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Conflitto in Yemen e violazioni dei diritti umani: minacce e pressioni dell’Arabia Saudita contro l’indagine delle Nazioni Unite

5 Dicembre 2021 6 min lettura

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Conflitto in Yemen e violazioni dei diritti umani: minacce e pressioni dell’Arabia Saudita contro l’indagine delle Nazioni Unite

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Secondo quanto rivelato dal Guardian l'Arabia Saudita avrebbe avuto un ruolo chiave nella chiusura dell'indagine indipendente condotta dalle Nazioni Unite sulle violazioni dei diritti umani commesse da tutte le parti coinvolte nel conflitto in Yemen.

Attraverso l'uso di incentivi economici e minacce le autorità del regno hanno fatto pressione su alcuni Stati affinché la risoluzione promossa dai Paesi Bassi, votata il 7 ottobre dai membri del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite (HRC), che avrebbe prorogato l'indagine di ulteriori due anni, fosse bocciata.

Il voto negativo ha segnato la prima sconfitta di una risoluzione nei 15 anni di storia dell'organo che ha sede a Ginevra.

«Con questo voto, le Nazioni Unite hanno abbandonato la popolazione dello Yemen, tuttora vittima di una delle peggiori crisi umanitarie del mondo. Le pressioni di Arabia Saudita, Bahrein ed Emirati Arabi Uniti hanno avuto successo. Ma chi ha votato contro il rinnovo del mandato del Gruppo di eminenti esperti o si è astenuto dovrà vergognarsi», aveva dichiarato all'indomani del votazione Heba Morayef, direttrice di Amnesty International per il Medio Oriente e l’Africa del Nord.

Anche Radhya al-Mutawakel, presidente del gruppo indipendente yemenita Mwatana per i diritti umani, si è detta profondamente delusa dal voto contrario al rinnovo del mandato poiché sancisce l'abbandono del popolo yemenita e il via libera alle parti coinvolte nel conflitto di continuare la campagna di morte e distruzione.

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Funzionari politici, fonti diplomatiche e attivisti con una conoscenza diretta di quanto accaduto nelle fasi precedenti al voto hanno descritto al Guardian come, attraverso una campagna di lobby gestita sottotraccia, i sauditi abbiano influenzato i funzionari di determinati paesi per assicurarsi la sconfitta del provvedimento.

Riyadh avrebbe infatti avvertito l'Indonesia che la sua popolazione avrebbe avuto difficoltà per recarsi alla Mecca – con il mancato riconoscimento dei certificati di vaccinazione indonesiani contro la COVID-19 – se i funzionari non avessero votato contro la risoluzione mostrando così – secondo le dichiarazioni di un osservatore – quanto i sauditi fossero disposti anche a “strumentalizzare” l'accesso a un luogo sacro pur di raggiungere il proprio obiettivo.

Allo stesso modo, negli stessi minuti in cui funzionari del suo paese esprimevano il voto contrario alla risoluzione, il ministro degli Esteri togolese, in visita ufficiale a Riyadh, annunciava l'apertura di una nuova ambasciata nella capitale del regno e il sostegno economico del Centro internazionale per la lotta al terrorismo con sede in Arabia Saudita per attività di prevenzione.

Nel 2020 sia l'Indonesia che il Togo si erano astenuti alla votazione sulla stessa questione. Questa volta entrambi hanno votato contro.

La risoluzione è stata bocciata con una maggioranza di 21 a 18 e l'astensione di sette paesi. I membri dell'HRC che hanno espresso voto contrario sono Bahrein, Bangladesh, Bolivia, Burkina Faso, Cina, Cuba, Eritrea, Gabon, India, Indonesia, Libia, Mauritania, Pakistan, Filippine, Russia, Senegal, Somalia, Sudan, Togo, Uzbekistan, Venezuela.

Nel 2020, la delibera era stata approvata con 22 voti favorevoli e 12 contrari, con l'astensione di 12 membri.

«Quel genere di oscillazione – da 12 no a 21 – non accade per caso», ha detto un funzionario.

John Fisher, direttore di Human Rights Watch Ginevra, ha dichiarato che si è trattato di un voto molto serrato e che l'Arabia Saudita, i suoi alleati di Coalizione e le autorità dello Yemen riconosciute a livello internazionale stavano lavorando da tempo per persuadere gli Stati, attraverso un mix di minacce e incentivi, ad accettare le loro offerte per porre fine al mandato che avrebbe proseguito il monitoraggio internazionale.

«La fine del mandato è un duro colpo ai fini dell'attribuzione delle responsabilità di quanto accade nello Yemen e per la credibilità del Consiglio per i diritti umani nel suo insieme. La bocciatura di una risoluzione a causa di una delle parti coinvolte nel conflitto che non ha nessun motivo per farlo se non quello di eludere il controllo per evitare di essere accusata di crimini internazionali è una farsa», ha spiegato Fisher.

La creazione di un team di esperti era stata votata per la prima volta dall'HRC nel 2017, due anni dopo l'inizio del conflitto tra la Coalizione guidata dall'Arabia Saudita, intervenuta a sostegno del governo yemenita riconosciuto a livello internazionale, e i ribelli Houthi. Il gruppo avrebbe indagato sulle possibili violazioni del diritto umanitario e dei diritti umani commesse durante la guerra.

Secondo i dati forniti dalle Nazioni Unite lo scorso dicembre sono più di 233.000 le vittime del conflitto di cui 131.000 morte per cause indirette come mancanza di cibo, servizi sanitari e infrastrutture e 4 milioni sono le persone sfollate. Il paese da anni è sull'orlo della carestia. L'80% dei 29 milioni di abitanti del paese deve la sua sopravvivenza agli aiuti umanitari.

L'Arabia Saudita, che non è membro votante dell'HRC, inizialmente ha sostenuto lo svolgimento dell'indagine.

Nel corso degli anni, però, i rapporti presentati dagli esperti – noti come il Gruppo di eminenti esperti sullo Yemen (Group of Eminent Experts on Yemen – GEE) – sono diventati sempre più compromettenti.

Nel 2020, il GEE ha raccomandato per la prima volta alla comunità internazionale di concentrare la propria attenzione sulle responsabilità di chi avrebbe commesso potenziali crimini di guerra. Tra le cinque raccomandazioni c'era la richiesta di deferire la questione al procuratore della Corte penale internazionale.

Una persona che ha seguito da vicino l'evoluzione di questa situazione ha dichiarato al Guardian di ritenere che proprio quello sia stato il momento in cui la Coalizione saudita si è resa conto che “si stava davvero andando troppo oltre”.

Durante i colloqui che hanno preceduto la votazione del 7 ottobre nessuno dei paesi che avrebbe poi cambiato voto dall'astensione al “no” aveva sollevato obiezioni alla risoluzione, che differiva dalla versione del 2020 in un unico aspetto: l'estensione del mandato a due anni invece di uno.

I “campanelli d'allarme” hanno iniziato a suonare a una settimana dal voto quando i sostenitori della risoluzione si sono resi conto che la campagna saudita “era molto diversa dagli anni precedenti”.

A differenza di quanto generalmente avviene le intenzioni di voto non erano state rese note neanche informalmente. Alcuni paesi membri, infatti, avevano evitato di condividere la loro posizione, atteggiamento che i sostenitori hanno interpretato come un segnale preoccupante della forte pressione subita.

«Vincere questa battaglia a spese del popolo yemenita è terribile. Quanto è accaduto, tra l'altro, rappresenta un caso da manuale per altri paesi come Russia e Cina che potrebbero silurare qualunque altra indagine. Ciò che è successo ha davvero scosso tutti nel profondo», ha detto una persona coinvolta nella questione.

I paesi membri dell'HRC restano in carica per un periodo di tre anni. Di quelli votanti sia nel 2020 che nel 2021, quattro hanno cambiato il loro voto dall'astensione al “no”: Bangladesh, Indonesia, Senegal e Togo.

Guarda caso una settimana dopo il voto del 7 ottobre, gli Emirati Arabi Uniti, alleati dell'Arabia Saudita nel conflitto in Yemen, hanno invitato il Senegal a firmare un memorandum d'intesa per istituire un Consiglio d'affari congiunto con l'obiettivo di “incrementare la cooperazione” tra i “due paesi amici”.

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Intanto una coalizione formata da più di 60 ONG e associazioni ha chiesto ufficialmente all'Assemblea generale delle Nazioni Unite di intervenire rapidamente per istituire un meccanismo investigativo che raccolga e preservi le prove delle gravi violazioni dei diritti umani e del diritto umanitario commesse nello Yemen. Il mancato intervento rappresenterebbe non solo un voto a favore dell'impunità nello Yemen, ma equivarrebbe a un via libera a ulteriori abusi e crimini di guerra.

“La sofferenza già inflitta ai civili nello Yemen richiede questo passo per affrontare l'impunità nel conflitto in corso e inviare un chiaro avvertimento ai colpevoli di tutte le parti che saranno ritenute responsabili di crimini di guerra e altre gravi violazioni del diritto internazionale umanitario e dei diritti umani”, hanno affermato i gruppi in una dichiarazione congiunta indirizzata ai 193 paesi membri dell'Assemblea generale.

Foto di Fahd Sadi via Panoramio, Creative Commons Attribution 3.0 Unported license

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