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La strage di Atlanta e l’odio razziale contro gli asiatici

25 Marzo 2021 7 min lettura

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La strage di Atlanta e l’odio razziale contro gli asiatici

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Martedì 16 marzo, il ventunenne Robert Aaron Long fa irruzione in tre centri massaggio poco distanti l’uno dall’altro nella città di Atlanta, in Georgia, uccidendo a colpi di arma da fuoco sette donne, di cui sei di origine asiatica, e un uomo. Poco più di tre ore dopo, catturato dalla polizia, Long confessa di essere l’autore delle tre sparatorie e di aver commesso gli omicidi per “una dipendenza sessuale”. La polizia, ancora nella fase iniziale delle investigazioni, fa sapere di non aver escluso il movente razziale, ma le dichiarazioni del capo della polizia, Jay Baker, sembrano andare in un’altra direzione. Baker descrive Long come una persona che ha “problemi con il porno”, “arrivato al limite” – aggiungendo  – “Ha avuto una brutta giornata e questo è quello che ha fatto”.

Come scrive Shaila Dewan sul New York Times, questa modalità di comunicazione ha una implicazione ben precisa: il movente deve essere di stampo razziale o sessuale, i due fattori non possono essere veri allo stesso tempo. Tesi che è stata rigettata sin da subito dalla comunità asiatica americana che, nella tragedia di Atlanta, ha visto l’ennesimo atto di violenza nei confronti di persone di origine asiatica, soprattutto donne. Secondo un’analisi diffusa dal Center for the Study of Hate and Extremism della California State University, le manifestazioni di odio nei confronti di asiatici americani, negli Stati Uniti, sono aumentate del 150%, a fronte di una diminuzione del 7% dei crimini totali. Dati preoccupanti emergono anche dal report stilato dal gruppo Stop AAPI Hate, che ha raccolto 3.292 segnalazioni di incidenti legati alla discriminazione razziale di cui quasi il 70% da parte di donne. 

Ad avere un ruolo determinante nella crescita delle violenze e delle manifestazioni di odio nei confronti di asiatici americani sono state le numerose espressioni dispregiative utilizzate dall’ex presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, durante tutto l’ultimo anno. A dimostrarlo uno studio pubblicato sull’American Journal of Public Health, dove alcuni ricercatori dell'università della California hanno analizzato più di un milione di hashtag e dimostrato una correlazione tra l’utilizzo dell’espressione “chinese virus” e sentimenti anti-asiatici. Tra gli appellativi maggiormente utilizzati da Trump  per chiamare la COVID-19  ricordiamo “the China-virus”, “Kung-flu” e “Wuhan Flu”, volte a rimarcare l’esclusiva responsabilità – se non colpa – della Cina nella diffusione del coronavirus. Trump non ha perso occasione di ripeterle, in una intervista a Fox News, anche la sera stessa dei fatti di Atlanta

Eppure il razzismo nei confronti di persone di origini asiatiche è un problema che la società americana si porta dietro da ben prima della COVID-19. “Credo che questa ondata sia attribuibile alla retorica utilizzata dai leader politici, ma non credo che avremmo visto questo picco di pregiudizi anti-asiatici senza una base piuttosto solida radicata nello stereotipo dell’essere “per sempre straniero”, spiega a Vox Janelle Wong, professoressa di studi asiatici americani all’Università del Maryland. Nei giorni successivi agli omicidi nelle tre spa di Atlanta, Andy Kim, membro del Congresso americano, ha raccontato in un thread su Twitter di quando, in qualità di giovane funzionario,  ricevette una lettera dal dipartimento di Stato che gli comunicava l’allontanamento da qualsiasi missione che riguardasse temi inerenti alla Corea, nonostante fosse nato e cresciuto negli Stati Uniti e non parlasse una parola di coreano. Di fatto gli Stati Uniti dichiaravano che non si sarebbero fidati di lui per via di un cognome uguale a quello del dittatore della Corea del nord, Kim Jong-un.

Le radici del razzismo nei confronti degli asiatici, negli Stati Uniti, risalgono a metà dell’Ottocento quando furono varate due leggi contro l’immigrazione: the Page Act del 1875 e the Chinese Exclusion Act del 1882. Furono tra le prime leggi che vietarono ai cinesi l’ingresso negli Stati Uniti a causa di una diffusa xenofobia e, più in generale, per via dei lavoratori locali preoccupati per la concorrenza straniera. Questo tipo di leggi, oltre a limitarne l’ingresso, impediva ai cinesi già presenti negli Stati Uniti di ottenere la cittadinanza. 

“Uncle Sam kicks out the Chinaman” is an 1886 advertisement referring both to the 1882 Chinese Exclusion Act and to the “George Dee Magic Washer,” which the machine’s manufacturers hoped would displace Chinese laundry operators. Wiki Commons

Tra il 1870 e il 1880, con la diffusione del vaiolo nella città di San Francisco, i residenti cinesi vennero utilizzati a lungo come capri espiatori perché considerati una “razza inferiore”. E la situazione non fu diversa quando, a inizio Novecento, venne rilevato un caso di peste bubbonica nel quartiere di Chinatown: 14 mila cinesi americani vennero messi in quarantena  anche se la peste era di fatto già presente nel resto della città. Alcuni funzionari arrivarono addirittura a proporre il trasferimento in centri di detenzione. Il razzismo ha trovato terreno fertile durante la seconda guerra mondiale quando, in risposta a Pearl Harbour, il presidente Franklin D. Roosevelt istituì dei centri di detenzione rivolti esclusivamente ai cittadini americani di origine giapponese. 

Se il capo della polizia, riportando le dichiarazioni di Long, ha rimarcato e convogliato le indagini verso il movente sessuale, alcuni media (su segnalazione di un account Twitter) hanno riportato come lo stesso capitano Baker – che ha descritto l’azione di Long come quella di una persona che “ha avuto una brutta giornata” – abbia condiviso, a fine marzo 2020, post promozionali di magliette con su scritto “COVID-19 imported virus from CHY-NA”, riprendendo uno dei più frequenti slogan di Trump.

Nel fine settimana seguente alla strage di Atlanta, migliaia di persone in diverse città degli Stati Uniti sono scese in strada per denunciare il razzismo strutturale nei confronti degli asiatici americani che si è andato consolidando anche grazie al cosiddetto modello del “mito della minoranza”. Introdotto per la prima volta nel 1966 dal sociologo William Peterson sul New York Times Magazine, il “mito della minoranza” fu usato a lungo per spiegare il successo dei giapponesi americani rispetto alle altre minoranze presenti negli Stati Uniti. Un vero e proprio sistema di gerarchizzazione delle razze che ha finito per rafforzare gli stereotipi, dividere le minoranze e fatto perdere la percezione secondo cui ognuna di queste vive il razzismo in forme differenti. Una visione che trova riscontro ancora oggi, come dimostrano alcune dichiarazioni di Andrew Yang, candidato alle primarie democratiche 2020. In un editoriale sul Washington Post, Yang spiega come gli asiatici americani debbano dimostrare la loro american-ness (“americanità”) comportandosi da buoni cittadini: "Noi, asiatici americani, dobbiamo abbracciare e mostrare la nostra americanità in modi che non abbiamo mai provato prima. Dobbiamo farci avanti, aiutare i nostri vicini, votare rosso bianco e blu, fare volontariato, fondare organizzazioni di supporto, e fare qualsiasi cosa per accelerare e anticipare la fine di questa crisi. Dobbiamo dimostrare senza ombra di dubbio che siamo americani pronti a fare la loro parte in questo momento del bisogno".  

Un modo per dire che il diritto alla cittadinanza non è dovuto, ma si deve conquistare ogni giorno dimostrando di essere cittadini migliori degli stessi americani. E quando un uomo di 84 anni, di origini thailandesi, viene brutalmente assalito e spintonato a terra per le strade di San Francisco con tanta forza da provocarne la morte per emorragia cerebrale – come è successo nel gennaio scorso a Vicha Ratanapakdee – ci si rende conto che la pandemia ha messo in risalto un razzismo non più trascurabile per via degli innumerevoli episodi di violenza, dove le donne sono le vittime principali.

"Essere una donna asiatica in America vuol dire ascoltare uomini, specialmente uomini bianchi, che provano a raccontarti le loro storie di guerra di quando erano in Corea, in Vietnam e, qualche volte, in Medio Oriente. Sono stata avvicinata più volte da uomini bianchi veterani del Sud che mi chiedevano se fossi coreana o vietnamita. Quando gli dico che sono una cinese americana, rimangono delusi, per quanto poi continuano con le loro storie di guerre asiatiche e di come io gli ricordi quelle donne coreane o vietnamite che hanno conosciuto lì. Ho sempre cercato di svincolarmi da queste conversazioni il prima possibile". Jennifer Ho, professoressa di studi asiatico-americani all’Università del Colorado Boulder, figlia di un padre rifugiato cinese e di una madre immigrata giamaicana, racconta in un articolo su CNN cosa significa essere donna e asiatica negli Stati Uniti, anche attraverso vicende vissute in prima persona. Come fa anche Sung Yeon Choimorrow, direttrice del National Asian Pacific American Women’s Forum al New York Times e altre centinaia di donne che in questi mesi stanno trovando il coraggio – e lo spazio – di raccontare i soprusi e le violenze che hanno subito: "Ho vissuto il razzismo e ho vissuto il sessismo. Ma non li ho mai provati come quando sono venuta negli Stati Uniti".

Storie che hanno tutte una matrice comune: la percezione della donna asiatica non come soggetto, ma oggetto esclusivamente sessuale con connotati estremamente stereotipati che la dipingono come un essere fragile, innocuo, passivo e accondiscendente su qualsiasi fantasia sessuale. Immagine che deriva dalla guerra di Corea, quando la presenza militare americana in diversi paesi dell’Asia Orientale ha costretto migliaia di donne senza alcuna alternativa alla prostituzione. Alcune di loro, arrivate negli Stati Uniti attraverso il traffico della prostituzione e matrimoni combinati con i militari, hanno iniziato ad aprire delle attività proprie, tra cui molte spa. Da qui il corollario secondo cui tutte le massaggiatrici asiatiche sono lavoratrici del sesso, e di conseguenza, per assunzione, lo sono anche tutte le donne asiatiche.  

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La pandemia ha esacerbato sentimenti di diffidenza e alimentato preconcetti nei confronti di persone di origine asiatica. E le donne, nella maggior parte dei casi, diventano le principali vittime di un razzismo strutturale e intersezionale che tiene insieme misoginia e suprematismo bianco.

Foto anteprima  CDEL family sotto licenza CC BY 2.0

Aggiornamenti

Aggiornamento 25 marzo 2021, ore 10:57: Nell'articolo abbiamo sostituito l'espressione "cavie" con "capri espiatori" grazie alla segnalazione di un lettore in questo punto > Tra il 1870 e il 1880, con la diffusione del vaiolo nella città di San Francisco, i residenti cinesi vennero utilizzati a lungo come cavie perché considerati una “razza inferiore”.

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