolare dove è il puro dominio delle superpotenze a garantire ordine. "Non è sempre stato così?", domanda il campista convinto che le istituzioni sovranazionali siano lo strumento del capitale, scoprendo di avere molte cose in comune con il militante di estrema destra, che odia il debosciato multiculturalismo liberale. I tempi sono maturi, quindi, per gettare la maschera: invece di scommettere contro l’Ucraina in nome della “pace” e lanciando strali contro gli Stati Uniti, si invoca direttamente la resa dell’Ucraina accusando l’Unione Europea e un Occidente dove Trump è visto persino come pacificatore. Rovelli è esplicito:
Oggi l’ideologia si chiama «democrazia», una parola vuota, ripetuta alla nausea, ridotta solo a coprire la feroce determinazione dell’Occidente ricco a difendere il proprio privilegio storico. Ma una determinazione miope, più che feroce, perché il ribilanciamento economico è già avvenuto, e l’Occidente è a un bivio storico: scatenare l’inferno per cercare di preservare ancora per un po’ il dominio militare e politico sul mondo. Oppure accettare il multilateralismo, le legittime aspirazioni di vastissime aree del pianeta a seguire la loro strada, culturale e politica, senza piegarsi al volere occidentale.
Naturalmente il fascismo reale (cosa ben diversa dall’onanismo delle simbologie autoriferite) non fa differenze di questo tipo. La “pace” che abbiamo visto a Gaza è la stessa che si vuole imporre in Ucraina; un business al servizio del più forte. I fascisti possono andare al potere anche nel sud del mondo, stabilire gerarchie di privilegiati, scatenare inferni. Ma del resto Carlo Rovelli è lo stesso che descrive Hamas come un movimento che “rifiuta la persecuzione di qualsiasi essere umano”, mostrando così cosa pensa davvero dei palestinesi: un’astrazione arruolabile per le proprie guerre ideologiche. Così come è lecito dubitare che ad Angelo D’Orsi interessi quanto può essere difficile organizzare uno sciopero o una manifestazione di protesta a Minsk. E cosa ha da dire una Donatella Di Cesare sulle decine di migliaia di bambini ucraini deportati e “russificati”? Nulla, poiché quella realtà non si intona con i suoi proclami di pace e le brutture dell’Unione Europea guerrafondaia.
Questi intellettuali sono accomunati da un difetto di scopo e dal rifiuto della modernità; nel presente, infatti, si prendono le decisioni e ci si misura con le conseguenze, dunque mettendo in conto anche compromessi. Non sono interessati ad aumentare l’agency, e quindi a redistribuire effettivamente il potere. Sono interessati a un ruolo sociale che garantisca loro l’esercizio di una postura morale e un pubblico pronto ad ammirare. Non esistono teatri anche nei regimi, in fondo? È una grammatica perfetta per ammantare l’espansione autoritaria e per liquidare come ideologia proprio le regole e le istituzioni che dovrebbero proteggere i più deboli quando i forti decidono di prendersi tutto.
(Immagine anteprima: frame via YouTube)








Federico
Scusate la brutalità, ma mettersi a dedicare tutto questo spazio alle fregnacce di questo qua significa dargli importanza. Va ignorato.
Matteo Pascoletti
Capisco l'obiezione, è un dubbio che mi pongo sempre in questi casi. Ma data l'operazione editoriale, dato il fatto che la persona in questione la troviamo in tivù e nei principali eventi in giro per il paese, e dato che le sue posizioni sono ampiamente condivise o amplificate da altri soggetti nel paese che a loro volta hanno grandissima visibilità e spazi, affrontare quello che dice è paradigmatico (da qui anche l'ultima parte dell'articolo).
Fabio Sangiovanni
Se fosse uno sconosciuto Cetto La Qualunque, probabilmente, ignorarlo sarebbe la cosa migliore, ma considerando l'esposizione mediatica del nostro"eroe", una confutazione del suo pensiero è più che necessaria. Ben vengano articoli come questo e siti come Valigiablu.
R
Articolo eccellente. Lo spammo a tutti quelli che conosco
Matteo Pascoletti
Grazie!
Cleme
La vostra analisi è perfetta! Grazie di cuore!