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Startup non tecnologiche, figlie di un dio minore

8 Agosto 2013 3 min lettura

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Startup non tecnologiche, figlie di un dio minore

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A dire il vero, non c'è nulla di moderno né di innovativo nel concetto di startup: molto semplicemente, con dispiacere per i grandi innovatori di oggi, è un termine inglese utilizzato in economia in tempi non sospetti per indicare un'azienda al suo stato embrionale, che ha appena iniziato a operare e che spesso ricorre a un venture capital (leggi: investitori che mettono del denaro restando fuori dalla società) per iniziare la sua attività di impresa.

La distorsione nell'utilizzo del termine è arrivata - almeno in Italia - da non più di tre anni, quando si è iniziato ad associare il concetto di "impresa che nasce" a "impresa di giovani" (erano gli anni in cui "imprenditoria giovanile" era un mantra) per poi approdare oggi finalmente in "impresa di ragazzi che, emulando la Silicon Valley quasi trent'anni dopo, vogliono diventare i nuovi Steve Jobs, o almeno finire in un film come Zuckerberg". Tanto è entrato nell'immaginario - meglio, nei sogni - di qualche illuminato che oggi se non fai impresa con le nuove tecnologie, se non sei un ragazzo prodigio che, ostacolato da tutti, riesce a proporre la sua nuova applicazione scintillante all'estero, non puoi essere considerato degno di un trattamento incentivante.

A conferma e cristallizzazione di questo sogno tecnologico, a fine 2012 viene approvato il c.d. Decreto Crescita 2.0 che tra i vari fondamentali e necessari obiettivi che si pone include una sezione dedicata alle startup innovative, particolari tipi di impresa che grazie a questa norma possono godere di esenzioni fiscali, agevolazioni burocratiche ed una serie di facilitazioni in generale che sono oro colato per ogni azienda in fase embrionale. I requisiti per accedere a questi aiuti sono molteplici, per lo più a livello societario e di capitale, ma primo fra gli altri, c'è quello di avere:

quale oggetto sociale esclusivo o prevalente lo sviluppo, la produzione e la commercializzazione di prodotti o servizi innovativi ad alto valore tecnologico.

Per farla breve, se lavori con Internet ti aiutiamo, altrimenti ti arrangi.

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Pur credendo fermamente nella necessità di investimenti seri, consistenti e ben organizzati nel campo delle nuove tecnologie, la paura è che in realtà, quella delle startup stia diventando tristemente una moda, un modo di dire che il passo verso la modernità lo stiamo facendo eccome, stiamo finanziando i giovani che hanno le idee buone.

Forse perché in questa situazione mi ci sono trovato, e forse perché l'Italia non è mai stata ai vertici della ricerca tecnologica - almeno nell'ultimo secolo - mi viene da far notare come ci sia un mondo enorme di persone che prova a fare impresa fuori dal ramo tecnologico e che per quanto sia capace e volenteroso non può che scontrarsi contro un muro fatto di prestiti in banca negati, di migliaia di euro versati ogni anno per gestire solo le formalità che una anche piccola società richiede più una serie infinità di difficoltà più o meno burocratiche che tolgono il sonno la notte. In una paese che è in assoluto il più ricco di arte, di cultura, così come di patrimoni naturali e culinari, una moda rischia di farci sperare inutilmente che il settore informatico - nel quale, a  oggi, siamo tutto tranne che competitivi - possa trascinare da solo un Paese.

Non sono un retrogrado, ho 25 anni, credo nella tecnologia e vivo di Internet, ma sono convinto che ci siano altrettanti ragazzi che hanno un'idea vincente in altri settori, dai materassi agli alimentari. Dobbiamo incentivare chi investe in tecnologia, certo, ma non dobbiamo farci accecare dall’illusione che pochi casi positivi possano risollevare un paese, dobbiamo capire che non è tutto qui. Rischiamo di giocare all'inseguimento di un sogno americano che in Italia non potrà esserci, ignorando parte di una giovane generazione che a volte impiega una vita in approfonditi ed eccellenti studi in un settore che è troppo poco alla moda per essere ascoltato.

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