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Università, tesserino ed equo compenso: e pensare che volevo fare il giornalista

7 Luglio 2014 6 min lettura

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Università, tesserino ed equo compenso: e pensare che volevo fare il giornalista

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[L'accordo FNSI-FIEG ha suscitato dibattiti e polemiche, con una manifestazione, l'8 luglio, davanti alla sede della stessa FNSI.
Sull'accordo ci è arrivata questa lettera-sfogo di un giornalista precario, Giovanni Giaccio, che abbiamo deciso di pubblicare.]

di Giovanni Giaccio

«E tu, Giovanni, che fai?»
«Studio. All’università.»
«Ah si?! Che bello! E che vorresti fare?»
«Il giornalista!»

Improvvisamente sul volto del mio interlocutore si stampa un’espressione di disappunto e pietà. L’uomo di fronte a me pensa: “povero! Smetterà di sognare. Un bel giorno si spoglierà della speranza per indossare un camice blu che andrà a coprire jeans e t-shirt. E con quella uniforme finirà a fare il meccanico nell’officina di suo papà”.

Io, quell’espressione, la conosco bene. La so leggere, la riconosco negli occhi di tutti quelli che, quando mi incontrano, mi sottopongono quelle due domandine. E, sapete, qual è la cosa peggiore? Il fatto che gli interlocutori pensino che io disprezzi il lavoro di mio padre, che voglia atteggiarmi dicendo “che sono giornalista”. Ma io non sputo nel piatto da cui ho mangiato e continuo a mangiare. Il problema è un altro: ho tentato, ma per me un decespugliatore fuso è una macchina da riparare, mentre per papà è una scena del crimine. Per lui c’è da capire cosa abbia scatenato la fusione. Lui deve sapere. Prova quasi un’attrazione per quei casi difficili. Avete presente Hugh Laurie in Dr House? Ecco, mio padre non zoppica, ma per il resto non dorme finché non scopre la causa della patologia, poi opera e rimanda a casa il paziente.

Quella passione che scorre nelle vene di papà io la sento per altre cose. Per me c’è qualcosa di affascinante nel vedere una penna che scorre rapida su un foglio, nell’annusare l’inchiostro dei libri. Sono cresciuto innamorandomi dei taccuini, delle pagine da riempire. C’è sempre una storia da raccontare e ogni giorno è una buona giornata per andare a caccia di notizie.

Sono diventato grande così. Con le mie aspirazioni e i miei sogni. Sono fuori corso all’università perché due anni e mezzo fa ho deciso di cercare la famosa redazione nella quale fare pratica e sono stato immediatamente buttato in strada. Avevo già studiato giornalismo ma tutta quella teoria è nulla, se non ti dicono: «Devi andare alla conferenza stampa del liceo scientifico. Prendi appunti, fai due foto e poi corri a scrivere il pezzo».

Riga dopo riga, cazziatone dopo cazziatone per i miei titoli spompi, i mesi sono scivolati via così. Un bel giorno, mi sono ritrovato a firmare dei moduli: stavo chiedendo di essere iscritto all’Ordine.

Quando il tesserino è arrivato, il giornale per il quale lavoro ha scritto un bell’articolo, mi ha ringraziato e mi ha fatto i migliori auguri. Da quel momento, il telefono ha cominciato a trillare: notifiche, messaggi privati, e-mail, sms e whatsapp. Più o meno tutti scrivevano: “Congratulazioni, questo è solo l’inizio. Ti auguro il meglio. Continua così”.

Per un momento, devo ammetterlo, c’ho creduto. Mi sono detto: “Il primo passo verso la direzione giusta. Ora devi finire questa dannata triennale. Continua a scrivere per il portale, continua a esercitarti e vedi se riesci a trovare qualcosa per guadagnare”. Un discorsetto in piena regola, carico di speranza.

Poi c’è stato il Festival Internazionale del Giornalismo dove direttori, redattori, freelance e via dicendo non hanno fatto altro che ripetere: «Visti i tempi, scordatevi il posto fisso. Pensate alla libera professione. Questa è la soluzione».

Da Perugia a Roma e poi fino a Isernia, quindi ad Agnone. Un viaggio per un totale di sei ore in cui ho metabolizzato il cambiamento e felice ho esultato: “sarai il capo di te stesso! Questa si che è una novità! Ben venga!”.

Sembrava essere quasi arrivato il lieto fine finché inizio a leggere strane dichiarazioni del presidente dell’ordine dei giornalisti. Enzo Iacopino, per mezzo della sua pagina Facebook, parlava di inciuci, riunioni notturne, associazioni tra FNSI e FIEG. Si, avete capito bene: controllore e controllato a braccetto. E non per andare a cena fuori, a parlare dell’ultimo film di Pif. No!
Si stava insieme per decidere le sorti del giornalismo.

Frutto di questo connubio è una legge che consentirà a tutti i freelance di guadagnare qualcosa come 20,84€ a pezzo. La cosa spaventosa è che io, da giovane sciocco, speranzoso e illuso, ho pensato: “Per la miseria! Mica poco!”

Si! Perché noi, giovani troppo choosy, ci siamo abituati a non essere pagati. A vedere il lavoro di 24 mesi retribuito con un rimborso, qualche tassa e soprattutto visibilità, quella che anni fa (prima del 2.0) veniva chiamata esperienza da mettere sul curriculum. Quindi, come scrivevo prima, ho esultato. E l’ho fatto con gioia. Poi, ho notato l’indignazione di alcuni colleghi e sono andato a fondo e, ancora una volta, ho dovuto dire: “ma in che cazzo di mondo vivo?”

Improvvisamente lo scenario era cambiato: da questa relazione tra FNSI e FIEG, era nato un bella bambina chiamata Schiavitù. Si tratta di un tariffario che non consentirebbe a nessuno di fare il giornalista, a meno che non lo si faccia per hobby:

[… ]Con questo accordo la professione giornalistica diventa appannaggio dei pochi che potrebbero permettersi di scrivere articoli giornalistici (ovvero scrivere professionalmente, con regole e deontologia, non scrivere per hobby) senza poi ricevere uno stipendio adeguato. Perché con questo accordo di giornalisti di professione ce ne saranno sempre meno, perché con la firma sui pezzi non fai la spesa. E un Paese con meno giornalisti sulle strade è un luogo con meno notizie, con meno informazione. E meno informazione significa meno libertà di giudizio e di opinione. Significa essere meno consapevoli, prendere decisioni collettive e personali con poca cognizione.

Così scrive Marco Borraccino sul Fatto Quotidiano. In poche righe, si riassume una situazione paradossale.

Ci si chiede di studiare e, contemporaneamente di fare esperienze che arricchiscano il curriculum affinché si possa trovare lavoro più facilmente. Allo stesso tempo, però, facendo esperienza si sottrae tempo allo studio causando un dispendio di denaro che non possiamo reintegrare dal momento che noi giovani siamo sempre più sottopagati e sfruttati.

Ottenuto il titolo, ci vediamo proporre contratti di lavoro che non prevedono orari né mansioni precise. Nascosti dallo scudo della gavetta ci si fa fare di tutto. Scrivere per un quotidiano locale significa scrivere di tutto, aggiornare le pagine social, montare videoclip per il canale YouTube e cercare anche di trovare una strategia aziendale che consenta allo staff del giornale di essere pagato. E si va avanti così, per passione.

Davanti a questo scenario però ci si chiede: fin quando potrò andare avanti? Fin quando, la voglia di indipendenza sarà minore a quella di fare carriera nel settore che si ama? E fin quando è giusto non prepararsi a un piano B, una soluzione alternativa?

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Mi guardo intorno e vedo che la situazione è omogenea. Paola, 29 anni. Una laurea in veterinaria, iscrizione all’albo, diverse esperienze alle spalle. Riempie le sue giornate come turnista in una clinica dove viene pagata solo quando «lavora di notte o nei week end».

Insomma. Questa Italia è al capolinea e di lavoro non ce n’è e nemmeno lo si prova a creare.

I giornalisti sono solo l’ultima categoria a vivere questo sopruso. Se schiacciano noi, pesteranno anche il vostro diritto all’informazione, alla critica e alla verità. 

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