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Thailandia, le proteste contro governo e monarchia dai social alle piazze: “Pensano che arrestando i leader ci fermeranno. Ma è inutile. Oggi siamo tutti leader”

25 Ottobre 2020 6 min lettura

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Thailandia, le proteste contro governo e monarchia dai social alle piazze: “Pensano che arrestando i leader ci fermeranno. Ma è inutile. Oggi siamo tutti leader”

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Da settimane in Thailandia decine di migliaia di persone prendono parte alle proteste contro il governo, chiedendo le dimissioni del primo ministro Prayuth Chan-ocha, una riforma della Costituzione e una riforma legale, politica, ed economica della monarchia.

Largamente ignorate dal governo, le loro richieste hanno cominciato a mutare ad agosto, quando Panusaya Sithijirawattanakul, una studentessa di 21 anni, ha letto, di fronte ad una piazza gremita, un documento destinato a fare la storia del paese.

Scrive Claudio Sopranzetti su il manifesto: "La loro rabbia generazionale, cresciuta sotto la morsa di un governo militare salito al potere attraverso un colpo di stato nel 2014, ratificato da una elezione di discutibile legittimità nel 2019 e incapace di rispondere ad una crisi economica solo peggiorata dal Covid, era rivolta perlopiù contro Prayuth e la struttura legislativa che aveva permesso la sua presa di potere... Panusaya ha letto con voce sicura una serie di richieste senza precedenti: togliere l’immunità legale al monarca, eliminare la legge di lesa maestà (che colpisce ogni critica alla monarchia con 3 a 15 anni di detenzione), tagliare i fondi, le proprietà e le tasse destinate alla monarchia, rendere i suoi investimenti trasparenti e tassabili, proibire ai membri della famiglia reale di esprimere pareri politici, sospendere ogni forma di propaganda monarchica, investigare la scomparsa negli scorsi anni di vari critici della monarchia e rendere illegale per il monarca dare supporto ad un colpo di stato".

La risposta del governo è stata molto dura, imponendo nella capitale Bangkok lo “stato di emergenza”, entrato in vigore lo scorso giovedì. La misura – che rende illegale qualsiasi riunione con più di quattro persone - è stata usata dalla polizia per arrestare più di venti persone tra cui alcuni dei leader della protesta, che era partita dagli studenti già diversi mesi fa.

Con un comunicato l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Diritti Umani ha esortato il governo thailandese a garantire i diritti fondamentali di riunirsi in assemblea e della libertà di parola e hanno chiesto la fine della repressione delle proteste: “L’imposizione dello stato di emergenza è l’ultima di una serie di misure draconiane finalizzate a soffocare manifestazioni pacifiche e criminalizzare le voci di dissenso (…) Ai thailandesi dovrebbe essere consentito di esprimersi liberamente e di condividere le loro visioni politiche, sia online che offline, senza essere perseguitati”.

https://twitter.com/AFPphoto/status/1317095449644298246?s=20

Tra le azioni repressive intraprese dal governo c’è stato l’ordine – poi confermato da un tribunale – di sospendere le trasmissioni di Voice TV, un canale online critico del governo, colpevole, secondo le autorità, di aver violato il Computer Crime Act, diffondendo “informazioni false”.

Voice TV era una delle quattro piattaforme sotto inchiesta per la loro copertura del movimento di protesta, in diretta su Facebook o altri social. Secondo il vicedirettore regionale per le campagne di Amnesty International, Ming Yu Hah, Voice TV stava semplicemente «facendo il suo lavoro, raccontando le crescenti proteste pacifiche nel paese. Così come le accuse contro i leader delle manifestazioni, queste tattiche sono chiari tentativi da parte della autorità di intimidire e ridurre le persone al silenzio». Le molestie nei confronti dei media, ha aggiunto, «sono solo un aspetto dell’attacco delle autorità thailandesi ai canali di comunicazione, insieme alle minacce di bloccare la piattaforma di messaggistica Telegram e l'uso del Computer Crime Act, tra le altre leggi, contro le persone per ciò che pubblicano e condividono online».

Uno dei punti previsti dallo “stato di emergenza” riguarda infatti il divieto di pubblicazione di notizie che “potrebbero creare paura” o “influenzare la sicurezza nazionale” e addirittura di postare selfie dalle proteste – punibile con una pena fino a due anni di reclusione. Questo, come si legge in un articolo di Rodion Ebbighausen su Deutsche Welle, “dimostra l’importanza che il governo dà ai social media”.

Il movimento di protesta che si sta riversando nelle strade, infatti, è cominciato su Internet. Uno dei luoghi è stato il gruppo su Facebook “Royalist Marketplace”, creato lo scorso aprile dal politologo Pavin Chachavalpongpun, thailandese che vive in Giappone. Si tratta, ricostruisce Ebbighausen, di un canale satirico in cui il fondatore e altri utenti postano finti annunci di vendita della famiglia reale. Un post, ad esempio, invitava all’acquisto del letto in legno in cui nel 1964 il re King Ananda era stato trovato ucciso con colpi da arma da fuoco in circostanze mai chiarite.

In poche settimane, il gruppo ha raccolto più di un milione di membri, ed è diventato uno dei venti gruppi più grandi su Facebook al mondo, mischiando uno stile fatto di intrattenimento, meme, cultura pop, video su TikTok e Youtube e discussione politica. Il salto dai social alle strade c’è stato quest’estate, quando le proteste contro il governo e la monarchia sono iniziate, sono iniziate ad apparire cartelli con il logo di Royalist Marketplace.

Parallelamente, sono nati online anche gruppi di segno opposto, a supporto della famiglia reale. Ma nessuno ha raggiunto il seguito di Royalist Marketplace. Secondo Pavin, questo dipende dal fatto che i gestori non conoscono i social media bene quanto lui e altri giovani. «In altre parole, il governo sta perdendo la partita perché non è al passo con le nuove tecnologie», ha detto in un’intervista con il giornale Blickwechsel.

Ebbighausen scrive che sono i social stessi oggi “a essere parte del dibattito”. Facebook ad esempio il 24 agosto ha bloccato l'accesso dalla Thailandia a Royalist Marketplace, dopo che il governo thailandese aveva minacciato azioni legali contro l’azienda. Il fatto aveva scatenato proteste a livello internazionale, e Facebook aveva annunciato che avrebbe agito legalmente contro il governo per le pressioni ricevute. Poco dopo, Pavin aveva creato un nuovo gruppo con un nome simile, raccogliendo in meno di un mese oltre 1 milione di iscritti.

All’inizio di ottobre, invece, Twitter ha chiuso circa mille account riconducibili all’esercito thailandese, accusandoli di diffondere propaganda e disinformazione, nonché di attaccare oppositori politici. A maggio, il governo ha bloccato il sito della piattaforma Change.org, dopo che era stata postata una petizione con più di 130 mila firme che chiedeva che il re della Thailandia, Rama X, fosse dichiarato persona non gradita in Germania, dove ha trascorso diverso tempo negli ultimi anni. Altre restrizioni hanno riguardato addirittura profili su Tinder - usati per condividere messaggi pro-democrazia - e hashtag su TikTok.

In un articolo su ForeignPolicy, Daria Impiombato e Tracy Beattie scrivono che le piattaforme dei social media "esercitano un potere significativo nel plasmare la discussione politica, non solo in Thailandia ma nel mondo", e per questo motivo "dovrebbero essere responsabili della protezione dei diritti dei loro utenti".

Negli ultimi giorni, dopo il divieto di raduni di natura politica con più di quattro persone, Telegram è diventato uno dei maggiori strumenti per organizzare e coordinare le proteste. Come riporta la BBC, un collettivo di manifestanti chiamato Free Youth ha creato un gruppo che ha raggiunto 200 mila iscritti poco dopo il lancio. La risposta del governo Thailandese è stata quella chiedere il blocco dell’app.

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I social vengono usati anche per prendere decisioni, in un movimento che si presenta come un posto dove tutti sono leader – nonostante ci siano alcuni esponenti più in vista – replicando il modello delle proteste di Hong Kong. Lunedì scorso, ad esempio, la pagina Facebook Free Youth ha chiesto ai suoi utenti di votare se le proteste dovessero o meno prendersi una pausa: nel primo caso dovevano cliccare la reaction "abbraccio", altrimenti quella "wow" per continuare. Ha vinto quest'ultima opzione.

Secondo il politologo dell’Università di Sidney Aim Sinpeng, i manifestanti thailandesi stanno cercando di mantenere una leadership aperta e “sostituibile”. È quello che ha urlato domenica scorsa verso la folla Pla, un manifestante di 24 anni, davanti al Monumento alla Vittoria a Bangkok: «Pensano che arrestando i leader ci fermeranno. Ma è inutile. Oggi siamo tutti leader».

Foto anteprima: Prachatai - CC BY 3.0  via Wikimedia Commons

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